mercoledì 27 febbraio 2013

Il Movimento 5 Stelle alla prova della fiducia

Una battuta di Grillo ("Bersani è un morto che parla") fa calare una cappa plumbea sugli entusiasti della convergenza Grillo-Pd. Tutti gli scenari.

di Cinzia Gubbini, Popoff.globalist.it

Le ultime dichiarazioni di Grillo "Bersani è un morto che parla" stanno terremotando il quadro politico. Tutti si chiedono: ma che vuol dire? Allora Grillo non appoggerà il governo? Ammesso che voglia davvero dire qualcosa, e che non sia una boutade, è altrettanto vero che Bersani non ha mai scommesso al 100% che il Movimento 5 Stelle avrebbe votato la fiducia.

Non li conoscono, non hanno idea di quali mosse vogliano fare. A dirla tutta, non lo sanno neanche i grillini, che ancora non hanno fatto del tutto i conti con la "macchina parlamentare". Idealmente sono orientati a replicare il "modello Sicilia", ma le Regioni, poiché eleggono direttamente il presidente della regione e quindi hanno già adottato un "modello presidenzialista" non devono ottenere la fiducia da parte del Consiglio regionale. Comunque, lo scorso novembre, in una intervista a Pubblico il portavoce del Movimento Cinque Stelle Giancarlo Cancelleri aveva detto - a un giornalista che glielo chiedeva - che nel caso avrebbe votato la fiducia alla giunta regionale "perché non dargliela a prescindere, facciamoli lavorare..". Ora invece Grillo scrive sul suo blog, ricordando tutti gli "insulti" rivolti da Bersani al M5S in questi mesi, "non voteremo alcuna fiducia".

In effetti votare la fiducia non è solo un modo per "dare fiducia", in qualche modo impegna quella forza politica a condividere il programma con cui si presenta il governo. E se una cosa è sicura è che la linea del Movimento Cinque Stelle è: avere le mani libere. Come non capirli, d'altronde. Il Pd ha provato a sondare la disponibilità grillina a sporcarsi un po' le mani, per esempio offrendo la presidenza della Camera, anche qui cominciando già da subito a seguire le orme del presidente siciliano Rosario Crocetta che con i quindici grillini ha instaurato un dialogo anche concedendo alcune posizioni istituzionali (la famosa presidenza della Commissione Ambiente a Cancelleri, ma non solo).

E' chiaro però che si potrà pure replicare il modello siciliano, ma fino a un certo punto. Questo è un debutto importantissimo per il Movimento Cinque Stelle, hanno l'onere di mostrare "un'altra faccia" della politica. Insomma, sono nati per questo. Non è che possono tout court votare la fiducia e beccarsi la presidenza della Camera (che, comunque, gli spetterebbe, anche se il Pdl non è d'accordo perché "la nostra è una legge elettorale orientata alle coalizioni, e noi siamo la seconda coalizione"). E allora?

Una possibilità è che il Movimento Cinque Stelle esca dall'aula quando si tratterà di votare la fiducia. Così avrebbero le "mani pulite" e potrebbero coronare il sogno di "votare legge per legge". Perché una cosa è chiara: i grillini non hanno nessuna voglia di tornare subito alle urne. Anche perché se disgraziatamente gli capitasse di dover davvero governare, sanno benissimo che i problemi sarebbero enormi. Forse ingestibili per un movimento così giovane e i cui eletti sono "gagliardissimi" però impreparati sul fronte della macchina istituzionale.

Semplice? Per niente. Perché a quel punto si presenta un problema abbastanza insormontabile per il Pd. Su quale programma chiede la fiducia? Difficile che con un programma zeppo di istanze grilline (senza neanche arrivare a pensare al conflitto di interessi) si possa incassare la fiducia del Pdl. Sarebbe persino ingiusto chiederglielo. Potrebbe esserci Monti, che per la governabilità farebbe tutto - anche perché il suo destino prossimo è molto incerto. Ma al Senato non basta. Anche perché: ammesso che i grillini escano dall'aula, potrebbe decidere di farlo anche il Pdl. A quel punto mancherebbe addirittura il numero legale. Se invece il Movimento 5 Stelle rimane in aula e si astiene il voto viene contato come contrario. Ma aldilà dei tatticismi, il problema, tanto più in questo momento, è anche sui contenuti. Se Bersani si presenta con un programma minimo che abbraccia le istanze grilline, perché mai non dovrebbero votare la fiducia? Solo per una questione di principio? Anche la base di Grillo non capisce, e sul blog sono già numerosi i commenti del "partito" contrario alle urne e a favore del voto di fiducia per far partire la legislatura.

Beppe Grillo contro dipendenti pubblici e pensionati di Luca Fiore, Contropiano.org


La "rivoluzione" di Grillo? Attaccare dipendenti pubblici e pensionati. Secondo il guru del M5S la società non si divide in classi ma in generazioni: giovani precari e imprenditori tartassati contro evasori, politici, dipendenti pubblici e pensionati.
Gridano alla pulizia e al rinnovamento, si rappresentano come gli 'anticasta' e in molti, moltissimi, gli hanno dato in buona fede il proprio voto di fronte a una situazione intollerabile. Ma il primo intervento del proprietario del marchio dei Cinque Stelle in un intervento pubblicato ieri sul suo seguitissimo blog parla chiaro: non ci sono abbastanza risorse per tutti, e per dare qualcosa ai giovani - il promesso reddito di cittadinanza - bisogna attaccare quei "privilegiati" di dipendenti pubblici e pensionati.
Ci voleva un rivoluzionario per dire ciò che decine di "tecnici", giuslavoristi e imprenditori di PD, PDL e Monti ci stanno ripetendo da anni, cercando di mettere i giovani contro gli adulti? 

Gli italiani non votano mai a caso


da www.beppegrillo.it

Gli italiani non votano a caso, queste elezioni lo hanno ribadito, scelgono chi li rappresenta.
In Italia ci sono due blocchi sociali. Il primo, che chiameremo blocco A, è fatto da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o disoccupati, spesso laureati, che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere. Questi ragazzi cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie. A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano.
Il secondo blocco sociale, il blocco B, è costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d'acquisto, da una gran parte di dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, dagli evasori, dalla immane cerchia di chi vive di politica attraverso municipalizzate, concessionarie e partecipate dallo Stato.

L'esistenza di questi due blocchi ha creato un'asimmetria sociale, ci sono due società che convivono senza comunicare tra loro. Il gruppo A vuole un rinnovamento, il gruppo B la continuità. Il gruppo A non ha nulla da perdere, i giovani non pagano l'IMU perché non hanno una casa, e non avranno mai una pensione. Il gruppo B non vuole mollare nulla, ha spesso due case, un discreto conto corrente, e una buona pensione o la sicurezza di un posto di lavoro pubblico.

Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c'è l'età. Chi fa parte del gruppo A ha votato in generale per il M5S, chi fa parte del gruppo B per il Pld o il pdmenoelle. Non c'è nessuno scandalo in questo voto. E' però un voto di transizione. Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto. Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è un dato di fatto, lo status quo è insostenibile, è possibile alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico, i cui interessi sono pagati anch'essi dalle tasse. E' una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.
Nei prossimi giorni assisteremo a una riedizione del governo Monti con un altro Monti. L'ammucchiata Alfano, Bersani, Casini, come prima delle elezioni. Il M5S non si allea con nessuno come ha sempre dichiarato, lo dirò a Napolitano quando farà il solito giro di consultazioni. Il candidato presidente della Repubblica del M5S sarà deciso dagli iscritti al M5S attraverso un voto on line. Passo e chiudo. Sta arrivando la primavera. Ripeto: sta arrivando la primavera.

Il vero obiettivo è privatizzare il pubblico Posted by keynesblog



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Enrico Mattei, presidente dell’ENI

 


 
 
 
 
 

A che serve la crisi europea? Una risposta è che rende inevitabile la privatizzazione delle attività pubbliche, con grandi profitti per i privati. Come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo
L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro. Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il credito. Una crisi di debito estero (prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.
Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo?
Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito. Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del mondo.
Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore pubblico, la cosiddetta “starve the beast”. La bestia è lo stato, nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un servizio pubblico sempre più scadente.
Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti. Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
L’esperienza delle “riforme” nell’Europa centrale ed orientale subito dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.
Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni.
Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i cantieri navali. In Spagna le privatizzazioni “express” riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come condizione per continuare a ricevere gli aiuti europei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale, spiegando la necessità di “nuovi modelli di finanziamento integrativo”. L’agenda Monti oggi ci ricorda che “la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane” e quindi invita a “proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico”. E sulle prime pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora “troppo stato in quell’agenda”.
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista (privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.
Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente scontenti degli esiti. I giudizi ex-post sono tanto più critici quanto più rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.
La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di seguire nel dopo-elezioni.

Il Movimento 5 stelle ha difeso il sistema di WU MING

Adesso che il Movimento 5 stelle sembra aver “fatto il botto” alle elezioni, non crediamo si possa più rinviare una constatazione sull’assenza, sulla mancanza, che il movimento di Grillo e Casaleggio rappresenta e amministra. Il M5S amministra la mancanza di movimenti radicali in Italia. C’è uno spazio vuoto che il M5S occupa… per mantenerlo vuoto.

Nonostante le apparenze e le retoriche rivoluzionarie, crediamo che negli ultimi anni il Movimento 5 stelle sia stato un efficiente difensore dell’esistente. Una forza che ha fatto da “tappo” e stabilizzato il sistema. È un’affermazione controintuitiva, suona assurda, se si guarda solo all’Italia e, soprattutto, ci si ferma alla prima occhiata. Ma come? Grillo stabilizzante? Proprio lui che vuole “mandare a casa la vecchia politica”? Proprio lui che, dicono tutti, si appresta a essere un fattore di ingovernabilità?
Noi crediamo che negli ultimi anni Grillo, nolente o volente, abbia garantito la tenuta del sistema.

Negli ultimi tre anni, mentre negli altri paesi euromediterranei e in generale in occidente si estendevano e in alcuni casi si radicavano movimenti inequivocabilmente anti-austerity e antiliberisti, qui da noi non è accaduto. Ci sono sì state lotte importanti, ma sono rimaste confinate in territori ristretti oppure sono durate poco. Tanti fuochi di paglia, ma nessuna scintilla ha incendiato la prateria, come invece è accaduto altrove. Niente indignados, da noi; niente #Occupy; niente “primavere” di alcun genere; niente “Je lutte des classes” contro la riforma delle pensioni. Non abbiamo avuto una Piazza Tahrir, non abbiamo avuto una Puerta de Sol, non abbiamo avuto una Piazza Syntagma. Non abbiamo combattuto come si è combattuto – e in certi casi tuttora si combatte – altrove. Perché?
I motivi sono diversi, ma oggi vogliamo ipotizzarne uno solo. Forse non è il principale, ma crediamo abbia un certo rilievo.

Da noi, una grossa quota di “indignazione” è stata intercettata e organizzata da Grillo e Casaleggio – due ricchi sessantenni provenienti dalle industrie dell’entertainment e del marketing – in un franchise politico/aziendale con tanto di copyright e trademark, un “movimento” rigidamente controllato e mobilitato da un vertice, che raccatta e ripropone rivendicazioni e parole d’ordine dei movimenti sociali, ma le mescola ad apologie del capitalismo “sano” e a discorsi superficiali incentrati sull’onestà del singolo politico/amministratore, in un programma confusionista dove coesistono proposte liberiste e antiliberiste, centraliste e federaliste, libertarie e forcaiole. Un programma passepartout e “dove prendo prendo”, tipico di un movimento diversivo.
Fateci caso: il M5S separa il mondo tra un “noi” e un “loro” in modo completamente diverso da quello dei movimenti di cui sopra.

Quando #Occupy ha proposto la separazione tra 1 e 99 per cento della società, si riferiva alla distribuzione della ricchezza, cioè va dritta al punto della disuguaglianza: l’1 per cento sono i multimilionari. Se lo avesse conosciuto, #Occupy ci avrebbe messo anche Grillo. In Italia, Grillo fa parte dell’1 per cento.
Quando il movimento spagnolo riprende il grido dei cacerolazos argentini “Que se vayan todos!”, non si sta riferendo solo alla “casta”, e non sta implicitamente aggiungendo “Andiamo noi al posto loro”. Sta rivendicando l’autorganizzazione autogestione sociale: proviamo a fare il più possibile senza di loro, inventiamo nuove forme, nei quartieri, sui posti di lavoro, nelle università. E non sono le fesserie tecnofeticistiche grilline, le montagne di retorica che danno alla luce piccoli roditori tipo “parlamentarie”: sono pratiche radicali, mettersi insieme per difendere le comunità di esclusi, impedire fisicamente sfratti e pignoramenti eccetera.

Tra quelli che “se ne devono andare”, gli spagnoli includerebbero anche Grillo e Casaleggio (inconcepibile un movimento comandato da un milionario e da un’azienda di pubblicità!), e anche quel Pizzarotti che a Parma da mesi gestisce l’austerity e si rimangia le roboanti promesse elettorali una dopo l’altra.
Ora che il grillismo entra in parlamento, votato come extrema ratio da milioni di persone che giustamente hanno trovato disgustose o comunque irricevibili le altre offerte politiche, termina una fase e ne comincia un’altra. L’unico modo per saper leggere la fase che inizia, è comprendere quale sia stato il ruolo di Grillo e Casaleggio nella fase che termina. Per molti, si sono comportati da incendiari. Per noi, hanno avuto la funzione di pompieri.

