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Avverando una delle constatazioni più ficcanti di Fabrizio De André, Paolo Mieli è assai generoso di "buoni consigli" alla Sinistra.
E il principale di questi consigli è di adeguarsi al disegno di Giuliano Pisapia, che:
Consiste nel dar vita ad un raggruppamento molto, molto, molto diverso dal Pd, che ottenga il maggior numero di voti per poi avere un adeguato peso in una coalizione di governo, la quale non può che avere come principale interlocutore lo stesso Pd.
È il progetto della "coalizione condizionante": sostanzialmente ancora lo schema Prodi-Bertinotti, aggiornato in Renzi-Pisapia.
Ci sono due motivi per cui non credo che sarebbe saggio seguire questo consiglio.
Il
primo è la sua carenza di realismo tattico: il piano non funzionerà. È
vago, utopico, illusorio pensare che Pisapia e i suoi voti riescano
davvero a condizionare Renzi e i voti del Partito Democratico: chiunque
consideri onestamente e a mentre fredda i rispettivi caratteri e
soprattutto i reali rapporti di forza non può che giudicare questa
ipotesi del tutto aleatoria.
La
prospettiva pressoché certa è di vendersi come "alleati condizionanti" e
di trovarsi invece a fare la chiassosa ruota di scorta. Certo, i
protagonisti potrebbero consolarsi con qualche posto di governo o
sottogoverno, ma spero che non sia questa la vera ambizione. Lo schema
non funzionò ai tempi di Prodi, e a maggior ragione non funzionerebbe
oggi: avrebbe il solo effetto di prolungare indefinitamente lo
psicodramma che ruota intorno al Partito Democratico e all'eterna
contesa per conquistare ciò che ne resta.
Paolo
Mieli è troppo scaltro per non sapere che le cose stanno proprio così: e
cioè che l'unica vera funzione di una sinistra alleata al Pd e guidata
da Pisapia sarebbe quella di consentire a Renzi di procedere
indisturbato. Ed è in fondo proprio questo l'obiettivo finale. Mieli non
ha nascosto il suo consenso verso la riforma costituzionale Boschi-Renzi: non certo un consenso entusiasta da ultrà, per carità.
No:
il pacato, distaccato, consenso di chi crede che non ci sia una reale
alternativa allo stato delle cose. Il punto di vista di una generazione
che ha provato – durante la sua giovinezza e in modi assai più estremi
di quelli che oggi Mieli, garbatamente, mi rimprovera – a cambiare il
mondo: e poi ha gettato la spugna, consolandosi con grande uso di mondo.
E che alla fine si è convinta che la politica ormai non conti più
molto, visto che a governare le nostre vite è il mercato: e che siccome
Renzi può forse oliare il binario della gestione quotidiana, in fondo
non conviene contrastarlo.
Nel passaggio del suo editoriale che ha ha avuto la bontà di dedicarmi, Mieli scrive:
Tomaso Montanari — leader della formazione più intransigente di tutte — rinfacciando a Pisapia di non aver occultato la sua volontà di costruire una coalizione "vincente": come se il suo fine, insinuava lo storico dell'arte, fosse "il potere, il governo" da raggiungere "con qualsiasi mezzo" (cosa che a ogni evidenza Pisapia non ha mai neanche adombrato). "Io non dico che bisogna voler perdere", aggiungeva Montanari, "ma la vittoria non può essere un fine in sé, conta quello che vuoi fare".
Ebbene, non sono un "leader" e non c'è alcuna "formazione": insieme ad Anna Falcone
stiamo invece provando a dare voce a cittadini che sono un po' meno
sfiduciati di Mieli nei confronti della politica in genere e della
funzione della sinistra in particolare.
E
non parlerei di "intransigenza", ma di "fiducia". Il punto di vista di
Mieli – quello per cui, di fatto, è velleitario pensare di poter
cambiare davvero lo stato delle cose – è tanto largamente coincidente
con il senso comune che la metà del Paese non vota più.
Perché,
in effetti, dovrebbe farlo? Per votare Pisapia, che vuole partecipare
ad «una coalizione di governo, la quale non può che avere come
principale interlocutore lo stesso Pd»? Forse gli italiani sono più
realisti perfino di Paolo Mieli: e preferiscono ormai non perdere tempo a
votare, se la prospettiva di cambiamento più concreta è questa.
L'editoriale
di Mieli si conclude paragonando la rissosa sinistra italiana ad
"alcuni seguaci oltranzisti di Bernie Sanders" che si sono rifiutati di
votare per Hillary Clinton. Un comportamento – racconta Mieli – che
l'intellettuale americano Stephen Carter ha censurato, considerandolo
"pieno di arroganza".
Il
teorema è dunque questo: "l'opzione più realistica era la candidatura
della Clinton, dunque bisognava votarla. Chi si è rifiutato di farlo è
stato arrogante". Il fatto che, però, abbia vinto Donald Trump dovrebbe
pur suggerire qualche considerazione ai paladini del realismo. È stato
arrogante chi ha non ha votato la Clinton, o è stato arrogante chi ha
imposto la (perdente) candidatura della Clinton? E che sarebbe successo
se il candidato democratico fosse stato proprio Sanders?
In altri termini, non si può forse pensare che la vittoria di Trump
sia proprio il frutto avvelenato del tradimento radicale della
Sinistra? A forza di dire che non si deve essere "intransigenti", la
disperazione degli scartati, dei marginali, dei sommersi ha trovato la
sua alternativa.
È
questo il secondo motivo per cui non seguirò il consiglio di Mieli: la
sua carenza di realismo strategico. Guardiamo la realtà italiana.
L'aumento esponenziale delle diseguaglianze, la crescita della povertà,
la lacerazione del tessuto sociale, la precarizzazione del lavoro e la
letterale disperazione di intere generazioni, l'egemonia culturale di
una destra che fa dei migranti i capri espiatori: il Paese è sprofondato
in una crisi drammatica. Che non verebbe non dico risolta, ma nemmeno
lontanamente lenita, dalla velleitaria ed improbabile "alleanza
condizionante" tra il timido Pisapia e il prepotente Renzi – il quale è
parte determinante del problema, e non della soluzione.
Allora:
cosa è più realistico? Andare avanti tranquillamente (come propone
Mieli, e come cantava De Gregori del Titanic lanciato contro l'iceberg) o
provare a invertire la rotta nella direzione che abbiamo indicato al teatro Brancaccio?
È
più velleitario dire che probabilmente a questo giro non ci saranno le
condizioni per la partecipazione di una sinistra radicale al governo o è
più velleitario promettere che Pisapia e Bersani condizioneranno Renzi?
È
più carico di futuro andare subito al governo per lasciare tutto com'è,
o preparare con pazienza e serietà un progetto di vero, radicale
cambiamento sul quale cercare e ottenere il consenso?
Per governare, sì: ma quando governare potrà servire ai governati, e non solo ai governanti.
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