Nel primo §. (Individui autonomi. Idee del XVIII secolo),
l’argomento di Marx è facilmente riassumibile. L’economia politica ha
come oggetto la produzione materiale, la quale è svolta da individui,
che lavorano in certe condizioni sociali; è naturale, dunque, (nel senso
di “è ovvio”, “va da sé”) che il discorso dell’economia politica prenda
le mosse dagli individui, che operano in condizioni socialmente
determinate. E’ pur vero che nel Settecento si è andato imponendo un
altro modo di procedere, ovvero, si è ritenuto di poter iniziare il
discorso dell’economia politica a partire dall’individuo isolato, dal
Robinson Crusoe (il personaggio dell’omonimo romanzo settecentesco di
Daniel De Foe). ma si tratta di un’illusione dell’epoca (la robinsonata),
la quale consegue, per un verso, dal tentativo di legittimare
l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un altro, dalla
cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia
possibile, solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime se stessa attraverso individui isolati.
Questo
è, di primo acchito, il discorso che Marx fa. E’ vero, tuttavia, che
guardando le cose più a fondo -per così dire con uno sguardo più
sospettoso e scaltrito -, la faccenda si rivela più complessa.
Il fatto stesso che Marx ponga il tema del ‘punto di partenza’ (Ausgangspunkt) significa, implicitamente, richiamare Hegel, il quale aveva iniziato, ad es., la sua Scienza della logica (Wisenschaft der Logik) proprio affrontando la questione dell’Ausgangspunkt. Ed Hegel è richiamato anche nel proseguo. Infatti, quello che Marx, subito, indica come naturalmente il punto di partenza, a ben vedere, corrisponde ad una immediata considerazione, ad un diretto collegamento
con l’esperienza: in altre parole, è come se Marx dicesse «basta
guardar gli uomini che lavorano, per rendersi conto che lavorano in
condizioni socialmente determinate».
Sennonché uno dei punti
centrali del ragionamento, che Marx svolgerà in questo testo, è proprio
la dimostrazione che cogliere la struttura sociale della produzione è
operazione tutt’altro che naturale, perché, al contrario, assai
raffinata -un’operazione, che richiederà di far ricorso a complesse
procedure sia logiche che epistemologiche. Insomma, come vedremo,
l’effettivo Ausgangspunkt, per Marx, richiederà un rapporto tutt’altro che immediato e naturale con l’esperienza.
Giungere all’effettivo punto di partenza, infatti, richiede superare la fase della robinsonata.
Ma che cos’è quest’ultima? E’ il momento in cui l’insieme immediato -di
uomo e sue condizioni di lavoro- viene rotto: il «tutto»
dell’esperienza si scinde e l’individuo si separa dalle condizioni
oggettive (sociali e naturali) della sua attività produttiva,
ponendosele, per così dire, di fronte, come poteri estranei, dai quali
egli è tanto indipendente, quanto essi stessi sono indipendenti da lui.
In termini hegeliani, questo è il momento dell’intelletto (Verstand) che, giusta la lezione di Hegel, introduce, appunto, la scissione nella totalità immediata. Solo superando questo momento, sarà possibile -lo vedremo- conquistare l’effettivo punto di partenza.
La
conclusione è chiara: il semplice discorso che Marx fa di primo
acchito, in realtà, è un richiamo assai preciso ad un fondamentale ritmo
del ragionamento hegeliano. Fin da subito, dunque, comprendiamo che
sarà possibile intendere effettivamente queste pagine di Marx, solo a
condizione di evidenziarne il legame con la riflessione di Hegel.
Nel successivo §. (Eternizzazione di storici rapporti di produzione...), Marx delinea un tema di notevolissimo rilievo dal punto di vista sia logico che epistemologico.
