sabato 6 giugno 2015

Il bivio del rottamatore di Alberto Burgio


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Natu­ral­mente i primi com­menti di Renzi e dei suoi al risul­tato delle ammi­ni­stra­tive sono impron­tati alla iat­tanza. Abbiamo stra­vinto 5 a 2 e il resto è chiac­chiera, ha signo­ril­mente glos­sato il Gue­rini, gen­tle­man della poli­tica 2.0. Ma sta­volta le spac­co­nate non bastano. Negare l’evidenza è pos­si­bile ma non cam­bia le carte in tavola. Che dicono senza pos­si­bili smen­tite la boc­cia­tura del governo e del suo capetto.
I fatti sono già stati ana­liz­zati dalla stampa, una volta tanto una­nime. Non solo il Pd perde due milioni di voti in un anno (e un milione rispetto all’era Ber­sani) a van­tag­gio dell’astensionismo e della destra. Non solo torna così in pros­si­mità della soglia del 25% che Renzi suole agi­tare con­tro la vec­chia nomen­kla­tura del partito.
Oltre a ciò, le due figure sim­bo­li­ca­mente più vicine a Renzi (Moretti e Paita) escono anni­chi­lite dalla prova elet­to­rale. Non per il tra­di­mento del nemico interno né per la forza stra­ri­pante della Lega, ma per la qua­lità delle per­sone scelte.
Nella migliore delle ipo­tesi incon­si­stenti, più vero­si­mil­mente rifiu­tate per ciò che rappresentano.
E così tor­niamo al punto di par­tenza: a uno stile di governo e a un intrec­cio di poteri e di inte­ressi che anche gli elet­tori del Pd comin­ciano final­mente a rico­no­scere nella sua cifra anti­so­ciale, pre­da­trice, distrut­tiva, ai limiti della lega­lità o ben oltre il con­fine dell’illegalità, come in Ligu­ria, con le pri­ma­rie al vaglio dell’autorità giu­di­zia­ria, o in Cam­pa­nia, con un «impre­sen­ta­bile» eletto pre­si­dente nono­stante i veti posti dalla legge al suo inse­dia­mento. Per tacere di Roma. Renzi, insomma, ha subito un duro colpo per quello che è e che rap­pre­senta. E lo ha subito dal suo elet­to­rato che rifiuta di seguirlo nella sua avventura.
Se que­sto è vero, l’aspetto più inte­res­sante di que­sta tor­nata elet­to­rale è costi­tuito dal feno­meno più macro­sco­pico veri­fi­ca­tosi nell’arco di tempo (l’anno solare inter­corso tra le euro­pee del 2014 e que­ste ammi­ni­stra­tive) coin­ci­dente con l’esperienza gover­na­tiva di Renzi. Alle euro­pee il Pd prese più del 40%, voti che in larga misura pre­mia­rono il pro­filo di una nuova lea­der­ship vocata al cam­bia­mento. Ora si atte­sta su per­cen­tuali che in sostanza dimez­zano quell’exploit.
Ne viene fuori il qua­dro di un elet­to­rato vola­tile e incoe­rente. E for­te­mente diso­rien­tato. Che solo in parte riflui­sce nell’astensionismo, men­tre in una misura signi­fi­ca­tiva, che l’analisi dei flussi pre­ci­serà, si volge addi­rit­tura alla destra estrema, quella for­ca­iola delle ruspe.
Se com­piamo lo sforzo di guar­dare i risul­tati di que­ste ele­zioni con distacco, emerge uno dei pro­blemi più seri di que­sta fase storica.
