Introduzione a Norbert Trenkle, “Terremoto nel mercato mondiale”, Mimesis 2014
I due testi qui presentati sono solo una piccola parte della notevole produzione del gruppo Krisis, un gruppo tedesco che si occupa oramai da quasi trent’anni delle tematiche della crisi capitalistica e del possibile superamento del sistema che la genera. Molti scritti, per lo più in tedesco, si possono trovare nel loro sito web http://www.krisis.org. La crisi economica deflagrata nel 2008, che in qualche modo ha inverato le loro posizioni – sostenute in tempi non sospetti e ben prima che questa stessa crisi scoppiasse – ha convogliato l’attenzione di molti su questo pensiero, che è stato tradotto con una certa insistenza un po’ ovunque nel mondo. La ricezione italiana non ha, invece, fatto grandi passi in avanti, e ciò può forse spiegarsi con il fatto che le tesi sostenute da questo gruppo appaiono decisamente indigeste e inusuali per il panorama della sinistra italiana, tutto rivolto ad interpretare il crack capitalistico come una sorta di passaggio attraverso il quale il capitale affina/aggiorna le sue pratiche di sfruttamento e pone le basi per un ulteriore e ancora più efficace fase di accumulazione.
Il gruppo nasce per iniziativa di Robert Kurz, purtroppo recentemente scomparso, Ernst Lohoff, Peter Klein, Udo Winkel, Norbert Trenkle ed altri, dapprima nel 1986 come rivista dal nome Marxistische Kritik poi dal 1990 come gruppo Krisis, nome che assume anche la rivista stessa. Nel 2004, infine, Robert Kurz si è separato dal gruppo Krisis fondando una sua rivista, Exit, molti articoli della quale sono consultabili sul sito http://www.exit-online.org. Esiste infine un terzo gruppo, che lavora sulle stesse tematiche e si riconosce nella linea di pensiero tracciata dal gruppo Krisis, che ha sede in Austria e che si ritrova attorno alla rivista Streifzüge. Anche in questo caso molti dei loro testi, anche in italiano, sono rintracciabili sul loro sito http://www.streifzuege.org/.
Come si intuisce già dal nome, al centro della loro riflessione si pone la questione della crisi, precisamente della crisi del sistema capitalistico. Rileggendo Marx in chiave inattuale, soprattutto la sua riflessione proprio sulla crisi capitalistica – riflessione generalmente sottaciuta o comunque sottovalutata dal pensiero marxista successivo – il gruppo Krisis ha cercato di mettere in evidenza come questo aspetto giochi invece un ruolo decisivo nella riflessione marxiana. Anzi, come possa rappresentare, nell’epoca della “crisi fondamentale”, in cui anche ogni progetto di rivoluzione sociale radicale sembra esser stato spazzato via in nome dell’accettazione di un sistema spacciato come il “migliore dei mondi possibili” o al massimo di una più ragionevole ricerca di una possibile sua riforma in senso “umanitario”, una strada maestra verso la ripresa di una prospettiva di rottura e di uscita dal meccanismo di dominio del capitale.1
I “punti-forza” espressi nei testi qui presentati, ma non solo, punti che sono vere e proprie “pietre dello scandalo”, per così dire, che tanto spesso li hanno resi invisi ai rappresentanti della sinistra classica, e marginali nei dibattiti dei quali invece avrebbero ben potuto arricchire i contenuti, possono essere riassunti sommariamente in cinque:
* la crisi è definitiva: la crisi capitalistica, scoppiata in tutta la sua evidenza fra il 2007 e il 2008 con la crisi dei subprime, ma già presente e latente almeno a partire dai primi anni ’70, non è una crisi temporanea, né ciclica, come piacerebbe fosse a molti sostenitori, anche di sinistra, dell’eternità del sistema di produzione capitalistico, ma una crisi strutturale e definitiva, quella in cui il capitalismo incontra cioè i suoi limiti strutturali, per esso stesso invalicabili. La bolla finanziaria deflagrata con i subprime non è infatti stata determinata dalle manovre speculative innescate da questi titoli, ma essi ne sono stati al massimo il detonatore: hanno cioè aperto una breccia e innescato la miccia ad una bolla già presente e già incredibilmente vasta, venuta drammaticamente allo scoperto in quella occasione. I mutui subprime, anzi, andrebbero più correttamente letti come uno dei tentativi operati dal capitale e dai suoi funzionari di evitare quello che invece poi è successo, e cioè lo scoppio della bolla. Inutile quindi addossare la colpa della crisi e dell’immiserimento a loschi speculatori che bloccano l’economia reale o ai migranti che vengono a toglierci il lavoro (le due versioni della vulgata che vuole trovare un responsabile su cui scaricare le cause della situazione critica che stiamo vivendo). Queste facili ma false piste allontanano dalla comprensione di ciò che sta realmente accadendo.