Se
la produzione avviene in condizioni storico-sociali determinate, allora
sembra vero che, se di produzione si vuol parlare, di fronte a noi si
aprano solo due possibili strade: o quella della descrizione dei modi di
produzione nelle differenti epoche storiche; o quella che, subito,
limita il discorso ad un’epoca determinata, ad es., la presente (ed
appunto questo secondo, Marx dichiara essere il suo scopo).
Qui
bisogna fare attenzione. Quando si affrontano problemi (teorici o no,
che siano) riguardanti un certo ambito del sapere -e lo si vuol fare
seriamente-, allora l’attenzione deve esser rivolta all’effettiva
realtà -storica o attuale- di quell’ambito determinato. Se il problema è
precisare il “punto di partenza dell’economia politica”, la questione
va posta, tenendo presente che cosa effettivamente fanno coloro i quali si occupano
di economia politica. In altri termini, non si possono affrontare
problemi scientifici (ma d’altronde neanche quelli politici o morali,
ecc.), se non ricostruendo il modo in cui, di fatto, quei problemi si
pongono nell’attuale o si son posti nella storia. Perché in realtà un
problema scientifico -teorico o no, che sia- è tutt’altra cosa da
un’arbitraria speculazione, una soggettiva elucubrazione: infatti, esso non nasce casualmente, ma sì da reali difficoltà, che si incontrano nel praticare quel determinato ambito del sapere. Non meraviglia, dunque, se Marx, ponendosi il problema dell’Ausgangspunkt
dell’economia politica, faccia bene attenzione a come gli economisti
hanno ritenuto di risolverlo e perché non vi siano riusciti.
E’ in
questa prospettiva che Marx chiama in causa una procedura diffusa tra
gli economisti: quella di far precedere un trattato di economia da una
parte introduttiva, in cui si chiarisca cosa significhi produzione in generale
-l’evidente sottinteso di tale procedura è che, in primo luogo, bisogna
definire l’oggetto di studio, e che ciò può farsi descrivendone le
caratteristiche costanti.
In realtà, revocare in dubbio
l’opportunità di tale procedura (come Marx fa) significa porre una
questione, logica ed epistemologica, di grande rilievo. La nozione di produzione in generale è, infatti, solo un esempio di ciò che intende per «concetto» una lunga tradizione scientifica e filosofica, ma anche il pensiero comune.
Entro quest’ottica, posti gli individui a, b, c, ..., n, elaborarne il concetto significa raccogliere tutte -e solo- le caratteristiche comuni
agli individui in questione, scartandone, invece, le altre, quelle che
differenziano un individuo dall’altro. Le origini empiristiche di tale
procedura sono del tutto ovvie, ma è anche opportuno sottolineare che così procede il pensiero comune.
La critica di Marx a questo modo di concepire il «concetto» (nel nostro caso, la produzione in generale) presenta, ancora un volta, nettissime affinità con tesi già espresse da Hegel.
Prima di tutto, va notato che Marx non rifiuta in blocco questa forma di astrazione; al contrario, riprendendo Hegel, la definisce una verständliche Abstraktion, ricorrendo ad un’espressione (tedesca, ovviamente) su cui vale la pena soffermarsi un pochino.
L’aggettivo verständliche -va da sé- richiama un termine, che abbiamo già incontrato: Verstand o intelletto; dal che ricaviamo che questa forma di astrazione si colloca all’interno di quello scindere l’immediata totalità dell’esperienza,
che -lo abbiamo visto prima- è, a dir così, il compito o risultato
della critica intellettuale (quella, ad es., che produce le robinsonate, di contro al naturale punto di partenza dell’economia politica). Tutti ricordiamo che nel Manifesto
Marx aveva celebrato la funzione storica della borghesia e del
capitalismo, capaci con il loro dinamismo, irriguardoso di ogni confine,
di distruggere l’idiotismo delle chiuse ("naturali") comunità feudali
o, comunque, precapitalistiche. Qui, nell’Introduzione, Marx
ripropone questo discorso, sia pure non nella prospettiva generalmente
storica e sociale, ma sì in quella teorica ed epistemologica.
