domenica 1 maggio 2016

Cu cu ... e il denaro non c'è più!

 
Il fondo-sermone di Sartori, «L'idea dei soldi come manna», pubblicato qualche tempo fa dal Corriere della sera sembra essere la ripetizione dell'anatema di Brunetta: «Sgobbate gente, sgobbate ... perché solo la fatica e la sottomissione vi salveranno dal castigo economico». A voler essere benevoli, si può invece individuare un maldestro tentativo di abbozzare una morale. La tesi è semplice: siamo «peccaminosamente incappati nella crisi» perché, invece di confrontarci col problema di come si produce la ricchezza, abbiamo coltivato l'illusione che «i soldi cadessero come manna dal cielo». «L'economia come scienza avrebbe infatti cominciato a deragliare con la sua politicizzazione di sinistra che l'avrebbe indotta a anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza, e a confondere i due».
Ora, nessuno può negare che ci sia stata una sinistra (ma anche un centro e una destra!) che ha fatto del problema della redistribuzione del reddito il suo cavallo di battaglia. Ma era una frangia minoritaria, mentre la stragrande maggioranza di coloro che si dichiaravano di sinistra si è scervellata su un problema diverso: quello dei limiti propri del modo di produrre capitalistico e di come spingersi al di là di essi. E per esplorare questo spazio ha dovuto riflettere sul ruolo che il denaro ha avuto e ha nel favorire o nell'ostacolare il processo di soddisfazione dei bisogni. E' vero che, con il profilarsi della crisi del keynesismo, negli anni '80, e col crollo dei paesi comunisti nei '90, la maggior parte di quelle riflessioni sono finite su un binario morto; ma non è la prima volta nella storia che, per procedere sulla via dello sviluppo, si deve recuperare un sapere del quale si credeva di poter fare a meno.
Che cosa lamenta Sartori ? Che «grazie a una scuola che non è più magistra vitae i giovani non imparino come nasce il denaro», e si sono convinti che «ci debba essere e basta». Non si interroga, però, se questa rozza pretesa collettiva sia meno strampalata di quanto gli appare. Dal senso comune non ci si può infatti aspettare una progettualità analiticamente fondata, bensì solo l'espressione di un generico bisogno. Sta poi alla capacità degli intellettuali verificare se quel bisogno è rispondente o meno alle concrete possibilità evolutive della società e, in caso positivo, trasformare la sua soddisfazione in una pratica istituzionale. Da questo punto di vista, Sartori non fa un buon servizio al volgo che intende educare, perché si limita a riaffermare un rapporto con i soldi intriso del più banale feticismo. Egli chiude, infatti, il suo articolo dicendo: «il punto da capire sin d'ora è che il diritto a qualcosa sussiste solo se la cosa c'è. Il diritto di mangiare presuppone che ci sia il cibo. E il 'diritto ai soldi' presuppone che i soldi vengano creati». Se fosse un osservatore meno distratto della società, il nostro predicatore, saprebbe però che, accanto alla rozza pretesa che ha biasimato, alberga nell'anima delle masse anche un'altrettanto rozza convinzione che è una perfetta copia della sua. Quasi tutti convengono infatti mestamente che «se i soldi non ci sono», occorre limitare le proprie rivendicazioni e «rimboccarsi le maniche per crearli». Pensando di somministrare un insegnamento alla plebe, egli si è limitato a echeggiare uno dei lati contraddittori che costituiscono il senso comune odierno nella sua fluttuante confusione.
Per risolvere il dilemma di quale, tra i due opposti convincimenti dilaganti, sia quello effettivamente «peccaminoso», Sartori avrebbe dovuto misurarsi con l'interrogativo: quale fenomeno economico si nasconde dietro alla drammatica contrazione del denaro in circolazione? Ma con grande acume scientifico egli crede che non ci sia nulla da «scoprire»; che la realtà sociale «parli» nella sua immediatezza. Egli intravede che le condizioni della produzione sono cambiate, che da una cinquantina d'anni viviamo in un contesto che, grazie allo straordinario progresso tecnico, può essere definito opulento. Ma invece di convenire con quella parte del senso comune che sperimenta come una stranezza l'impoverimento collettivo che si scatena proprio quando la società ha sviluppato delle forze produttive di natura straordinaria, recrimina che questa situazione di abbondanza avrebbe «viziato» gli individui. Che vorrebbero un consolidamento della situazione conquistata, mentre dovrebbero piegarsi senza resistenza a un impoverimento, anche se non lo capiscono.
Perché è sbagliato piegarsi passivamente alla mancanza di soldi, considerandola come un semplice dato di fatto? Perché essa esplicita la natura contraddittoria e antagonistica dei rapporti sociali nei quali siamo immersi. Il denaro non è una cosa «che c'è o che va creata». Si tratta, piuttosto, di un rapporto sociale nel quale si esprime il potere che deriva dalla produzione passata e che media l'ulteriore produzione. Finché questo processo, che lega il passato al futuro, procede normalmente il denaro non manca, perché chi ha venduto torna a comperare e chi ha comperato riesce a vendere, manifestando così il suo lato positivo. Un'evoluzione che viene favorita dallo sviluppo della moneta di credito, che va incontro anche a una produzione che cresce in misura elevata. Ma, pur essendo necessario per la riproduzione, il susseguirsi delle compere e delle vendite può interrompersi, e il denaro manifesta il suo lato negativo. La non-spesa di alcuni causa infatti la mancata percezione del reddito da parte di altri, in un processo a catena; cosicché quasi tutti finiscono col trovarsi senza soldi. Un quadro aggravato dalla drammatica contrazione del credito.
Prima della metà del '900 la carenza di denaro sfociava in uno spaventoso impoverimento della società, in quelle che Sartori chiama «delle tempeste economiche perfette». Con Keynes si giunge invece a riconoscere che la scomparsa del denaro è un fenomeno contraddittorio, al quale occorre porre rimedio. Da un lato ci sono infatti lavoratori in grado di produrre, impianti e strutture sottoutilizzate, conoscenze tecniche - cioè le risorse indispensabili per creare ricchezza - e dall'altro tanti bisogni insoddisfatti; ma il denaro lasciato a se stesso non chiama in vita quelle risorse e non media l'incontro con i bisogni. Si tratta dunque di impedire che il denaro non ci sia. Proprio come sostiene Sartori «il denaro ci deve essere e basta». E poiché le imprese e i privati cittadini non sono in grado di farlo tornare in circolazione, tale compito va demandato allo stato.
Il rozzo senso comune che infastidisce Sartori non è affatto arbitrario, si riferisce, seppure solo intuitivamente a un'articolata teoria economica sulla base della quale è stata costruita quella «società del benessere», alla quale secondo il nostro mentore dovremmo dire addio. Ma l'ideologia neoliberista, che ha sbaragliato il keynesismo e il comunismo, non l'ha fatto proprio sostenendo che ridimensionando il potere dello stato keynesiano ci sarebbero stati più soldi per tutti? Ora, che la «tempesta perfetta» incombe su di noi, ci dice invece che dovremmo accettare che quei soldi non ci sono, perché pretendere che ci siano sarebbe peccato.
Cu cu ... e il denaro non c'è più!

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