* le ragioni della crisi: questa crisi “finale” dipende, invece, essenzialmente dal meccanismo di accumulazione capitalistica, che si fonda sulla mercificazione e valorizzazione di ogni cosa prodotta, e dalla competizione fra capitalisti che questo meccanismo genera. Per rendere profittevole la merce in regime di competizione capitalistica, occorre conquistare mercati e, al tempo stesso, ridurre i costi. Questo richiede una capacità produttiva sempre maggiore e insieme un costante abbattimento dei costi di produzione, che si verifica soprattutto attraverso la sostituzione di lavoro umano con quello svolto dalle macchine, più produttive e con costi inferiori, e la conseguente espulsione di forza-lavoro. Proprio questo però rappresenta il tallone d’Achille del sistema, essenzialmente per due ragioni: innanzitutto perché si erode, con l’espulsione di lavoro vivo, la base di consumo, nel senso che ad una produzione sempre più frenetica e all’immissione sul mercato di fiumi di prodotti che hanno bisogno di essere valorizzati, non può corrispondere la necessaria domanda solvibile poiché la pauperizzazione generale non permette la realizzazione di questo valore, che resta perciò per lo più virtuale (o si abbatte drasticamente, impedendo però il raggiungimento di una valorizzazione suffi ciente a soddisfare le esigenze di profitto del capitalista). Insieme, la riduzione dello sfruttamento di lavoro vivo, quindi essenzialmente umano e non quello “morto” delle macchine,2 fa drasticamente diminuire anche la quantità di plusvalore estratto, e quindi la ragione stessa d’essere del regime di produzione capitalistico. La cosiddetta “economia reale” così, proprio a causa della iper-produttività tecnologica dovuta a quella che il gruppo Krisis chiama la “rivoluzione microelettronica”, o la terza rivoluzione industriale, non funziona più, non è cioè più in grado di valorizzare i propri prodotti e quindi di renderli redditizi, e insieme deve espellere forza-lavoro in grande quantità. Senza il sostegno della finanziarizzazione dunque, unica áncora di salvezza rimasta, il sistema sarebbe già collassato da molto tempo. Tuttavia, anche la finanziarizzazione non è una soluzione definitiva, ma un ulteriore rinvio di quella crisi che il sistema, proprio a causa dei suoi meccanismi di fondo, non può evitare.