Il termine verständliche,
però, corrisponde, anche, all’italiano «sensato» (come quando si dice,
ad es., «far così e così è cosa sensata»); questo secondo significato è
strettamente legato al primo -non solo nell’uso della lingua tedesca, ma
anche nella riflessione di Hegel.
Infatti, il mondo del Verstand
è, anche, il mondo dell’agire, dell’utile, dell’ «economico» nel
significato di efficace, pragmaticamente positivo, di ‘razionale’ -nel
senso in cui l’economia, anche oggi, si pone il problema dei mezzi razionali per conseguire scopi, in una condizione di penuria.
Se, dunque, la produzione in generale è un esempio di verständliche Abstraktion, possiamo dire, in italiano, che si tratta di una astrazione sensata,
e ciò perché, come Marx chiarisce, raccogliendo i caratteri comuni alla
varie forme di produzione succedutesi nella storia, ci consente di
risparmiare ripetizioni e lungaggini (nella tradizione empiristica,
questa è la giustificazione fondamentale delle astrazioni). Si tratta,
dunque, di uno strumento utile all’impresa scientifica, esattamente nel
senso in cui lo stesso Hegel lo riconosceva tale. Ma la questione non
finisce qua; al contrario, è a questo punto che inizia il contributo
importante, che Marx dà alla caratterizzazione -e, quindi, alle
possibilità d’uso- di questo strumento scientifico.
Poniamo che
siano dati gli individui a, b, c, ..., n (ad es., i vari modi di
produzione succedutisi nella storia) e che p, q, r siano loro
caratteristiche costanti; il concetto di produzione in generale
risulterà, dunque, P = p, q, r.
Va considerato, però, osserva Marx che, ad. es., «p», si svolga in p’, p" e che queste nuove caratteristiche, immediatamente ricavabili da «p», non
si trovino in tutti gli esempi storici di modi di produzione, sebbene
in uno e non nell’altro, nel più antico come pure nel più moderno ma non
in quelli intermedi, ecc. (E’ le cose stanno proprio così, come mostra
la storia dei diversi modi di produzione). E’ chiaro che, a questo
punto, la formula della produzione in generale (P = p, q, r) rivela forti limiti, se il problema è quello di capire cosa sia produzione.
In altre parole, ci rendiamo conto a questo punto che comprendere cosa sia produzione non è mai possibile, se non combinando -e volta a volta, in modo diverso- caratteristiche comuni a tutti i modi di produzione e caratteristiche che, invece, differenziano questo da quello.
In conclusione, mediante l’analisi critica della verständliche Abstraktion, Marx propone, in realtà, una concezione del conoscere scientifico che, articolando comune e differente, giunge a cogliere la particolarità dell’oggetto suo. Che tutto ciò sia appieno hegeliano è difficilmente smentibile.
Un’altra
importante osservazione: se (quasi) nulla posso ricavare dalla nozione
di produzione in generale per la comprensione di un caso storicamente
determinato di produzione, se volta a volta debbo trovare il modo in cui
si combinano caratteri comuni e caratteri differenzianti, allora non esiste propriamente un metodo dell’economia politica, ma sì una complessa e duttile procedura (come propone di dire il marxista inglese H.T. Wilson [1]), che dovrà plasmarsi sulla particolarità dell’oggetto in analisi.
Secondo Marx non è per caso che l’economia politica usa non criticamente la verständliche Abstraktion; al contrario, l’errore teorico e metodologico ha una funzione pratica (ideologica): scopo dell’economia politica è, partendo da una pretesa nozione di produzione in generale, ricavarne direttamente la giustificazione logica e storica del modo specificamente
capitalistico di organizzare la produzione stessa. Per questo, nel suo
modo di procedere, l’economia politica deve trascurare i momenti della
differenza, della diversità e della particolarità (i quali, va da sé,
sono invece centrali nella prospettiva di Hegel).
