Nel week-end
appena trascorso, le prime pagine dei quotidiani hanno dato ampio
spazio a due notizie che ben caratterizzano il contesto generale in cui
saranno celebrate le prossime elezioni politiche. La prima concerne il
dato sulla secca caduta della produzione industriale del nostro Paese;
la seconda riguarda l’esito (“deludente” secondo D’Alema, direi io
catastrofico) della trattativa sul varo del bilancio dell’Unione Europea
per il prossimo settennato (2014-2020). Si tratta di due questioni
fortemente connesse, che costituiscono l’ennesima riprova del fallimento
delle politiche neoliberiste, così come vengono promosse sul piano
nazionale e su quello europeo: un fallimento che inesorabilmente chiama
il centro-sinistra a rispondere del suo operato, quello del recente
passato e quello dell’immediato futuro.
Il Sole 24 Ore ha evidenziato i
dati di un’analisi condotta da Prometeia e Intesa San Paolo sul crollo
del settore manifatturiero italiano: tra il 2011 e il 2012, i ricavi
della nostra industria hanno subito un decremento di 37 miliardi di
euro, equivalente a un calo del 6% del fatturato. In cima alle performances
negative figurano i settori che producono beni di consumo durevole
(dalle auto agli elettrodomestici), ma tutti i quindici comparti
esaminati (ad eccezione dell’alimentare) vanno indietro. E’ qualcosa di
più di un campanello d’allarme, per un Paese la cui fisionomia resta
legata a doppio filo alla manifattura: l’industria vale infatti il 24,7%
del prodotto interno lordo italiano (dati di Area Studi Mediobanca). Va
rilevato che il declino è stato reso meno pesante dalla buona prova
dell’export: senza l’aumento del fatturato sui mercati esteri (+15
miliardi di euro), il saldo sarebbe stato ancor più negativo. Ciò
significa che a incidere sul secco arretramento produttivo è stata, in
modo determinante, la contrazione dei consumi degli italiani. Lo
sottolinea il titolo del quotidiano padronale: “Sul risultato pesa il
crollo del mercato interno”. Anche questo è un fatto ampiamente
confermato dalle rilevazioni: l’Indicatore dei consumi Confcommercio
(Icc) registra per il 2012 un calo del 2,9%, il peggior dato degli
ultimi 12 anni (cioè da quando è calcolato il suddetto indice). Ma per
Federconsumatori e Adusbef , questo stesso dato di Confcommercio è
sottostimato: secondo le due associazioni, il calo dei consumi supera il
6%. Superfluo ricordare che per siffatti risultati dobbiamo ringraziare
il governo Monti, con il suo rigore e i suoi tagli, nonché il
centro-sinistra, il centro e il centro-destra che lo hanno sostenuto.
Ma dobbiamo ringraziare anche questa Europa,
la sua conduzione tecnocratica e antipopolare, che quel rigore e quei
tagli ha imposto e intende continuare a imporre. Ne è emblematica
dimostrazione il secondo evento eclatante cui ci riferiamo. Come hanno
diffusamente riportato tutti i mezzi d’informazione, il bilancio Ue per
il prossimo settennato, rispetto a quello dei sette anni precedenti
(2007-2013), anziché aumentare è diminuito del 3%: è la prima volta che
ciò accade ed è la conseguenza della pressione dei Paesi forti (Germania
su tutti), assecondata dalla spinta centrifuga della Gran Bretagna
(ormai con un piede fuori dall’Ue). Non sarà un certificato di morte per
l’Unione, ma certamente si tratta di un referto di coma profondo.
Invece di dare ossigeno a economie strozzate dalla recessione e dal
drammatico aumento della disoccupazione, si va addirittura sotto il già
magro budget, fermo a un risibile 1% del Pil complessivo dei
Paesi membri. Si salvano i contributi all’agricoltura (cui tiene
soprattutto la Francia), si attenua l’esposizione dell’Italia (già
contributore netto, nel senso che versa alla cassa europea più di quanto
non riceva), ma per il resto è stroncata sul nascere ogni prospettiva
di crescita: essendo tagliati stanziamenti per infrastrutture, reti del
trasporto, della comunicazione e dell’energia, ricerca e formazione.
Come dire: il futuro non è per noi. E’ la logica liberista dell’austerity, su cui peraltro questa Europa è stata eretta.
Quando si decise di lanciare la moneta
unica, furono stabiliti vincoli uguali per tutti su deficit e debiti
pubblici (parametri di Maastricht), alla Bce fu affidato esclusivamente
il controllo dell’inflazione e l’azione su tassi d’interesse e cambio.