Può un movimento nato come diversivo diventare un movimento radicale che punta a questioni cruciali e dirimenti e divide il “noi” dal “loro” lungo le giuste linee di frattura?
Perché accada, deve prima accadere altro. Deve verificarsi un Evento che introduca una discontinuità, una spaccatura (o più spaccature) dentro quel movimento. In parole povere: il grillismo dovrebbe sfuggire alla “cattura” di Grillo. Finora non è successo, ed è difficile che succeda ora. Ma non impossibile. Noi come sempre, “tifiamo rivolta”. Anche dentro il Movimento 5 stelle.

L'amico del giaguaro - Marco Travaglio



La domanda era: riusciranno i nostri eroi a non vincere le elezioni nemmeno contro un Caimano fallito e bollito? La risposta è arrivata ieri: ce l’han fatta un’altra volta. Come diceva Nanni Moretti 11 anni fa, prima di smettere di dirlo e di illudersi del contrario, “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Del resto, a rivedere la storia del ventennio orribile, era impossibile che gli amici del giaguaro smacchiassero il giaguaro. L’abbiamo scritto fino alla noia: nel novembre 2011, quando B. si dimise fra le urla e gli sputi della gente dopo quattro anni di disastri, era dato al 7%: bastava votare subito, con la memoria fresca del suo fallimento, e gli elettori l’avrebbero spianato, asfaltato, polverizzato. Invece un’astuta manovra di palazzo coordinata dai geniali Napolitano, Bersani, Casini e Fini, pensò bene di regalarci il governo tecnico e soprattutto di regalare a B. 16 mesi preziosi per far dimenticare il disastro in cui ci aveva cacciati. Il risultato è quello uscito ieri dalle urne. Che non è la rimonta di B: è la retromarcia del centrosinistra. Che pretende di aver vinto con meno voti di quando aveva perso nel 2008. Il Pdl intanto ha incenerito metà dei voti di cinque anni fa, la Lega idem. E meno male che c’era Grillo a intercettarli, altrimenti oggi il Caimano salirebbe per la quarta volta al Quirinale per formare il nuovo governo. Il che la dice lunga sulla demenza di chi colloca M5S all’estrema destra o lo paragona ad Alba Dorata. Il centrodestra è al minimo storico, sotto il 30%, che però è il massimo del suo minimo: perché B. s’è alleato con tutto l’alleabile, mentre gli strateghi del Pd con la puzza sotto il naso han buttato fuori Di Pietro e quel che restava di Verdi, Pdci, Prc e hanno schifato Ingroia: altrimenti oggi avrebbero almeno 2 punti e diversi parlamentari in più, forse addirittura la maggioranza al Senato. Ma credevano di avere già vinto, con lo “squadrone” annunciato da Bersani dopo le primarie: l’ennesima occasione mancata (oggi, col pur discutibile Renzi, sarebbe tutta un’altra storia). Erano troppo occupati a spartirsi le poltrone della nuova gioiosa macchina da guerra per avere il tempo di fare campagna elettorale. I voti dovevano arrivare da sé, per grazia ricevuta e diritto divino, perché loro sono i migliori e con gli elettori non parlano. Qualcuno ricorda una sola proposta chiara e comprensibile di Bersani? Tutti hanno bene impresse quelle magari sgangherate di Grillo e quelle farlocche di B. (soprattutto la restituzione dell’Imu, tutt’altro che impossibile, anche se pagliaccesca visto che B. l’Imu l’aveva votata). Di Bersani nessuno ricorda nulla, a parte che voleva smacchiare il giaguaro. Anche questo l’abbiamo scritto e riscritto: nulla di particolarmente brillante, tant’è che ci era arrivato persino D’Alema. Ma non c’è stato verso: la campagna elettorale del Pd non è mai cominciata, a parte i gargarismi sulle alleanze con SuperMario (da ieri MiniMario) e i formidabili “moderati” di Casini (tre o quattro in tutto). Col risultato di uccidere Vendola, mangiarsi l’enorme vantaggio conquistato con le primarie e regalare altri voti a Grillo, non bastando l’emorragia degli ultimi anni. Ora è ridicolo prendersela col Porcellum (peraltro gelosamente conservato): chi, dopo 5 anni di bancarotta berlusconiana, non riesce a convincere più di un terzo degli elettori non può pretendere di governare contro gli altri due terzi. Anzi, dovrebbe dimettersi seduta stante per manifesta incapacità, ponendo fine al lungo fallimento di un’intera generazione: quella degli ex comunisti che non ne hanno mai azzeccata una. Ma dalle reazioni fischiettanti di ieri sera non pare questa l’intenzione: tutti resteranno al loro posto e, lungi dallo smacchiare il giaguaro, proveranno ad allearsi col giaguaro in una bella ammucchiata per smacchiare il Grillo e soprattutto evitare altre elezioni. Auguri. Quos Deus vult perdere, dementat prius.

lunedì 25 febbraio 2013

A futura memoria...Per chi si è illuso che la soluzione consista in un semplice VAFFA

ELEZIONI: un commento di Paolo Ferrero

Grande è la delusione e lo scoramento. Voglio quindi dare un grande ringraziamento ai compagni e alle compagne per il loro lavoro e proporvi una prima riflessione a caldo.
I dati sono arrivati e sono chiari: abbiamo perso. Rivoluzione Civile è rimasta schiacciata tra il voto di protesta dato a Grillo e il voto utile dato a Bersani.
Il voto è caratterizzato dal grande successo di Grillo che rappresenta l’insofferenza di massa per le politiche economiche e il sistema politico. Questo è il risultato che fornisce la cifra della consultazione elettorale: un paese che non condivide le politiche neoliberiste e non si riconosce nel sistema politica ma non ha maturato alcuna alternativa. Contemporaneamente un parlamento in cui nessuno degli schieramenti che si è presentato alle elezioni ha la maggioranza.
Quella che ci consegna il voto non è allora una rivoluzione, ne una situazione di stallo, ma una crisi organica, in cui il sistema non è più in grado di dare una risposta stando all’interno delle sue regole. Per descrivere la situazione italiana ho più volte parlato di Weimar al rallentatore, adesso ci siamo finiti dentro in pieno.
Il risultato concreto delle elezioni non è quindi la rivoluzione ma l’implosione del sistema in cui nemmeno il nuovo ricorso alle urne è così semplice: rischierebbero di riprodurre la situazione di stallo.
Parallelamente mi pare difficile che possano ridar vita ad una grande coalizione: la campagna elettorale ha fortemente polarizzato la situazione.
In questo contesto la cosa più probabile e più pericolosa è che i poteri forti aprano una battaglia politica per ottenere un governo a termine che dia vita alle riforme istituzionali, al fine di risolvere attraverso una semplificazione autoritaria il tema della governabilità. Temo cioè che emergerà pesantemente la proposta del presidenzialismo. La stabilizzazione che non è possibile determinare per via politica potrebbe essere perseguita per via istituzionale, aprendo la strada ad una riduzione dei margini di democrazia.
Nostro compito in questa situazione è la proposta di riscrittura attraverso un percorso di partecipazione popolare delle forme e dei contenuti della sovranità popolari al di fuori delle politiche neoliberiste.
Qui mi fermo stasera. Da domani cominceremo a rifletterci meglio a mente lucida.

