Il fondo-sermone di
Sartori, «L'idea dei soldi come manna», pubblicato qualche tempo fa dal
Corriere della sera sembra essere la ripetizione dell'anatema di
Brunetta: «Sgobbate gente, sgobbate ... perché solo la fatica e la
sottomissione vi salveranno dal castigo economico». A voler essere
benevoli, si può invece individuare un maldestro tentativo di abbozzare
una morale. La tesi è semplice: siamo «peccaminosamente incappati nella
crisi» perché, invece di confrontarci col problema di come si produce la
ricchezza, abbiamo coltivato l'illusione che «i soldi cadessero come
manna dal cielo». «L'economia come scienza avrebbe infatti cominciato a
deragliare con la sua politicizzazione di sinistra che l'avrebbe indotta
a anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema
della creazione della ricchezza, e a confondere i due».
Ora, nessuno può
negare che ci sia stata una sinistra (ma anche un centro e una destra!)
che ha fatto del problema della redistribuzione del reddito il suo
cavallo di battaglia. Ma era una frangia minoritaria, mentre la
stragrande maggioranza di coloro che si dichiaravano di sinistra si è
scervellata su un problema diverso: quello dei limiti propri del modo di
produrre capitalistico e di come spingersi al di là di essi. E per
esplorare questo spazio ha dovuto riflettere sul ruolo che il denaro ha
avuto e ha nel favorire o nell'ostacolare il processo di soddisfazione
dei bisogni. E' vero che, con il profilarsi della crisi del keynesismo,
negli anni '80, e col crollo dei paesi comunisti nei '90, la maggior
parte di quelle riflessioni sono finite su un binario morto; ma non è la
prima volta nella storia che, per procedere sulla via dello sviluppo,
si deve recuperare un sapere del quale si credeva di poter fare a meno.
Che cosa lamenta
Sartori ? Che «grazie a una scuola che non è più magistra vitae i
giovani non imparino come nasce il denaro», e si sono convinti che «ci
debba essere e basta». Non si interroga, però, se questa rozza pretesa
collettiva sia meno strampalata di quanto gli appare. Dal senso comune
non ci si può infatti aspettare una progettualità analiticamente
fondata, bensì solo l'espressione di un generico bisogno. Sta poi alla
capacità degli intellettuali verificare se quel bisogno è rispondente o
meno alle concrete possibilità evolutive della società e, in caso
positivo, trasformare la sua soddisfazione in una pratica istituzionale.
Da questo punto di vista, Sartori non fa un buon servizio al volgo che
intende educare, perché si limita a riaffermare un rapporto con i soldi
intriso del più banale feticismo. Egli chiude, infatti, il suo articolo
dicendo: «il punto da capire sin d'ora è che il diritto a qualcosa
sussiste solo se la cosa c'è. Il diritto di mangiare presuppone che ci
sia il cibo. E il 'diritto ai soldi' presuppone che i soldi vengano
creati». Se fosse un osservatore meno distratto della società, il nostro
predicatore, saprebbe però che, accanto alla rozza pretesa che ha
biasimato, alberga nell'anima delle masse anche un'altrettanto rozza
convinzione che è una perfetta copia della sua. Quasi tutti convengono
infatti mestamente che «se i soldi non ci sono», occorre limitare le
proprie rivendicazioni e «rimboccarsi le maniche per crearli». Pensando
di somministrare un insegnamento alla plebe, egli si è limitato a
echeggiare uno dei lati contraddittori che costituiscono il senso comune
odierno nella sua fluttuante confusione.
Per risolvere il
dilemma di quale, tra i due opposti convincimenti dilaganti, sia quello
effettivamente «peccaminoso», Sartori avrebbe dovuto misurarsi con
l'interrogativo: quale fenomeno economico si nasconde dietro alla
drammatica contrazione del denaro in circolazione? Ma con grande acume
scientifico egli crede che non ci sia nulla da «scoprire»; che la realtà
sociale «parli» nella sua immediatezza. Egli intravede che le
condizioni della produzione sono cambiate, che da una cinquantina d'anni
viviamo in un contesto che, grazie allo straordinario progresso
tecnico, può essere definito opulento. Ma invece di convenire con quella
parte del senso comune che sperimenta come una stranezza
l'impoverimento collettivo che si scatena proprio quando la società ha
sviluppato delle forze produttive di natura straordinaria, recrimina che
questa situazione di abbondanza avrebbe «viziato» gli individui. Che
vorrebbero un consolidamento della situazione conquistata, mentre
dovrebbero piegarsi senza resistenza a un impoverimento, anche se non lo
capiscono.
Perché è
sbagliato piegarsi passivamente alla mancanza di soldi, considerandola
come un semplice dato di fatto? Perché essa esplicita la natura
contraddittoria e antagonistica dei rapporti sociali nei quali siamo
immersi. Il denaro non è una cosa «che c'è o che va creata». Si tratta,
piuttosto, di un rapporto sociale nel quale si esprime il potere che
deriva dalla produzione passata e che media l'ulteriore produzione.
Finché questo processo, che lega il passato al futuro, procede
normalmente il denaro non manca, perché chi ha venduto torna a comperare
e chi ha comperato riesce a vendere, manifestando così il suo lato
positivo. Un'evoluzione che viene favorita dallo sviluppo della moneta
di credito, che va incontro anche a una produzione che cresce in misura
elevata. Ma, pur essendo necessario per la riproduzione, il susseguirsi
delle compere e delle vendite può interrompersi, e il denaro manifesta
il suo lato negativo. La non-spesa di alcuni causa infatti la mancata
percezione del reddito da parte di altri, in un processo a catena;
cosicché quasi tutti finiscono col trovarsi senza soldi. Un quadro
aggravato dalla drammatica contrazione del credito.
Prima della metà
del '900 la carenza di denaro sfociava in uno spaventoso impoverimento
della società, in quelle che Sartori chiama «delle tempeste economiche
perfette». Con Keynes si giunge invece a riconoscere che la scomparsa
del denaro è un fenomeno contraddittorio, al quale occorre porre
rimedio. Da un lato ci sono infatti lavoratori in grado di produrre,
impianti e strutture sottoutilizzate, conoscenze tecniche - cioè le
risorse indispensabili per creare ricchezza - e dall'altro tanti bisogni
insoddisfatti; ma il denaro lasciato a se stesso non chiama in vita
quelle risorse e non media l'incontro con i bisogni. Si tratta dunque di
impedire che il denaro non ci sia. Proprio come sostiene Sartori «il
denaro ci deve essere e basta». E poiché le imprese e i privati
cittadini non sono in grado di farlo tornare in circolazione, tale
compito va demandato allo stato.
Il rozzo senso
comune che infastidisce Sartori non è affatto arbitrario, si riferisce,
seppure solo intuitivamente a un'articolata teoria economica sulla base
della quale è stata costruita quella «società del benessere», alla quale
secondo il nostro mentore dovremmo dire addio. Ma l'ideologia
neoliberista, che ha sbaragliato il keynesismo e il comunismo, non l'ha
fatto proprio sostenendo che ridimensionando il potere dello stato
keynesiano ci sarebbero stati più soldi per tutti? Ora, che la «tempesta
perfetta» incombe su di noi, ci dice invece che dovremmo accettare che
quei soldi non ci sono, perché pretendere che ci siano sarebbe peccato.
Cu cu ... e il denaro non c'è più!
Nessun commento:
Posta un commento