martedì 1 marzo 2016

Vivere nella deflazione, con la guerra in fondo al tunnel di Claudio Conti

Vivere nella deflazione, con la guerra in fondo al tunnel
 
Dateci degli investimenti, per favore! Un urlo fin qui imprigionato nelle profondità viscerali della cultura neoliberista, un malessere profondo tra gli operatori economici, un suggerimento implicito rintracciabile persino negli austeri comunicati della Bce, là dove deve sempre premettere che “la politica monetaria, da sola, non è sufficiente” a generare crescita. Il problema è che in quei comunicati la frase che segue è la negazione della precedente, perché le “riforme” invocate sono quei massacri sociali condotti all'insegna dell'austerità che hanno contribuito a fare dell'Unione Europea a 28 una delle aree posizionato peggio nel disastro della crisi mondiale.
Tagliare la spesa è l'unico comando arrivato fin qui, e l'hanno rispettato tutti così tanto e bene (con poche e non esagerate eccezioni) che la deflazione è tornata prepotentemente ad affacciarsi in utti i paesi del Vecchio Continente. Come se i 720 miliardi messi in circolo dalla Bce nel suo primo anno di quantitative easing fossero bruscolini. <>Forse è il caso di guardare qualche numero, altrimenti ci si smarrisce facilmente (il calo dei prezzi sembra una benedizione, invece è una gelata tardiva che brucia il raccolto). Per la sola Italia, infatti, l'inflazione acquisita per il 2016 (eredità dei mesi precedenti) è pari a -0,6%. Un anno fa si era in una situazione simile, con differenze piuttosto significative, però. Allora quasi tutte i prezzi segnavano un andamento positivo, ossia in salita; soltanto i prezzi energetici, causa il crollo del petrolio, portavano in territorio negativo gli indici.
Ora invece scendono quasi tutti i prezzi, persino quelli di più largo consumo (il cosiddetto “carrello della spea”, i generi di cui non può fare a meno nessuno, neanche il più povero), che segnano un -0,8% che non si era mai visto. Ma se i prezzi calano le imprese non investono più, i consumatori rinviano gli acquisti (di beni durevoli, case, ecc) in attesa di altre discese, i debiti aumentano di peso rispetto ai redditi familiari o alle entrate dello Stato, si tagliano infine ulteriormente le spese e si almenta perciò la spirale negativa.
Tanto più se, da qualche mese a questa parte, il prezzo del petrolio non può più essere indicato come l'unico colpevole (è di fatto relativamente stabile, oscillando tra i 30 e i 37 dollari al barile, contro gli oltre 100 di un anno e mezzo fa).
In queste condizioni l'offerta straordinaria di moneta supplementare – la politica monetaria “non convenzionale” adottata prima dalla Fed e poi dalla Bce – rimane senza effetti sulleconomia reale. Al massimo va a gonfiare le quotazioni di borsa o i prezzi dei titoli di stato, ma non si traduce in inevstimenti produttivi, nuova occupazione, nuove occasioni di profitto.
La “trappola della liquidità” sembrava una malattia ipotetica, che aveva colpito soltanto i giapponesi (ne soffrono ormai da quai un quarto di secolo). E invece è un'epidemia che ha colpito tutti o quasi, soprattutto in Europa, ma senza risparmiare più di tanto neanche gli Stati Uniti.
Perché la liquidità straordinaria non si traduce in maggiori investimenti? La risposta marxiana è nota, ma risulta straordinariamente attuale se pronunciata da un analista mainstream come Guido Salerno Aletta, che in genere scrive su MilanoFinanza:
Il sistema produttivo internazionale, dal comparto petrolifero a quello delle materie prime, è afflitto da una sovrapproduzione generalizzata da cui non si riesce a venir fuori. Anche a livello nazionale, nonostante la drastica riduzione della capacità produttiva determinata dai fallimenti di decine di migliaia di aziende e di imprenditori, la domanda è insufficiente: la produzione stagna ed i prezzi calano.
Se c'è sovrapproduzione generalizzata non ci possono essere altri investimenti, se non in settori come il militare o il lusso, che vanno a coprire esigenze non esattamente “di mercato”. Qualsiasi sia la quantità di moneta che viene gettata "dagli elicotteri".