RISULTATI Torgiano: SENATO

Comune di Torgiano: SENATO

Abitanti: 6.585 / Elettori: 4.715
Affluenza (alla chiusura delle operazioni) 81,6 %
Affluenza nel 2008 (alla chiusura delle operazioni) 86,6 %
6 sezioni su 6
Partiti Voti %
Partito Democratico (Pd) 1.191 31,9
Sinistra ecologia e libertà (Sel) 100 2,7
Totale coalizione - Pier Luigi Bersani 1.291 34,5
Il Popolo della libertà (Pdl) 860 23,0
Fratelli d'Italia 121 3,2
La Destra 35 0,9
Lega Nord 25 0,7
Intesa Popolare 8 0,2
Mir - Moderati in Rivoluzione 5 0,1
Totale coalizione - Silvio Berlusconi 1.054 28,2
Con Monti per l'Italia 332 8,9
Totale coalizione - Mario Monti 332 8,9
MoVimento 5 Stelle - beppegrillo.it 915 24,5
Totale coalizione - Beppe Grillo 915 24,5
Rivoluzione Civile 78 2,1
Totale coalizione - Antonio Ingroia 78 2,1
Fare per Fermare il Declino 29 0,8
Totale coalizione - Oscar Giannino 29 0,8
Partito comunista dei lavoratori 36 1,0
Totale altri 36 1,0

RISULTATI Comune DERUTA: SENATO

Comune di Deruta

Abitanti: 9.622 / Elettori: 6.762

Affluenza (alla chiusura delle operazioni) 80,4 %

Affluenza nel 2008 (alla chiusura delle operazioni) 84,9 %

9 sezioni su 9



Partiti Voti %
Partito Democratico (Pd) 1.433 27,5
Sinistra ecologia e libertà (Sel) 100 1,9
Totale coalizione - Pier Luigi Bersani 1.533 29,4
Il Popolo della libertà (Pdl) 1.307 25,0
Fratelli d'Italia 145 2,8
La Destra 79 1,5
Lega Nord 39 0,7
Intesa Popolare 21 0,4
Mir - Moderati in Rivoluzione 9 0,2
Totale coalizione - Silvio Berlusconi 1.600 30,6
Con Monti per l'Italia 395 7,6
Totale coalizione - Mario Monti 395 7,6
MoVimento 5 Stelle - beppegrillo.it 1.533 29,4
Totale coalizione - Beppe Grillo 1.533 29,4
Rivoluzione Civile 86 1,6
Totale coalizione - Antonio Ingroia 86 1,6
Fare per Fermare il Declino 36 0,7
Totale coalizione - Oscar Giannino 36 0,7
Partito comunista dei lavoratori 35 0,7
Totale altri350,7

domenica 24 febbraio 2013

IL NUOVO CHE AVANZA !

Berlusconi, le mafie e le agende rosse per difenderci di Arnaldo Capezzuto, Il Fatto Quotidiano

L’esplosione del tritolo è solo l’atto finale. Un magistrato, un servitore dello Stato muore un po’ prima: quando è delegittimato; quando è esautorato; quando è minacciato. Le parole pronunciate da un uomo di Stato come l’ex premier Silvio Berlusconi mi terrorizzano, mi inquietano, mi turbano. “Da noi la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. Sono parole violente, oltraggiose, mimetiche. Leggendole con freddezza, ascoltandole nella mente, guardandole singolarmente e poi mettendole insieme: mi danno bruciore e fastidio. E’ una sensazione: non mi piace il loro rumore.
Tra poche settimane ci saranno importanti sentenze. Cito una tra tutte: quella che riguarda il senatore uscente Marcello Dell’Utri. La filigrana di quelle parole è maligna, puzzano di morte. Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
Appartengo alla generazione del 1970, una generazione disgraziata che sembra non avere il diritto alla verità. Il mio pensiero corre e si ferma a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ne potrei aggiungere tanti altri: Rosario Livatino, Rocco Chinnici e Cesare Terranova delegittimati e poi dilaniati dall’esplosivo. C’è un vento fresco di popolo che soffia e non vuole più piangere eroi perché non erano eroi, ma solo servitori dello Stato.
Immedesimatevi e chiedetevi cosa debba pensare un magistrato che ogni santo giorno rischia la pelle con i suoi uomini della scorta, una volta ascoltate le parole pronunciate da Berlusconi. Il clima è diventato pesante. L’aria si è fatta irrespirabile. C’è come un presentimento. Non a caso scrivo questo post. Proprio in questi giorni nel frastuono delle notizie cotte e mangiate è saltata fuori una intercettazione: “Può essere che nel frattempo che faccio l’appello muore Maresca”. “Voglio vedere cosa succede. Muore di malattia per cazzi suoi”. La risata è fragorosa. La “battuta” è di un certo Vincenzo Inquieto mentre chiacchiera in un colloquio in carcere con i suoi parenti. L’uomo era stipendiato dai Casalesi perché aveva ricavato nella sua abitazione a Casapesenna (Caserta), il covo dove si nascondeva il padrino latitante Michele Zagaria alias Capastorta, arrestato il 7 dicembre del 2011 dopo 15 anni di latitanza. Inquieto è stato condannato in primo grado a quattro anni di carcere per favoreggiamento. Il suo avvertimento-minaccia è rivolto al pm Catello Maresca, uno dei magistrati di punta del pool che indaga da anni e con importanti risultati sulla cosca dei Casalesi.
E’ solo una delle tante intimidazioni che questo bravissimo pm ha ricevuto. A maggio dell’anno scorso. Infatti, nel giorno del suo quarantesimo compleanno giunse puntuale l’ennesima minaccia di morte da parte della camorra. E per difendersi Maresca ha adottato il metodo di un suo ideale maestro il giudice Paolo Borsellino: “Ho pensato di comprare un quaderno per scrivere ogni giorno quello che vedo, quello che so: le complicità, i tradimenti, i sacrifici di tanti onesti. Mi è venuta voglia di scrivere un’agenda rossa”. In cuor mio consiglio al pm Catello, ai tanti servitori dello Stato e alle tante persone oneste di appuntare nelle nostre agende rosse le ultime parole pronunciate da Silvio Berlusconi : “Da noi la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. Per difenderci, per non dimenticare.  