* la finanziarizzazione: la “rivoluzione microelettronica”, cioè la produzione basata su e diretta dalla tecnologia informatica, capace di una produttività ciclopica, impensabile già solo in un passato recente, rappresenta dunque il passaggio finale, quello oltre il quale il sistema del capitale non può più andare. Non si apriranno più nuovi mercati, almeno sufficienti ad esaudire le esigenze di valorizzazione del sistema, non si daranno più nuovi metodi di produzione tali da riaprire verdi orizzonti di redditività per il capitalismo. L’unica via per realizzare profitti tali da impedire il crollo del sistema, rimane quella di crearne di virtuali, traendoli dalla realizzazione di plusvalore futuro che in realtà non ci sarà mai. Entra qui in gioco la finanziarizzazione dell’economia, passaggio senza il quale il sistema avrebbe subito il tracollo definitivo già da molto tempo. Questa “finanziarizzazione” quindi non è all’origine dei mali del capitalismo ma, ben al contrario, ne è la conseguenza, ed insieme il rimedio necessario, l’unico grazie al quale il sistema stesso può tenere e non collassare in modo definitivo. Dare la colpa della crisi ai “cattivi banchieri” o ad una finanza senza scrupoli può addirittura sortire l’effetto contrario a quello che si presume di voler cercare: individuare le cause, infatti, in settori “deviati” o particolarmente “maligni” rimanda per contro alla convinzione che ve ne siano di buoni, e quindi si finisce per confidare nei bravi e rispettosi imprenditori, timorati della legge la quale, a sua volta, potrebbe e dovrebbe bilanciare e redistribuire equamente il risultato economico della produzione sociale. Il gruppo Krisis dunque non si pronuncia a “difesa” degli speculatori per “salvarli”, ma al contrario per evitare che si salvino gli altri capitalisti, come se ve ne fossero di buoni. Non si dice cioè “la colpa della crisi non è della finanza” per salvare la finanza, ma per additare fra i responsabili tutti i “funzionari” del sistema, e in finale il sistema stesso (il “soggetto automatico”, direbbe Marx),3 indicando come la cura sia solo il suo abbattimento e non un capitalismo “buono”, “etico” e magari “verde”. Occorre tenere fermo questo passaggio, altrimenti invece di criticare a fondo e con chiarezza il criminale e disumano sistema capitalistico si rischia di aiutarlo a salvarsi. Non ci sono scorciatoie: questo sistema è marcio sin dalla radice, ovvero nella sua esigenza feticistica di procurarsi una costante e infinita accumulazione di denaro, unico suo vero scopo, di fronte al quale tutto il resto non conta. Una cosa, che certe volte sfugge forse proprio a causa della sua semplicità, deve insomma essere chiara: il capitalista (il capitalismo) ha di mira solo il profitto, niente altro. Tutto quello che questo sistema fa e produce, deve portare a quello, altrimenti perde la sua ragione di esistere e può finire tranquillamente in discarica. Che ciò che viene prodotto possa essere utile o piacevole o durevole non è niente di più di una sorta di effetto collaterale, spesso anche evitato con cura, come nel caso dell’“obsolescenza programmata” o del modello “usa e getta”, metodi quanto mai velenosi per le persone e per l’ambiente, ma diventati oramai un diktat per la ricerca e indispensabili per assicurare la redditività della produzione. Il denaro stesso, in questo circolo perverso, diventa feticcio, cioè fine in sé, non più mezzo come dovrebbe – molto teoricamente – essere. Si produce per accumulare denaro, non per soddisfare dei bisogni o comunque per dare corpo a cose utili, e la finanziarizzazione sta a mostrarlo una volta di più.
* le possibilità future: la capacità produttiva e tecnologica raggiunta ha però, in teoria, possibilità ancora inesplorate – e non nel senso della produttività compulsiva e distruttiva che ben conosciamo nel folle regime capitalista. Da un certo punto di vista, si può dire che la società e la sua capacità creativa sono state poste “sotto sequestro” dal regime del capitale. La capacità sociale di produzione di ricchezza materiale, innegabilmente molto alta, potrebbe consentire a chiunque di vivere serenamente, in una condizione molto diversa rispetto a quella imposta dal dominio capitalistico, sviluppando cioè appieno le proprie possibilità, sia individuali che sociali, senza l’assillo di doversi procurare i mezzi per quella che sempre più spesso è una mera sussistenza e senza diventare la vittima sacrificale dell’esigenza di valorizzazione del capitale. Il “paradosso” del capitalismo è proprio questo: ad una tecnologia molto avanzata, ed una iperproduttività che sarebbe capace di soddisfare dieci mondi come il nostro, corrisponde un impoverimento sempre più grande. Ovviamente il gruppo Krisis non intende qui fare un’apologia acritica dello scientismo e della tecnologizzazione dell’esistente, tanto meno pensa ad una “rivoluzione” che mantenga la stessa folle produttività e neanche lo stesso modo di produzione, né molti dei prodotti che escono adesso (per esempio, di armi e automobili ne abbiamo più che abbastanza), ma a mettere in rilievo come in qualche modo la “creatività” sociale, il “general intellect”,4 possa e debba svincolarsi dalle esigenze di valorizzazione del capitale e rivolgersi verso la costruzione di un mondo veramente a misura di essere umano. Come si dia un tale passaggio, resta il “non-detto” di questo pensiero (ma non solo di questo). Si tratta con ogni probabilità di una storia che non si può decidere a-priori, ma che va costruita, ed a costruirla non potranno che essere i popoli e le comunità che sapranno autonomamente liberarsi dal giogo capitalistico e darsi, in un contesto aperto e solidale, le coordinate per edificare un mondo basato sul rispetto, sulla convivialità, sulla ragionevolezza e sulla giustizia sociale, e non più sulla cieca volontà di accumulo e di profitto, senza quindi più sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’ambiente. Una cosa, comunque, è sicura: nessun neokeynesismo ci salverà.