Dal punto di
vista logico -osserva Marx- gli economisti, per svolgere la loro
funzione apologetica nei confronti del modo capitalistico di produzione,
ricorrono, in certi punti strategicamente rilevanti della loro
riflessione, ad argomentazioni dalla forma tautologica. Dobbiamo
-sia pur brevemente- soffermarci su questo tema, perché importante sotto
diversi aspetti -di nuovo, sotto quello del rapporto di Marx con Hegel;
ma anche sotto un profilo propriamente logico-epistemologico, come pure
dal punto di vista della storia della riflessione
filosofico-scientifica. Va da sé che, qui, cercheremo di isolare qualche
lato della questione, scartandone arbitrariamente altri, con il solo
intento di dare, comunque, il senso dell’importanza del tema.
Posto che con tautologia si intenda un enunciato, in cui il predicato mette in risalto qualcosa, che è già
contenuto nel significato del soggetto, semplificando orribilmente
possiamo dire che la riflessione moderna era giunta, particolarmente con
l’empirismo inglese, a distinguere due tipi di conoscenza: quella
probabilistica (o Probability) e quella dimostrativa (o Demonstration).
La
conoscenza di primo tipo era caratterizzata (a) dall’avere come oggetto
materie di fatto; (b) dall’affidarsi, dunque, all’esperienza; (c) dal
non poter mai produrre enunciati, che superassero la soglia del probabilmente
vero; (d) ma, anche, dalla capacità di ampliare, sia pure nel limite
della probability, il dominio della conoscenza umana -insomma, la
capacità di produrre conoscenze nuove.
L’altro tipo di conoscenza, invece, (a) era in grado di produrre enunciati veri, di dimostrarli,
ma (b) in quanto aveva come oggetto suo unicamente relazioni logiche
fra idee; (c) il suo dominio, quindi, era ristretto all’ambito della
logica e della matematica e (d) i suoi enunciati (veri) avevano
necessariamente la forma della tautologia (giusta la definizione, che prima ne davamo); (e) con l’evidente conseguenza di non poter produrre nuove conoscenze.
Insomma, la distinzione fra Probability e Demonstration operava una duplice netta distinzione: -fra ciò che è logicamente necessario, da un lato, e, dall’altro, ciò che è empiricamente accertabile; -fra consistenza logica, per un verso, e, per un altro, conoscenza nuova.
Il mondo dei fatti, delle esperienze (dunque, anche della pratica e della storia) risultava, a questo punto, nettamente separato dal dominio della conoscenza vera, dimostrata, in quanto logicamente valida.
L’impostazione
dialettica -di Hegel e di Marx- si pone nella prospettiva esattamente
opposta: di superare, cioè, questa scissione tra verità ed esperienza,
fra logica e storia [2].
Per
ragioni subito comprensibili, rinunciamo, in questa sede, ad illustrare
le pagine, che al tema del sillogismo dedica Hegel nella sua Scienza della logica:
sarebbero di grande utilità per il nostro problema; ci aiuterebbero
alla stessa comprensione delle pagine di Marx, ma darebbero, certo,
un’estensione difficilmente tollerabile a questo nostro "Schema".
Volgiamoci, dunque, decisamente a Marx.
Egli definisce vuota tautologia un enunciato come questo: «senza appropriazione (dunque, proprietà), non c’è produzione».
In effetti, produrre presuppone che si abbia
una materia su cui operare e strumenti per trasformarla; in questo
senso, basta comprendere il significato di termini come «produrre»,
«produzione», per intendere, anche, che implicitano termini come
«appropriarsi» e «appropriazione». Affermare, dunque, che non c’è
produzione senza appropriazione vale affermare che non c’è produzione
senza (le condizioni della) produzione. Ecco la vuota tautologia.
Sennonché,
l’economia politica fa di quella vuota tautologia, di quella mèra
esplicazione, nel predicato, del significato del soggetto, la premessa
maggiore di un sillogismo, che potremmo costruire in questo modo:
· (premessa maggiore) ogni produzione implicita appropriazione/proprietà;
· (premessa minore) la proprietà privata capitalistica è, appunto, proprietà;
· (conclusione) dunque, ogni produzione implicita la proprietà privata capitalistica.