sabato 23 febbraio 2013

Rivoluzione Civile, senza paura di Fabio Marcelli, Il Fatto Quotidiano

La paura, si sa, è cattiva consigliera. Eppure buona parte delle azioni che le persone fanno sono ispirate dalla paura. Paura di repressione fisica e della morte violenta, di finire fatti a pezzi con la motosega o sparati, nei Paesi dove le mafie e i paramilitari legati ai poteri oppressivi dettano legge. Paura della crisi, di perdere il lavoro, la casa. Paura di ammalarsi e non trovare l’assistenza sanitaria. E tante altre paure, vissute da ciascuno nella sua solitudine individuale, dato che la dimensione collettiva è sempre più difficile da trovare.
Anche le elezioni di domenica, per molte persone, saranno dettate dalla paura. Paura che torni Berlusconi e quindi bisogna votare il meno peggio, turandosi il naso. Paura di fare la fine della Grecia e quindi affidiamoci al tecnico demiurgo. Paure alimentate dal terrorismo dei finti sondaggi opera di personaggi che andrebbero perseguiti penalmente per la violazione del divieto di diffondere sondaggi a ridosso delle elezioni e per la falsità delle notizie che diffondono. Vogliono creare un clima di paura per favorire la conservazione dello status quo. Si dimostra la validità del vecchio adagio, rimuovendo, per paura del peggio, la possibilità di un’alternativa invece possibile e necessaria.
Oltretutto, il sistema bipolare perverte la democrazia anche qualora, come nel caso italiano, il tentativo di introdurlo  fallisce miseramente. Restano i suoi peggiori elementi, soglie di sbarramento e premi di maggioranza, tutti meccanismi volti a inquinare il voto popolare e a impedire a ciascuno di votare per la lista che sente più affine. E avallando l’abominio del voto utile, negazione del pluralismo e della democrazia.
Per superare le paure, spesso irrazionali, parliamo di programmi e di contenuti, seguendo il suggerimento di una commentatrice del mio penultimo blog. E qui voglio scrivere ancora del programma di Rivoluzione Civile, lista per la quale come sapete mi candido, e che ho ascoltato ieri sera alla bella e partecipata manifestazione di chiusura enunciato dal suo leader Antonio Ingroia. Un punto per tutti: l’abolizione dei privilegi fiscali per la Chiesa. Chi altro la propone, oltre a Rc, Radicali e 5 stelle? Ma, oltre a questo, una serie di punti su cui non si può non concordare e che solo Rivoluzione Civile porta avanti con la dovuta determinazione e chiarezza: lotta alle oligarchie finanziarie che dominano e devastano l’Europa mutilando il suo progetto politico ed ideale; eliminazione delle mafie; laicità dello Stato; no al precarietà; promozione delle imprese in armonia con l’interesse pubblico; salvaguardia ambientale contro le grandi opere; uguaglianza e diritti sociali; cultura e conoscenza; pace e disarmo; eliminazione dei privilegi della politica.
Nell’epoca del pragmatismo senza principi, della politica tangentara, del piccolo cabotaggio del giorno per giorno che ci porta verso il disastro sociale e ambientale solo rilanciando questi grandi temi si potrà restituire alla politica la dignità che ha perso in mano a questo ceto di affaristi e intrallazzoni. Solo una rivoluzione ci salverà, se sarà civile tanto meglio.
Cosa ci differenzia dal Movimento Cinque Stelle, col quale ci sono pure vari punti in comune che mi auguro si potranno approfondire e consolidare in tutte le sedi? Direi una chiarezza sui punti del voto e della cittadinanza agli immigrati, sull’antifascismo, sulla democrazia nel rapporto con gli eletti. Non è poco, ma c’è una comune ispirazione a rovesciare il regime delle caste, delle cosche e delle cricche. E ci si deve augurare che il popolo a 5 stelle sappia maturare risposte positive e chiare che dissipino ogni ambiguità sui punti enunciati.
Il voto a Rivoluzione Civile è il primo passo verso la necessaria alternativa in Italia. Domenica il popolo italiano ha l’occasione storica di dire la sua opinione al proposito. L’importante è che lo faccia con il cuore e, soprattutto, senza paura. E rigettando il ricatto del voto utile, che significa in ultima analisi solo riconsegnare il Paese ai soliti politicanti che tanto cattiva prova di sé hanno dato negli ultimi venti e più anni. Diamo una chance all’alternativa, se non ora quando? Nella consapevolezza che la nostra rivoluzione è solo agli inizi…
 
 

Consigli per riconoscere la destra sotto qualunque maschera di Wu Ming



Consigli per riconoscere la destra sotto qualunque maschera

[Un montaggio di cose scritte (non solo da noi WM) in diversi post e interviste, utile a riprendere e mostrare il filo della questione. Prendetelo come il nostro contributo alla fine della campagna elettorale più brutta e angosciante dal 1946 a oggi]