La parte migliore del paese si rivela per­lo­più priva di rap­pre­sen­tanza e di dire­zione poli­tica. Ora fidei­sti­ca­mente affi­data ai nuovi orien­ta­menti via via impo­sti dai gruppi diri­genti della poli­tica. Ora delusa, avvi­lita, rab­biosa quando, alla prova dei fatti, si accorge di essere stata per l’ennesima volta bug­ge­rata. Per cui si muove con un anda­mento sin­co­pato e desul­to­rio, se non schi­zoide. Con­traendo, per un verso, gra­vis­sime respon­sa­bi­lità, per­ché il ple­bi­scito dello scorso anno è stato una delega in bianco, che è valsa l’introduzione di «riforme» deva­stanti. Rive­lando, per l’altro, l’esistenza di un cospi­cuo patri­mo­nio di poten­ziali con­sensi che la sini­stra potrebbe ricon­qui­stare se ritro­vasse il ban­dolo di una matassa sin qui enig­ma­tica. Tutta la sini­stra, den­tro e fuori il Pd, se mai mira­co­lo­sa­mente acca­desse che il ceto poli­tico tro­vasse in sé la capa­cità di disin­te­res­sarsi delle pro­prie sorti e dei pro­pri pri­vi­legi per inve­stire in una cesura costi­tuente di una forza sociale decisa a rial­zare le ban­diere dell’uguaglianza, della giu­sti­zia e della pace, dei diritti del lavoro e delle ragioni della sfera pubblica.
In che dire­zione la situa­zione si evol­verà – se, cioè, all’elettorato di sini­stra in sof­fe­renza sarà dato modo di farsi valere per ria­prire una sta­gione di bat­ta­glie civili e di con­qui­ste sociali; oppure gli sarà ulte­rior­mente impo­sta que­sta fru­strante con­di­zione di clan­de­sti­nità – lo sapremo pre­sto, alle pros­sime poli­ti­che, che molti osser­va­tori riten­gono ormai pros­sime e che deb­bono essere con­si­de­rate il punto di caduta dei rivol­gi­menti emersi nella tor­nata elet­to­rale di domenica.
Si pro­fila, molto sem­pli­fi­cando, un’alternativa netta, in rela­zione alla quale azzar­dare qual­che previsione.
Di qui alla fine della legi­sla­tura Renzi potrebbe trarre inse­gna­mento dal voto regio­nale, inver­tendo la dire­zione di mar­cia e rico­no­scendo le ragioni dei set­tori sociali – lavoro dipen­dente in pri­mis – col­piti dalle sue «riforme». Fare mar­cia indie­tro sulla scuola, ricre­dersi sulla libe­ra­liz­za­zione dei licen­zia­menti, resti­tuire ossi­geno agli enti locali e ren­dere meno ini­qua la ripar­ti­zione del carico fiscale potrebbe fer­mare l’emorragia e forse resti­tuire al Pd una parte dell’elettorato che lo ha abban­do­nato. Ma Renzi, come pare, potrebbe invece rilan­ciare, pun­tare tutto sulla radi­ca­lità del «cam­bia­mento», sulla muta­zione gene­tica del par­tito e sul con­so­li­da­mento di un blocco sto­rico a domi­nante mode­rata nel qua­dro del pro­cesso di ame­ri­ca­niz­za­zione del paese. Dando per persi quei voti e scom­met­tendo sulla con­qui­sta di nuovi con­sensi a destra, per rea­liz­zare il mai tra­mon­tato pro­getto populistico-monocratico del Par­tito della nazione.
Quale delle due ipo­tesi si rea­liz­zerà? Se Renzi è quello che cono­sciamo, la domanda è reto­rica. Una linea di com­pro­messo, che impli­che­rebbe una seria auto­cri­tica, appare inve­ro­si­mile, men­tre il fascino dell’azzardo seduce il per­so­nag­gio, non meno di prima abba­gliato dal pro­prio pre­teso carisma.
Nem­meno la ran­del­lata di que­ste ele­zioni basterà a farlo rin­sa­vire. Con ogni pro­ba­bi­lità ci aspet­tano altri anni (forse solo qual­che mese) di guerra di movi­mento, con un governo fre­ne­ti­ca­mente ope­roso con­tro chi ha il grave torto di non avere altro da spen­dere – e da per­dere – fuor­ché il pro­prio lavoro e i pro­pri sem­pre più fra­gili diritti.

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