Il “trucco” evidentemente sta nella premessa minore. La quale riconduce senz’altro alla classe generale “appropriazione/proprietà” una forma storicamente determinata di appropriazione/proprietà (privata borghese), senza porsi il compito di spiegare perché produrre (in certe condizioni storiche) impliciti questa e non un’altra
forma di proprietà. Dal punto di vista formale, l’argomentazione
sillogistica è basata su questa contraddizione: da un lato, si muove ad
un livello puramente formale; da un altro, però, inserisce
-surrettiziamente e senza alcuna giustificazione- un determinato contenuto storico
(la proprietà borghese). La conseguenza è che, nella conclusione, la
forma privata capitalistica di proprietà (cioè, il determinato contenuto storico) viene legittimata dall’apparente rigore formale dell’argomentazione, trascurando completamente di mettere in evidenza il nesso fra quella forma di proprietà e certe condizioni storiche.
Per due vie si raggiunge, così, l’apologesi del capitalismo:
identificando la proprietà capitalistica con la proprietà in generale e,
dunque, con un’essenziale condizione per l’esistenza della produzione;
ma, anche, facendo scomparire dal quadro l’elemento della storicità
della forma capitalistica di proprietà (la quale se esiste perché legata
a certe determinate condizioni, in mancanza di queste stesse
condizioni, non ha più un rapporto necessario con il produrre, dunque,
non ha più giustificazione) [3].
E’ interessante notare che la tautologia «senza appropriazione, non c’è produzione»
potrebbe essere usata diversamente da come fa l’economia politica. Dal
necessario nesso generale tra produzione e appropriazione, infatti,
potrei ricavare la sollecitazione a scoprire quale sia il nesso tra questa forma di produzione e questa forma di proprietà e giungere, così, al risultato opposto rispetto all’economia politica: ovvero la messa in evidenza della storicità della proprietà privata borghese.
Dobbiamo
concludere, dunque, che per Marx né l’astrazione sensata, né la
tautologia sono -in quanto tali- strumenti scientificamente
inapplicabili: nella critica marxiana, è in questione l’uso effettivo che di quegli strumenti si fa. Il quale è sempre negativo, quando nasce dalla pretesa di giungere a risultati significativi rispetto a determinate situazione storiche, pur muovendosi quegli strumenti su un piano puramente formale. Ciò significa che -come pure avveniva in Hegel- nella critica di Marx all’astrazione «produzione in generale» ed alla tautologia non va colto il rifiuto della scienza empirica in quanto tale, ma sì la critica dell’empirismo, ovvero, di quella filosofia, che pretende d’esser tale, generalizzando
tecniche, procedure e punto di vista delle scienze particolari o
empiriche, che invece hanno senso entro dimensioni ben circoscritte [4].
Rispetto ai temi finora accennati, l’intero capitolo 2 dell’Introduzione
marxiana ("Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e
consumo") è di grande importanza. In effetti, in quelle pagine vediamo
Marx ricorrere largamente sia all’astrazione sensata che alla
tautologia, ma in una prospettiva diversa da quella dell’economia
politica. Egli, infatti, di quegli strumenti si serve non per nascondere
dietro un apparente rigore formale determinati contenuti storici da
legittimare surrettiziamente; ben al contrario, per mettere in luce la logica dinamica, la linea di movimento di precisi processi reali.
In questo modo, noi abbiamo un chiaro esempio dell’atteggiamento
dialettico, che è volto -lo abbiamo accennato- a superare la frattura
fra logica e storia, che era il risultato filosofico contro cui già
Hegel si era mosso.