# Le categorie di «destra» e «sinistra», nate durante la Rivoluzione francese, furono date per morte già sotto il Direttorio, nel periodo 1795-1799. Non si contano le volte in cui si è detto che i due concetti erano superati, eppure, nonostante queste litanie, si sono sempre riaffermati come polarità dei discorsi e del pensiero politico. Con maggior foga li si nega e rimuove, con maggiore violenza ritornano. Tra i movimenti che si sono dichiarati «né di destra, né di sinistra» non ce n’è uno che non si sia rivelato di destra o di sinistra (più spesso di destra, va detto). In Italia, il penultimo è stato la Lega.
La divisione destra-sinistra ha basi cognitive profonde, se ne occupano anche le neuroscienze. Al fondo, «destra» e «sinistra» sono i nomi convenzionali di due mentalità, due diversi modi di leggere il conflitto sociale. Descrivendoli, automaticamente si iniziano a dare le “coordinate” su cosa dovrebbe tornare a pensare la sinistra.
Tagliando con l’accetta, «di sinistra» è chi pensa che la società sia costitutivamente divisa, perché al suo interno giocano sempre interessi contrapposti, prodotti da contraddizioni intrinseche. Ci sono i ricchi e i poveri, gli sfruttatori e gli sfruttati, gli uomini e le donne. Da questa premessa generale, che vale per tutta la sinistra, discendono tante visioni macrostrategiche, anche molto lontane tra loro: socialdemocratica, comunista, anarchica, ma tutte si basano sulla convinzione che la società sia in partenza divisa e diseguale e che le cause della diseguaglianza siano profonde e, soprattutto, endogene.
«Di destra», invece, è chi pensa che la nazione sarebbe – e un tempo era – unita, armoniosa, concorde, e se non lo è (più) la colpa è di forze estranee, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati e, se possibile, espulsi, così la comunità tornerà unita. Tutte le destre partono da questa premessa, che può essere ritrovata a monte di discorsi e movimenti in apparenza molto diversi, da Breivik al Tea Party, dalla Lega Nord ai Tory inglesi, da Casapound agli «anarcocapitalisti» alla Ayn Rand. Per capire se un movimento è di destra o di sinistra, basta vedere come descrive la provenienza dei nemici. Invariabilmente, i nemici vengono «da fuori», o almeno vengono da fuori le idee dei nemici.
A seconda dei momenti e delle fasi storiche, ce la si prende col musulmano o con l’ebreo, con il negro o con lo slavo, con lo zingaro o col comunista che «tifa» per potenze straniere, con i liberal di una «East Coast» americana più mitica che reale, con Obama che «in realtà è nato in Kenya e quindi la sua presidenza è illegale» etc. Rientrano in questo schema anche la «Casta» descritta come altro rispetto al popolo che l’ha votata ed eletta, «Roma ladrona», la finanza ridotta alle manovre di «speculatori stranieri», «l’Europa»…
Non c’è dubbio che nell’Italia di oggi il discorso egemone, anche tra persone che si pensano e dichiarano di sinistra, sia quello di destra. Che attecchisce facilmente, perché è più semplicistico e consolatorio, e asseconda la spinta a pensare con le viscere. Per questo molte persone con un background di sinistra si precipiteranno a frotte alle urne per votare un movimento che non abbiamo remore a definire fondamentalmente di destra, cioè il grillismo. D’altronde, la colpa di questo è delle sinistre, che fanno di tutto per risultare invotabili.

# Ogni essere umano dotato dell’uso del linguaggio si esprime attraverso «frame», cioè quadri di riferimento, insiemi di immagini e relazioni tra concetti che strutturano il nostro pensiero, alcuni sin dalla primissima infanzia [...] Nella comunicazione politica non c’è parola o frase che non inquadri un dato problema secondo la prospettiva ideologica di chi la usa. Ogni vocabolo porta con sé un mondo. Per esempio, imporre l’uso di «centrodestra» e «centrosinistra» al posto di «destra» e «sinistra» è stata un’operazione di framing che ha avuto conseguenze devastanti: a destra l’eufemismo è servito a legittimare soggetti lercissimi e fascisti nemmeno ripuliti; a sinistra ha imposto la credenza nella necessità di «spostarsi al centro» altrimenti… «non si vince». Solo che, nella realtà concreta, il «centro» non esiste. Chi si dice «di centro» è in realtà di destra e fa cose di destra, vedi Casini, Monti, Montezemolo, adesso addirittura il postfascista Fini… E poi: chi «vince»? Per fare cosa? «Spostandosi al centro» non si fa altro che andare a destra (in cerca dei fantomatici «moderati”) e di certo non si faranno politiche di sinistra.
Un altro esempio è il discorso sulla «sicurezza»: se, come accade ogni giorno, un politico usa nella stessa frase le parole «sicurezza» e «immigrazione», sta evocando nella mente di chi ascolta una comunità omogenea minacciata da una differenza proveniente dall’esterno, e questo è il quintessenziale framing di tutte le destre, in primis di quella fascista.

# Basta guardare contro chi si sono scagliati quelli che si sono riempiti la bocca e ci hanno riempito le teste di narrazioni tossiche sul «libero mercato», dalla Thatcher a Reagan e tutti i repubblicani USA, fino ai Tea Party etc.
Oggi tutto andrebbe per il meglio se il mercato fosse stato lasciato al suo andamento naturale, e vivremmo in una comunità sana, giustamente basata sulla competizione che premia i migliori, e una società che premia i migliori fa il bene di tutti quanti.
Un tempo era così, quando c’erano i «pionieri», poi però c’è stata una frattura: la sinistra e le minoranze, i liberal statalisti e i «rossi» nutriti di false idee provenienti da fuori, hanno turbato quest’equilibrio con rivendicazioni che hanno turbato il funzionamento del mercato, aiutando gli autoproclamati «deboli», espandendo il ruolo dello stato in settori dai quali dovrebbe stare fuori, negoziando il costo del lavoro secondo criteri che ledevano gli interessi degli imprenditori (che sono gli «eroi» della storiella).
Questo è il frame di tutta la controrivoluzione capitalista iniziata all’inizio degli anni Ottanta. Anche qui c’è un’armonia turbata da forze «esterne», a conferma che questa narrazione è intrinsecamente di destra e una «sinistra liberista» non può esistere.
Se ci fai caso, nella propaganda dei repubblicani USA, dei Tea Party etc., il nemico è sempre riferito a un «altrove»: New York, la East Coast, l’Europa, il Canada, e ovviamente gli stati-canaglia. Quando, prima della visita in Cina, chiesero a Nixon se fosse mai stato in un paese socialista, rispose: «Sì, in Massachusetts». Per un repubblicano, all’epoca, il New England era l’altrove.
Non esiste un nemico «interno», cioè generato dalle contraddizioni interne del sistema; se è «all’interno», è perché si è insinuato tra noi.
Il frame viene attivato continuamente in politica estera: ci siamo «noi» (l’occidente, le democrazie basate sul libero mercato) e ci sono i nemici di turno («l’impero del male» dell’URSS e dei suoi satelliti, le guerriglie che agitano il «cortile di casa» latinoamericano, il terrorismo che minaccia i nostri valori etc.). Quella dello «scontro di civiltà» è la massima espressione del frame della «comunità armoniosa che si difende».

#  I liberisti ci hanno insegnato a ritenere il fascismo una destra completamente diversa dalla loro, addirittura in odore di sinistra in quanto presuntamente antiliberista e statalista.
Dietro questo punto di vista, che è molto diffuso, c’è una buona dose di mistificazione. Usando la lente della «comunità armoniosa che viene disturbata dall’intruso» vediamo come il fascismo abbia sempre usato anche la versione liberista di questo frame. Il fascismo delle origini, e cioè lo squadrismo, giustificava sé stesso proprio come difesa armata della «mano invisibile» e dell’armonia tra le classi sociali. L’olio di ricino e le uccisioni dei «sovversivi» ripristinavano la libertà d’impresa, la libertà di commercio e il funzionamento «normale» dell’economia capitalistica. Per esempio è famoso questo poster propagandistico fascista:
Il fascismo toglie i grilli dalle teste dei lavoratori e rimette gli sfruttati al loro posto. *Mettiamoci* di buona lena e *fatevi* il culo.
Il fascismo toglie i grilli dalle teste dei lavoratori e rimette gli sfruttati al loro posto. *Mettiamoci* di buona lena e *fatevi* il culo.