Dal lato del capitale, la sovrapproduzione appare come insufficienza della domanda solvibile. Attenzione: non insufficienza dei bisogni umani (c'è un sacco di gente che ha fame, vorrebbe avere/cambiare la macchina o vivere con un tetto sulla testa), ma insufficienza dei redditi destinati al consumo.
Quindi – e qui la Storia si diverte un po' troppo – si moltiplicano i riscopritori di Keynes; il quale, in fondo, avea spiegato bene il meccanismo chiamato trappola della liquidità e suggerito soluzioni per aumentare i consumi, allargare la domanda, far riassorbire l'eccesso di produzione. Soluzioni che avevano alimentato il “trentennio glorioso” del capitale (1945-1973), per poi spegnersi rapidamente e lasciare campo aperto al ritorno degli “spiriti animali” neoliberisti.
La stagnazione secolare che stiamo sperimentando, pronosticata già da anni dall’ex Segretario americano al Tesoro Larry Summers, non è altro che il sintomo di un eccesso di produzione cui non si accompagna più né una crescita dei salari, bloccati dalla competizione sui prezzi, né un aumento della spesa pubblica, bloccata dall’aumento del debito determinatosi per contrastare la crisi del 2008.
Fuori dalle argomentazioni teoriche più comolesse, insomma, la produzione – anche quella caitalistica più avanzata – deve trovare sbocco nei consumi. Diminuire i salari sembra geniale all'impresa quando deve fare i conti e tagliare i costi di produzione; ma sembra un'idiozia a quella stessa impresa quando deve infine vendere il suo prodotto sul mercato. Se tutte le imprese – e tutti gli Stati – hanno ridotto all'osso le spese, ecco che impreovvisamente vengono a scarseggiare i clienti. Che avrebbero anche bisogno di tutto, ma non possono più comprare quasi nulla (cominciano, in genere, ripiegando sui prodotti di più bassa qualità in campo alimentare, sull'usato in fatto di abbigliameno o motori, ecc).
Da questa scoperta al keynesismo pruro è solo un passo:
Se si volesse davvero l’inflazione e la crescita, si dovrebbe ridurre l’orario di lavoro ad invarianza di salario portandolo a sei ore giornaliere, come si fece per superare la crisi del ’29, quando fu ridotto da dodici ad otto. La spesa pubblica “improduttiva” per consumi collettivi, dalla istruzione alla sanità, dalla cura del territorio alla tutela dell’ambiente, dovrebbe prosciugare a tasso zero l’enorme ed inutile liquidità immessa dalle Banche centrali.
Ma questa è la soluzione che fa più orrore all'ordoliberalismo di matrice tedesca e all'imperante neoliberismo di stampo anglosassone. Lo si è visto anche nel recentissimo G20, incapace di inquadrare le ragioni della “stagnazione secolare” (che è arrivata intanto all'ottavo anno di vita) e quindi di mettere in campo rimedi adeguati. Ma non è che siano davvero così stupidi... È che hanno interessi in competizione tra loro, quindi ognuno spera di uscire da questa crisi a scapito di qualcun altro (e tutti insieme a scapito della stragrande maggioranza degli esseri umani, che pure dovrebbero essere i consumatori di tutto l'eccesso di produzione).
Dunque? Farà sorridere, ma qualcuno continua a chiedere investimenti anche quando sa benissimo che – dal continente europeo, almeno – questi non potranno arrivare. È il caso di Fabrizio Saccomanni, ex direttore generale della Banca d'Italia ed ex ministro dell'economia nel governo di Enrico Letta, che dalle colonne di Repubblica invoca oggi “investimenti massicci, privati ma anche pubblici”, la rapida apertura della “via della seta” con la Cina (proprio mentre il moltiplicarsi di guerre promosse da Usa e Unione Europea sconvolgono i paesi attraverso cui andrebbe tracciata, dal Medio Oriente all'Ucraina).
Investimenti cinesi, insomma. Ma che appaiono più difficili se, allo stesso tempo, (da pate di Confindustria, per esempio) si invocano dazi doganali per rendere i prodotti cinesi meno competitivi.
Ma discutere di economia con i capitalisti è sempre stato impossibile. Tu ragioni in termini di sistema, loro come singoli “lottatori” interessati soltanto alla propria vittoria. E finché vincono loro, la deflazione si approfondisce.
A meno di non sfociare in guerra aperta... A quel punto, in effetti, molto del capitale “sovraprodotto” (denato, impianti, merci, esseri umani) verrebbe drasticamente riportato a zero. Ma sarebbe una mattanza da terrorizzare persino l'Isis...

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