Il successivo capitolo 3 ("Il metodo dell’economia politica") è la parte dell’Introduzione,
che più ha richiamato l’attenzione degli studiosi -fino al punto che, a
volte, è stata l’unica parte effettivamente discussa. Probabilmente,
questo è un errore, perché -come abbiamo visto- i capitoli precedenti
sono anch’essi assai ricchi di contenuto teorico, ma inoltre utilissimi
non solo per comprendere le tesi poi esposte nel capitolo 3, ma forse,
anche, per riuscire a collocare quest’ultimo nella giusta prospettiva di
lettura. Da parte nostra, affronteremo "Il metodo dell’economia
politica", prima, richiamandone sommariamente i passaggi fondamentali;
poi, confrontandone i punti salienti con precise pagine di Hegel e di Feuerbach.
Marx riprende il motivo dell’Ausgangspunkt
dell’economia politica, precisando che c’è un modo di cominciare dalla
popolazione, in realtà, scorretto sia metodologicamente che teoricamente
(si tratta di quell’inizio naturale, che già conosciamo).
E’
la strada percorsa dall’economia politica al suo inizio ed è
caratterizzata dall’assumere grandi aggregati (popolazione, classi
sociali, differenti rami della produzione, ecc.), senza, però, averli
posti in organica connessione l’un con l’altro. Il risultato è che il
punto di partenza risulta semplicemente assunto dall’esperienza e
mantenuto nella coaticità, in cui si presenta: è, insomma, un concreto dell’immaginazione, ovvero, dell’immediata sensibilità.
La
stessa economia politica non si è fermata a questo stadio, dacché ha
sottoposto quell’insieme caotico ed immediato ad un lavoro di analisi,
che le ha consentito di isolare singoli elementi fondamentali (ad es.,
il lavoro, il capitale, ecc.).
A questo punto, bisognerebbe
percorrere la strada inversa ed evidenziando le relazioni fra gli
elementi semplici, ricostruire l’insieme, la totalità, in modo, però, da
avere ormai non più un concreto dell’immaginazione, ma sì un concreto del pensiero.
Solo a questo punto, abbiamo l’effettivo cominciamento o punto di
partenza -il quale è tale, anche per la percezione e la
rappresentazione, quale che sia la coscienza, che esse ne hanno.
Due punti teorici, che sostengono questa argomentazione sono: (a) una concezione del concreto, che lo differenzia dall’immediato dato percettivo, identificandolo, invece, con un insieme articolato di molte determinazioni. (Va da sé che questo è appieno un motivo hegeliano). (b) L’affermazione che il modo, in cui la mente costruisce il concreto, si differenzia dai molti modi,
in cui il concreto si va costruendo, di fatto, nell’esistenza
effettiva; sarebbe un grave fraintendimento, dunque, identificare la
seconda costruzione (quella che avviene nell’esistenza storica
effettiva) con la prima (che corrisponde al modo, in cui la mente si
appropria il concreto).
Nello svolgere questo argomento, Marx -sia
pure con grande rapidità- cita, prima, un generico "hegeliano" e, poi,
direttamente Hegel, accusandoli di cadere nell’errore speculativo, che
consiste nell’identificare il percorso, che effettivamente il concreto
segue, quando si va costruendo nell’esistenza storica, con il processo
di costruzione del concreto stesso, ma da parte della mente. Come
dobbiamo interpretare ciò?
La domanda ha un senso, perché già in precedenti opere -La Sacra Famiglia e L’ideologia tedesca (quest’ultima,
ricordiamolo, Marx ed Engels né vollero finirla, né tanto meno
pubblicarla)-, la critica ad Hegel si alterna con quella agli hegeliani
(esattamente, ai ‘giovani-hegeliani’). ma ciò avviene in un modo assai
ambiguo, perché si accompagna a dichiarazioni dei due autori, dalle
quali risulta che i ‘giovani-hegeliani’ sono una sorta di riproduzione
caricaturale, farsesca del pensiero di Hegel (ed, allora, non appare più
chiaro come la stessa critica possa esser rivolta ad entrambi);
inoltre, perché, quando in quei testi giovanili Marx ed Engels vogliono
smascherare il meccanismo vizioso -se si vuole, l’imbroglio- su cui è costruito il metodo speculativo, in realtà, riprendono quasi alla lettera precise pagine di ... Hegel [5]. Ripropongono tali ambiguità i due accenni critici -all’hegeliano e ad Hegel- presenti nell’Introduzione?