* il lavoro: per finire, la riflessione critica sulla crisi e le sue origini si accompagna ad una altrettanto radicale riflessione sul lavoro e sul suo ruolo all’interno del sistema capitalistico. Il lavoro compulsivo e “senza fine”5 che caratterizza questo sistema non ne è la “vittima predestinata” ma è anzi complice ed effetto del sistema stesso, e l’uno non può essere abbattuto senza che lo sia l’altro. Non vi è, cioè, conflitto fra capitale e lavoro, ma unità d’intenti per salvare un sistema a cui entrambi storicamente appartengono e da cui traggono origine.6 La contrapposizione fra lavoro e capitale è più presunta che reale, e il movimento operaio viene interpretato qui più come fenomeno interno allo sviluppo capitalistico che suo antagonista, come cioè fattore che condivide con il capitale l’interesse nel buon funzionamento del sistema, del quale non si mettono in discussione i fondamenti, ma solo la cattiva distribuzione del risultato economico. La stessa “etica del lavoro”, generalmente molto connotata a sinistra, non può dirsi connaturata all’umano, ma imposta col sangue e col fuoco con l’avvento del sistema capitalistico.7 Raramente, durante la storia del movimento operaio, i lavoratori si sono contrapposti al lavoro: forse solo l’esperienza luddista, il dadaismo tedesco, il primo socialismo, il ’68 e parte dei movimenti italiani durante gli anni ’70, con un picco di lucidità nel ’77, mentre dal punto di vista del pensiero sprazzi decisamente interessanti nel pensiero situazionista e ora in quello della decrescita, ed alcuni singoli pensatori, da Paul Lafargue a André Gorz, passando per Jean Marie Vincent e Moishe Postone, si sono contrapposti chiaramente al lavoro, anche se nessuno lo ha mai criticato come “categoria” portante del sistema capitalistico (a parte forse Postone), cosa che invece il gruppo Krisis ha fatto e fa.8 Mettere però in rilievo questo gioco delle parti, cioè la “complicità” fra “lavoro” e “capitale”, non significa, detto per inciso e per evitare equivoci, che il gruppo Krisis intenda denigrare le lotte operaie, attraverso le quali molti hanno potuto migliorare le proprie condizioni di vita, ma solo evidenziare come per lo più tali lotte non si siano contrapposte al sistema, ma abbiamo cercato, peraltro con pieno diritto, soprattutto di aggiustarlo, riducendone le mancanze e rimediando a molte sue storture. Non si vuole cioè criticare il movimento operaio da “destra”, ma solo evidenziarne lo spesso involontario “collaborazionismo” con il mantenimento dello status quo, mentre il carattere distruttivo, alienante e schiavistico del lavoro veniva messo da parte. Aggredire il lavoro in quanto categoria fondamentale del sistema capitalistico non significa dunque attaccare i lavoratori o screditare tout court la lotta di classe, ma cercare di promuovere la trasformazione radicale del sistema.9
Questi i “punti fondamentali” che possono aiutare a capire i due testi che seguono, ed anche il pensiero del gruppo Krisis, senza naturalmente esaurirlo. Un ultimo inciso: il gruppo Krisis non crede certo che la “crisi definitiva” sia di per sé un fatto positivo. Anzi, molto probabilmente porterà il mondo nel baratro, e già lo sta facendo. Ciò che vogliono sottolineare è l’importanza di riconoscerla come tale, e a partire da lì agire di conseguenza. In questo senso, essa può rappresentare un’occasione irrinunciabile e irripetibile di uscita dal sistema del capitale. L’importante adesso è aprire gli occhi, non creare aspettative illusorie in una rinnovata distribuzione sociale di ricchezza da parte di questo sistema o credere che si riapriranno chissà quali nuovi settori di mercato capaci di offrire occasioni di occupazione di massa. Occorre invece essere