Rigore finanziario a garanzia del valore della moneta, libera
concorrenza a garanzia del mercato unico europeo: è questo il “paradiso
neoliberista” che è stato tradotto nei trattati. La competitività del
sistema industriale e i livelli occupazionali sono rimasti e tuttora
restano un affare dei singoli Paesi. Così come le politiche del lavoro e
le politiche fiscali, su cui ciascuno viaggia per proprio conto:
vigendo su tali materie l’obbligo dell’unanimità, ciascun membro può
esercitare un diritto di veto su qualunque proposta tendente a
introdurre in merito una sgradita uniformità comunitaria. Così i
capitali sono liberi di andarsi a cercare l’offerta migliore, in termini
di legislazione del lavoro e di penalizzazioni fiscali. Ma attenzione, è
un paradiso che oggi rischia di implodere, a seguito dell’acuirsi delle
tensioni che questo stesso assetto ha generato tra la “periferia”
dell’Unione e il suo centro più ricco.
Nonostante il frastuono della grancassa
propagandistica, tali tensioni non derivano tanto dall’allarme sui
debiti pubblici dei singoli Paesi: la Spagna è nell’occhio del ciclone,
eppure nel 2008, con la crisi nascente, essa vantava un rapporto
debito/Pil del 36%, mentre questo medesimo rapporto era in Germania del
65%. Ancora oggi la Spagna fa registrare un rapporto tra debito e Pil
più basso di quello tedesco (68% contro 81%). Non è tanto il debito
pubblico il parametro più sensibile, quello che eminentemente segnala ai
mercati la salute complessiva dell’unione monetaria e che fa divergere
gli spread. Come ribadito da più di un operatore economico e da
economisti non embedded, tale indicatore va piuttosto
identificato con lo squilibrio delle partite correnti, con il divergere
dei conti con l’estero dei Paesi membri: di qua, il saldo del commercio
estero della locomotiva tedesca in costante e crescente avanzo; di là,
quello dei cosiddetti Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia,
Spagna) in crescente disavanzo. Sulla linea ascendente la Germania,
favorita dal passaggio all’euro e dalle politiche di contenimento
salariale (a partire dalle misure a suo tempo varate con l’Agenda 2010
del socialdemocratico Schroeder) a sostegno della competitività delle
sue merci; su quella discendente i Paesi del Sud Europa, penalizzati
dall’impossibilità di operare svalutazioni competitive. Per
riequilibrare verso l’alto il suddetto divario, occorrerebbe
“europeizzare la Germania”: cioè aumentare i salari tedeschi
proporzionalmente al livello di produttività raggiunto, così da
incrementare la domanda interna e le importazioni (dunque l’export verso
la Germania). Al contrario, si persiste nel riequilibrare quel divario
verso il basso, “germanizzando la periferia europea”: cioè esportando
l’austerità tedesca e riducendo i redditi da lavoro in tutta l’eurozona.
Deprimendo così, insieme al reddito, l’economia e l’occupazione.
La semplicissima verità è che, senza
solidarietà, non c’è Europa che tenga. Se una regione va in crisi (per
debolezze strutturali del suo assetto geo-economico, per un terremoto o
altro), lo Stato cui appartiene dovrebbe automaticamente provvedere a
trattamenti fiscali di favore, a politiche del lavoro e a programmi di
sostegno sociale ecc. In Europa avviene l’esatto contrario: chi si
affanna sul pelo dell’acqua viene spinto a fondo. La drammatica
inadeguatezza del prossimo bilancio settennale è la riprova che questa
Europa liberista non solo è profondamente ingiusta, ma è anche incapace
di darsi una realistica prospettiva di esistenza. Con la crisi che
inizia a mordere anche i più ricchi, la Germania – capofila dei Paesi
“forti” – non rinuncia a godere dei privilegi assicurati dall’attuale status quo
e non vuole saperne di contribuire al bilancio comunitario con
trasferimenti netti a carico della sua ricchezza nazionale. Del resto,
bisogna esser ciechi per non vedere che è in corso un processo
all’indietro, di rinazionalizzazione del panorama europeo.
Siamo giunti a un bivio: reso quanto mai
stringente dall’involuzione del quadro complessivo. Le destre (ma anche
Grillo) hanno ormai imboccato la pericolosa strada dell’isolamento
autarchico e del ripiegamento nazionalistico; il centro-sinistra
(l’agenda Monti ma anche la Carta d’intenti di Bersani) non è in grado
di andare oltre amichevoli suggerimenti nel quadro del rispetto dei
patti europei, laddove occorrerebbero richieste ultimative. Resta
l’europeismo di chi non accetta questa Europa. Costruire con le sinistre
d’alternativa europee una dura opposizione al neoliberismo e ai patti
europei (a cominciare dal fiscal compact) è l’unica strada, la strada giusta da percorrere. E’ la strada di Rivoluzione civile.
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