Consideriamo
a questo punto una pagina di Feuerbach, che critica il metodo di Hegel:
"Tutto (per Hegel) deve avere esposizione (o dimostrazione), ossia
restringersi e risolversi nell’ esposizione. L’ esposizione astrae da
ciò che era saputo prima di essa; deve iniziare con un cominciamento
assoluto. Ma è appunto qui che si manifesta subito il limite dell’
esposizione. Il pensare è precedente all’ esposizione del pensare. Nella
esposizione l’inizio è il primo soltanto per lei, ma non per il
pensare. L’ esposizione deve ricorrere a pensieri che si presentino solo
successivamente, ma che sono però interiormente, nel pensiero, sempre
presenti. L’ esposizione è ciò che è mediato, in sé e per sé, e per
conseguenza anche in lei il primo non è, mai e poi mai, un immediato, ma
piuttosto un posto, un dipendente, un mediato, in quanto viene definito
da determinazioni di pensiero che sono certe per carattere proprio, che
sono precedenti e indipendenti rispetto alla filosofia che si espone e
si spiega in successione temporale. L’ esposizione si appella così,
sempre, a un’ istanza superiore, che, relativamente ad essa, è
aprioristica. E non è forse proprio quello che succede con l’ essere
della logica hegeliana?" [6].
Tenendo presente che l’ "esposizione", che qui Feuerbach critica, è esattamente quella Darstellung,
che espone il modo in cui il pensiero costruisce il concreto, uscendo
così dalla caoticità del concreto dell’immaginazione, appare del tutto
chiaro che la critica feuerbachiana ad Hegel va esattamente nel senso
opposto rispetto a quello che, per Marx, è il corretto metodo
scientifico.
Potremmo dire che Feuerbach si rende conto della differenza fra Darstellung
(o esposizione del concreto del pensiero) e svolgimento reale (cioè,
nell’esistenza effettiva); ma cade nell’errore di voler appiattire la
prima sul secondo e così, in definitiva, di rivendicare contro il lavoro
del pensiero l’immediata naturalità del fatto.
Che questo sia esattamente l’opposto di quanto Marx propone [7],
è lo stesso Feuerbach in realtà a mostracelo, quando scrive: "Quello
che è stato, finora, l’andamento della filosofia speculativa -il
procedere, cioè, dall’ astratto al concreto [che è esattamente quanto Marx propone.
S. G.], dall’ideale al reale-, non è che un percorso rovesciato.
Seguendolo non si perviene alla realtà vera, obiettiva, ma sempre solo
alla realizzazione delle proprie astrazioni e, appunto per ciò, non si
giunge all’effettiva verità dello spirito. Infatti, solo l’intuizione (Anschauung)
delle cose e delle essenze nella loro realtà obiettiva, rende l’uomo
libero e lo priva di ogni pregiudizio. Il passaggio dall’ ideale al
reale ha il proprio luogo, solo, nella filosofia pratica" [8].
Consideriamo,
ora, alcune pagine di Hegel (fra le tante, che si potrebbero
opportunamente richiamare), allo scopo di mostrare la sostanziale
concordanza con la posizione espressa da Marx.