consapevoli di quello che sta succedendo e, proprio grazie a questo, fare resistenza e al tempo stesso tenersi fuori dallo sfacelo, provando a costruire vie d’uscita, che debbono necessariamente essere radicalmente “altro” rispetto alle coordinate di fondo del sistema capitalistico, capaci cioè di andare nella direzione di una società veramente libera, plurale, solidale, non economicista, non sincopata, che promuova un rapporto diverso con la natura, fra le persone ed anche con le cose. Ma questo è un compito che riguarda tutti, e dalla realizzazione del quale nessuno può sentirsi escluso. Pensare ancora oggi che sia sufficiente “delegare” qualcuno a fare questo per noi, oltre che aiutare a perpetuare le condizioni di riproduzione del sistema, significa allontanarsi colpevolmente dalle proprie responsabilità e negarsi la possibilità di essere “cittadini del mondo”, un mondo ancora da costruire ma che resta oggi più che mai una possibilità aperta, paradossalmente sempre più concreta e comunque sempre più necessaria.
Ora forse più che mai, abbiamo da perdere le nostre catene, e un mondo da guadagnare.
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Ringraziamenti:
Ai fini della presente pubblicazione, non posso che esser grato a Lorenz Glatz, della redazione di Streifzüge, per i preziosi consigli sulla traduzione, allo stesso Norbert Trenkle per gli appunti che mi hanno reso più intelligibile il testo in tedesco, a Marianne Hitz per alcuni suggerimenti sulla traduzione ma soprattutto a Sonia Bibbolino che mi ha aiutato a rendere più “intelligibili” in italiano i testi, di per sé non semplici neanche in tedesco, provando a snaturare il meno possibile gli originali.
Nb: le note a piè di pagina che non sono degli autori, saranno precedute dalla sigla N.d.c. (Nota del curatore)
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* Questo testo introduce lo scritto di Norbert Trenkle “Weltmarktbeben” (Terremoto nel mercato mondiale), apparso nel maggio 2008 in Germania. Il saggio anticipa di pochi mesi lo scoppio vero e proprio della bolla finanziaria, descrivendone di fatto l’avvento e spiegandone con estrema chiarezza le cause più autentiche, che niente hanno a che fare con la vulgata consolatoria per la quale la crisi stessa sarebbe colpa di un esiguo numero di avidi speculatori che si appropria in modo parassitario delle ricchezze prodotte da altri. Questa falsa contrapposizione fra un capitalismo approfittatore e rapace ed uno sano e laborioso è l’ultima frontiera del tentativo di sviare lo sguardo dal vero problema, che è il capitalismo in sé e la sua feticistica coazione a ripetere che lo obbliga ad operare in vista di un’accumulazione infinita e sempre crescente di valore monetario. Non esiste quindi né capitalismo “sano”, né via d’uscita all’interno di questo sistema. L’unica alternativa realistica è il suo superamento, un compito difficilissimo e faticoso, ma non eludibile. Il gruppo Krisis lavora da alcuni decenni in questa direzione, ed i risultati teorici raggiunti sono decisamente fra le risposte più acute che siano state date a questo dilemma.
Il libro si chiude con la traduzione di un’intervista, rilasciata sempre da Norbert Trenkle insieme ad Ernst Lohoff (un altro componente storico del gruppo Krisis), alla rivista on line “Telepolis” dove – grazie all’effettivo scoppio della crisi – vengono messi a punto alcuni importanti dettagli rispetto alle questioni già affrontate nel saggio che la precede.
Presentiamo qui l’introduzione, curata da Massimo Maggini (che ha anche tradotto i testi, in collaborazione diretta con gli autori tedeschi), a questo libro, apparso in Italia per le edizioni Mimesis nel giugno 2014.
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