Alla presa del potere, Mussolini dichiarò: «Il governo fascista accorderà piena libertà all’impresa privata ed abbandonerà ogni intervento nell’economia privata». Per anni i fascisti (saliti al potere in coalizione coi liberali, non sarà un caso) condussero una politica economica liberista e solo in una fase successiva cominciarono ad applicare misure keynesiane ante litteram. Nei primi anni di governo, ci furono privatizzazioni (venne privatizzata addirittura la zecca, chissà cosa ne pensano i signoraggisti!), una politica monetaria restrittiva, un allentamento del carico fiscale (in particolare della tassazione progressiva).
Quando questo non rispondeva più alle necessità economiche del grande capitale industriale, in particolare cioè attorno alla crisi del ’29, si è passati ad una politica economica diversa, e si è adeguata la fraseologia propagandistica al culto dello Stato, alla lotta contro l’individualismo borghese e tutte quelle manfrine con cui ancora ci fracassano le palle i neofascisti. Anche i neofascisti, tuttavia, qualche volta si levano la maschera e parlano da liberisti. Per esempio, Forza Nuova a Genova aveva come primo punto del suo programma politico la lotta contro la Compagnia Unica dei camalli che secondo loro strangola la città impedendo la libertà d’impresa nel porto. CasaPound ha preso posizione sull’ILVA di Taranto (facendo scrivere un dossier alla nostra vecchia conoscenza, l’«Ing.» Di Stefano) prendendosela con gli ambientalisti che in combutta con oscuri potentati europei vogliono soffocare la siderurgia italiana.
Alla fine della fiera liberismo e fascismo hanno lo stesso eroe-simbolo: il crumiro.

# Il più grave problema di questo Paese, storicamente, è l’ignavia della piccola borghesia, che è la più becera d’Europa e oscilla perennemente tra l’indifferenza a tutto e la disponibilità a qualunque avventura autoritaria. Avventura «vicaria», naturalmente, vissuta per interposto Duce che sbraita. Giusto un brivido ogni tanto, per interrompere il tran tran, godersi l’endorfina e tornare al proprio posto.
Finché non sente il dolore, l’italico cetomediume rimane apatico. Quando inizia a sentirlo, non sa dire cosa gli sia successo, blatera incoerentemente, dà la colpa ai primi falsi nemici che gli vengono agitati davanti (a scelta: i migranti, gli zingari, i comunisti, quelli che scioperano, gli ebrei…)  e cerca un Uomo Forte che li combatta.
In Italia come in poche altre nazioni, non c’è nulla di più facile che spingere l’impoverito a odiare il povero.

# L’alleanza storica e, per così dire, «naturale» dovrebbe essere tra impoveriti e poveri, proletarizzati e proletari. Ogni volta che i poteri costituiti riescono a scongiurare quest’alleanza, giocando sul fatto che il ceto medio retrocesso ha ancora i valori e disvalori di prima e si crede ancora appartenente alla classe di prima, ci perdiamo tutti quanti. Il punto è che in Italia questo giochetto dopo la prima guerra mondiale ha portato al fascismo, che era una falsa rivoluzione confezionata a uso e consumo dei ceti medi, che ha avuto carta bianca dai padroni e ha prodotto morte e distruzione. Da allora, di «false rivoluzioni a uso e consumo dei ceti medi» per impedire che la loro proletarizzazione avesse un esito indesiderato ne abbiamo viste altre, e forse una la stiamo vedendo anche adesso.

# In questo periodo sto leggendo un po’ di testi storiografici che evidenziano come la piccola borghesia del primo dopoguerra abbia costituito la «base di massa» del movimento fascista. Ci sono delle analogie abbastanza preoccupanti con la situazione odierna. Per esempio: Gaetano Salvemini, nel capitolo 10 del suo Le origini del fascismo in Italia, parla del «vivo sentimento di invidia e di odio per le classi lavoratrici» che si andò diffondendo nel ceto medio nel periodo 1919-20; sentimento che venne sapientemente alimentato e utilizzato per i propri fini dalle forze reazionarie.
Dal testo di Salvemini riporto la seguente citazione, che Salvemini riprende da un articolo del «Corriere della Sera» dell’8 aprile 1919:
«Oggi sono molti gli ingegneri professionisti od anche dirigenti di officine, moltissimi i professionisti, i funzionari pubblici, gli alti magistrati, presidenti di tribunali e di corti, professori ordinari di università, consiglieri di stato, i quali non sanno credere ai loro occhi. Vedono dei capi tecnici chiedere paghe, le quali (…) sono di 1000, 1250, 1625 e 2000 lire il mese (…). Che cosa dovremmo chiedere noi, si domandano tutti quegli alti magistrati, quei professori universitari, i quali hanno passato nello studio i più begli anni della vita per giungere sì e no verso i 35-40 anni a 600 lire di stipendio al mese ed i più anziani alle 1000 lire? La mortificazione nei ceti intellettuali è generale. I padri di famiglia si domandano se essi non hanno torto di far seguire ai loro figli corsi di studio lunghi 12 o 14 anni, dopo le scuole elementari; e se non sarebbe meglio di mandarli senz’altro in una officina.»
Va da sé che le cifre del Corsera non sono per nulla affidabili, e che (anche in quegli anni in cui gli operai cercavano, mediante gli scioperi, di adeguare i salari all’inflazione galoppante) il divario nei redditi, nelle condizioni di vita e di lavoro, rimaneva comunque a favore dei “ceti medi”. Ma ciò che soprattutto contava era l’ostinata volontà della piccola borghesia a credersi «superiore», a stabilire una distanza fra sé e la classe operaia, deprimendo se necessario quest’ultima.
Osserva Salvemini:
«In Europa il dopoguerra ha portato alle classi medie povertà e sofferenza, ma le classi medie, per quanto declassate dalla crisi economica, non intendono identificarsi con il proletariato. All’inizio il fascismo italiano e il nazismo tedesco furono essenzialmente movimenti composti di elementi impoveriti delle classi medie, decisi a non affondare sino al livello del proletariato, e che si dettero a strappare dalle mani delle classi inferiori quella parte della ricchezza nazionale che esse avevano vinto
Ecco, devo dire che oggi, bazzicando in Internet, vedo segni crescenti di invidia e di odio classista anti-operaio anche in ambienti «insospettabili», ad es. in certi blog di area PD.
Oggi come allora, la tendenza reale è quella verso la proletarizzazione del ceto medio; quindi, le dinamiche materiali del modo di produzione dovrebbero semmai indurre a un’alleanza fra sfruttati.
Scriveva Antonio Gramsci, su «L’Ordine Nuovo» dell’8 maggio 1920:
«Gli industriali continueranno nei tentativi di suscitare artificialmente la concorrenza tra gli operai, suddividendoli in categorie arbitrarie, quando il perfezionamento degli automatismi ha ucciso questa concorrenza; continueranno nei tentativi di inasprire i tecnici contro gli operai e gli operai contro i tecnici, quando i sistemi di lavoro tendono ad affratellare questi due fattori della produzione, e li spingono a unirsi politicamente…»