Nel §.4 delle sue Lezioni sul diritto naturale e la scienza dello Stato (Vorlesungen über Naturrecht und Staatswissenscheft) -conosciute anche come la Filosofia del diritto di Heidelberg, dove effettivamente furono tenute queste lezioni nel 1817/1818-, Hegel scrive: "Quando penso (denken) un oggetto, lo rendo un pensato (Gedanke) e gli tolgo ciò che ha di sensibile; lo rendo così qualcosa che è immediatamente ed essenzialmente mio: infatti, nel pensare (denken) sono presso di me. Elaborare il concetto (begreifen)
significa penetrare l’oggetto, che non è più qualcosa di contrapposto a
me, perché gli ho tolto ciò che, per sé, a me si oppone... dice lo
spirito «questo è spirito del mio spirito» e l’estraneità (Fremdheit)
è dissolta. Ogni rappresentazione è una generalizzazione e quest’ultima
appartiene al pensare. Pensare qualcosa significa renderlo generale ...
Questo è l’atteggiamento teoretico".
Come si vede, qui è del
tutto anticipata quella nozione di «concreto del pensiero», che abbiamo
incontrato in Marx. Ed è anticipata in un modo quantomai interessante:
Hegel, infatti, ci dice che il pensato risulta da una rielaborazione dell’oggetto, operata dell’atteggiamento teoretico; il che, in altri termini, significa che il pensato non è identificato con l’oggetto immediato.
Dunque, quando Marx distingue modo di costruzione del concreto nel
pensiero e modo di costruzione sua nell’esistenza effettiva, a ben
vedere, non introduce una novità rispetto ad Hegel ma, piuttosto, ne
esplicita (o svolge) una ben precisa tesi.
Nel §.3 delle stesse Lezioni, Hegel distingue una trattazione filosofica ed una trattazione storica
del diritto, negando la possibilità che entrino in contrasto l’un con
l’altra, non perché siano l’una il calco dell’altra, ma perché si
pongono a livelli diversi. Nel successivo §.45, chiarisce che un
universale -o concetto-, senza la figura empirica della sua
realizzazione, è un universale astratto, che posso, certo, afferrare con
il pensiero e descrivere nella sua mèra formalità, ma che -proprio in
quanto astratto, nel senso che abbiamo visto- resta un "non vivente" e,
perciò, inefficace praticamente.
La conclusione sembra chiara:
Hegel nega la tesi idealistica, che identifica il reale con il pensato;
distingue una trattazione dell’oggetto (nel suo caso il diritto;
l’economia politica, per Marx) dal punto di vista del concetto e/o dal punto di vista della storia; distingue un universale astratto,
che è privo di una figura empirica o presenza nell’esistenza effettiva,
da un universale che, invece e tenendo presenti le precedenti
differenziazioni, si svolge nel reale. Non è forse questo lo sfondo teorico del discorso, che abbiamo visto come proprio di Marx?
A questo punto, però, si fa ancora più urgente la domanda che ci ponevamo? Perché Marx, in questa Introduzione, sia pure rapidamente, polemizza contro l’ "hegeliano" e contro lo stesso Hegel?
Probabilmente
la risposta l’abbiamo sotto gli occhi. La polemica di Marx non è
esattamente contro Hegel (che egli conosceva bene, utilizzava largamente
e che rileggeva, quand’era impegnato nella stesura di Das Kapital); la sua polemica è contro un certo modo
di essere hegeliano, che trovava nella cosiddetta sinistra hegeliana -o
movimento dei "giovani hegeliani"- e che radici nel testo di Hegel
doveva pur averle. Indubbiamente la polemica di Marx è contro una
determinata interpretazione di Hegel, accompagnata, però, dalla
consapevolezza che difficilmente un’interpretazione è appieno
arbitraria.
Dunque, la polemica di Marx è contro quello Hegel, che può condurre alle tesi giovani-hegeliane;
contro quei lati, quelle oscurità, quelle ambiguità, presenti nel testo
di Hegel e che, in qualche modo, possono concludersi con le posizioni
della sinistra hegeliana.
Senonché, questo non è tutto Hegel, né forse è lo Hegel essenziale.
Si tratta, tuttavia, di un certo modo in cui - di fatto - il pensiero
di Hegel è stato recepito, ha "funzionato". Ed è proprio quel certo modo
che Marx critica (*).
Nessun commento:
Posta un commento