Se lo scrivono anche su IlSole24Ore, non sarebbe neanche il caso di aggiungere un commento.
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Quando si incontreranno martedì al palazzo Ducale di Venezia, Matteo
Renzi e François Hollande guardandosi negli occhi dovrebbero farsi una
domanda: per quali ragioni facciamo la guerra in Libia?
La risposta più ovvia - il Califfato - è quella di comodo. La guerra
di Libia è partita nel 2011 con un intervento francese, britannico e
americano che con la fine di Gheddafi è diventato conflitto tra le
tribù, le milizie e dentro l’Islam, che però è sempre rimasto una guerra
di interessi geopolitici ed economici. L’esito non è stato l’avvento
della democrazia ma è sintetizzato in un dato: la Libia era al primo
posto in Africa nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato
fallito.
La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della
torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e
Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di
petrolio.
Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse
dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi
europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle
compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas
dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata
manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati
deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.
Per loro, anche se l’Italia ha perso in Libia 5 miliardi di commesse,
stiamo già accantonando risorse per un contingente virtuale in barili
di oro nero. Non è così naturalmente, ma “deve” essere così: per questo
l’ambasciatore Usa azzarda a chiederci spudoratamente 5mila uomini. La
dichiarazione di John Phillips, addolcita dalla promessa di un comando
militare all’Italia, sottolinea la nostra irrilevanza.
La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro
volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e
diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di
Gheddafi. Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le
riserve della Banca centrale e del Fondo sovrano libico che sta a Londra
dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il
figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari
di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio
nella City. Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica - dove peraltro ci
sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi - gli inglesi hanno
da difendere l’asset finanziario dei petrodollari.
Anche i russi, estromessi nel 2011 perché contrari ai bombardamenti,
vogliono dire la loro: lo faranno attraverso l’Egitto del generale Al
Sisi al quale vendono armi a tutto spiano insieme alla Francia. Al Sisi
considera la Cirenaica una storica provincia egiziana, alla stregua di
re Faruk che la reclamava nel 1943 a Churchill: «Non mi risulta», fu
allora la secca risposta del premier britannico. Ma ce n’è per tutti gli
appetiti: questo è il fascino tenebroso della guerra libica.
Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui
mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che,
ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel
nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada
le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli
americani la supervisione strategica.
Ai libici, divisi e frammentati, messi insieme in un finto governo di
“non unità nazionale”, il piano non piacerà perché hanno fatto la
guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica
senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela. E
insieme ai litigi libici ci sono le trame delle potenze arabe e
musulmane. Sono “i pompieri incendiari” che sponsorizzano le loro
fazioni favorite: l’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, il Qatar
seduce con dollari sonanti gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati
si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu Bernardino Leòn per
appoggiare Tobruk; senza contare la Turchia, che dalla Siria ha
rispedito i jihadisti libici a fare la guerra santa nella Sirte.
La lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto, anzi l’Isis si
è inserito proprio quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma
gli interessi occidentali, mascherati da obiettivi comuni, sono
divergenti dall’inizio quando il presidente francese Nicolas Sarkozy
attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata. Oggi sappiamo i
retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile
2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva
sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra
moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente
da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi.
Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total. È
così che prepariamo la guerra: in compagnia di finti
amici-concorrenti-rivali, esattamente come faceva la repubblica dei
Dogi.
di Alberto Negri, IlSole24Ore
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