# Il fascismo è nato, esiste ed è continuamente reinventato e riutilizzato dai padroni proprio per offrire ai ceti medi proletarizzati un «falso evento» dopo l’altro, un falso bersaglio dopo l’altro, una finta rivoluzione dopo l’altra. Questo non succederebbe se la classe capitalistica considerasse i ceti medi per natura conservatori. Sa bene che, quando si proletarizzano e si impoveriscono, potrebbero «fare blocco» con gli operai e in generale coi lavoratori subordinati. Per impedire quest’alleanza, viene ogni volta scatenata una multiforme offensiva ideologica e propagandistica: ad esempio, si dice al piccolo borghese che il suo nemico sono i proletari «garantiti» e i sindacati, e al contempo, con il frame della «sicurezza», gli si dice che deve temere l’immigrato. Ma questo non basta, perché è un discorso tutto difensivo, ce ne vuole anche uno offensivo, «massimalista», pseudo-rivoluzionario. Oggi quel discorso è quello contro la «Ka$ta», e il suo massimo spacciatore è Grillo, che è un portatore – forse nemmeno del tutto consapevole – di un’ennesima variante di fascismo. Attenzione, quando parlo di «fascismo» non mi riferisco al fascismo storico, a quello che si incarnò nel regime fascista e poi nella RSI etc. Mi riferisco a quell’ur-fascismo di cui parlava Eco e che è già stato ricordato sopra.

# Vorrei contribuire segnalando la prima questione che mi è saltata alla mente leggendo il tuo «devo dire che oggi, bazzicando in Internet, vedo segni crescenti di invidia e di odio classista anti-operaio anche in ambienti “insospettabili”, ad es. in certi blog di area PD.»: la polemica sul precariato intellettuale sollevata da Di Domenico che citava la figlia di Ichino… Io non sono per nulla dentro le dinamiche di quella polemica, sicuramente c’è qualcuno che le conosce meglio e può svelare “retroscena” o strumentalismi da me ignorati. Però ecco, quella vicenda per me è emblematica di quanto il PD sia un partito formato quasi esclusivamente da dirigenti e pensato per elettori che grossi problemi (lavorativi, economici ecc.) non ne hanno. Nelle reazioni dei commentatori e degli «intellettuali» de sinistra forte, fortissimo è stato il livore contro «l’invidia sociale» del precario (che diventa lavoratore mediocre), quasi unanime la difesa del bravo e onesto «figlio di» che ha fatto carriera solo ed esclusivamente per meriti personali.
Oggi pomeriggio Bersani sarà qui a Mirandola in una delle aziende più colpite dal terremoto (B-Braun, biomedicale), ma la maggior parte degli operai non lo voterà, come la maggior parte degli operai della Green Power di Mirano, l’azienda dove B. ha molestato un’impiegata, non se lo cagheranno di striscio e forse voteranno M5S.

# Sui ceti medi mi viene in mente quello che è successo in Argentina nel 2001. Quando i ceti popolari e quelli medi si sono uniti, il risultato è stato deflagrante: vedevi tizi in giacca e cravatta assaltare i bancomat, gli ospedali e le scuole autorganizzarsi, la logistica dei mercati di verdure prendere pieghe orizzontali e antigerarchiche… è durata per un paio di anni… quando sono andato io in Argentina, nel 2005, i ceti medi già si lamentavano dei piqueteros che tagliavano continuamente il traffico con i loro blocchi stradali… erano due mondi ormai distinti…. io non sono uno capace di grandi elaborazioni teoriche, sono un tipo che legge molto le cose a orecchio, però penso che sia importante capire il legame tra spirito conservatore e senso di insicurezza del ceto medio declassato… al tempo stesso se il grillismo può essere letto come uno stratagemma per allontanare i ceti medi dall’alleanza con i ceti popolari [...] bisogna anche leggere fenomeni come il leghismo (o il vecchio squadrismo, o almeno la sua manodopera di base) come degli espedienti per deviare i ceti subalterni e esclusi dai loro interessi di classe (per ritrovarli alleati dei padroni o dei ceti medi nel cemento della patria o dell’identità territoriale di appartenenza).

# Sulla «egemonia culturale della sinistra»: in Italia non c’è mai stata. Anche prima del berlusconismo, il senso comune di massa lo hanno sempre prodotto tutt’altri agenti: la RAI democristiana, la chiesa, rotocalchi ad altissima tiratura come Oggi e Gente, la divulgazione pseudo-storica di Montanelli e Petacco… Per questi ultimi viatici è passata la strisciante riabilitazione del fascismo, come spiega molto bene Mimmo Franzinelli.

# Il paragone tra grillismo e fascismo è scivoloso, rischioso e difficile da maneggiare, ma inevitabile. Perché è la storia di questo paese, è la storia del difficile e controverso rapporto tra rabbia giusta e rancore distruttivo, tra rivoluzione e reazione. E’ un discorso che si può affrontare in alcuni contesti (come questo) nei quali si tende ad evitare slogan e non perdere la lucidità.
Mi limito al punto della composizione sociale. Nelle definizioni un po’ rigide ma secondo me efficaci di alcuni scienziati politici la differenza tra fascismi e populismi starebbe proprio nella discriminante della composizione di classe: il populismo organizza dall’alto masse in cerca di nuovi di diritti ed avanzamento sociale, il fascismo organizza le classi che devono difendersi dalla minaccia delle classi inferiori. Ora, a me pare che questa alternativa tra difesa e attacco, dopo venti anni di politiche liberiste, sia molto meno nitido che in passato. Ci sono senz’altro figli della classe media che godono di piccole rendite ma che sono senza diritti sul lavoro, ad esempio. O che non ne hanno mai avuto uno vero. Come li classifichiamo? Sono «in difesa» o «all’attacco»?
 
# Altra domanda: questo Paese, con il ceto medio che si ritrova, la mancanza di memoria storica che si ritrova, la sinistra che ha praticamente abbandonato il campo (e in ogni caso, senza la consapevolezza che la società è divisa in classi, «sinistra» diventa parola cialtrona e greve di merda)… Questo Paese, di fronte al rischio del fascismo, ha ancora qualche anticorpo?