Lo scoppio di una nuova bolla non sembra essere questione di “se” ma
di “quando”. Le banche centrali hanno immesso migliaia di miliardi nella
speranza di fare ripartire l’economia dopo la crisi esplosa dieci anni
fa. Una montagna di liquidità usata soprattutto per acquistare titoli di
Stato. Se questo può avere aiutato l’Italia a ridurre lo spread e a
gestire il proprio debito pubblico, un effetto non secondario è stato
quello di spingere al rialzo la quotazione delle obbligazioni private,
anche perché negli ultimi anni la BCE ha comprato direttamente titoli di
alcune delle maggiori multinazionali europee.
Una montagna di soldi rimasta però incastrata in circuiti finanziari
senza un trasferimento, se non in minima parte, nell’economia. In altre
parole un sempre maggiore distacco della finanza dai fondamentali
economici, ovvero la definizione stessa di una bolla. E’ paradossale che
si continui a considerare sempre e comunque positivo l’aumento delle
quotazioni sui mercati. Come scrive Sergio Bruno su Sbilanciamoci:
“Perché l’aumento dei prezzi dei flussi prodotti si chiama inflazione e
viene ritenuto negativo e pericoloso, mentre l’aumento dei prezzi degli
stock di ricchezza viene ritenuto una benedizione, un 30 e lode
conferito dai “mercati” (novelli aruspici), e non una banale “inflazione
degli stock”, senza una evidente relazione con il benessere del
paese?”. Una continua crescita dei titoli finanziari senza un
corrispondente aumento nell’economia reale che senso può avere? Quanto
può durare prima che sia necessario un riallineamento, per quanto brusco
e doloroso?
Per non spaventare i mercati, le banche centrali cercano di
rallentare il Quantitative Easing in modo lento e progressivo (il
cosiddetto tapering). Non è però detto che sia sufficiente per evitare
una nuova crisi. La scintilla può arrivare da qualsiasi parte, come
avvenne nel 2007 quando i mutui subprime furono l’elemento
scatenante che rivelò l’insostenibilità dell’insieme dei mercati
finanziari. Oggi è difficile dire quale potrebbe essere tale fattore. I
prestiti agli studenti universitari Usa hanno raggiunto cifre
insostenibili, così come i debiti legati alle carte di credito che
consentono di pagare gli acquisti a rate. Il problema non è però la
scintilla, ma il possibile effetto a catena sull’insieme dei mercati
finanziari.
L’eccesso di liquidità ha spinto al rialzo non solo le obbligazioni,
ma anche le quotazioni delle azioni. In maniera forse ancora più
preoccupante, le imprese hanno utilizzato questi soldi facili non per
investimenti produttivi o ricerca, ma in gran parte per acquistare
azioni proprie, spingendone la quotazione ancora più in alto. Per alcune
delle più grandi multinazionali del mondo l’acquisto di azioni proprie
ha superato anche gli utili. Come dire che non solo non si investe in
ricerca e innovazione, ma si è arrivati alla follia di indebitarsi
unicamente per aumentare artificialmente profitti e bonus dei manager,
drogando il proprio corso azionario. Quando i soldi facili dovessero
finire, cosa succederà?
Non parliamo di un problema che interessa pochi squali della finanza,
ma l’insieme dei mercati. L’aumento del prezzo dei titoli comprime i
rendimenti, il che porta anche i soggetti più prudenti, quali i fondi
pensione, a spostarsi verso strumenti più rischiosi alla ricerca di un
qualche guadagno. Ancora, buona parte dei titoli di Stato sono nelle
mani delle banche. Un crollo del mercato obbligazionario avrebbe impatti
diretti sull’erogazione del credito e quindi su imprese e occupazione.
Il gioco è in realtà più complesso, perché le banche utilizzano i titoli
di Stato come garanzia per ottenere liquidità a breve dalle loro
omologhe. In questo modo da una parte la liquidità già eccessiva aumenta
ulteriormente, dall’altro l’eventuale scoppio di una bolla porterebbe a
una riduzione delle garanzie date per ottenere prestiti sul sistema
interbancario, con effetto domino sulle banche.
La responsabilità di tutto questo è delle banche centrali e delle
loro politiche monetarie? O piuttosto tali politiche hanno mascherato
assenze ben più pesanti? Una solida ripresa non dovrebbe basarsi
sull’immettere più soldi, ma prima di tutto su una visione sociale,
economica, ambientale di lungo periodo, ovvero su una visione politica,
che in questi anni è completamente mancata. La BCE ha assunto un potere
eccessivo perché ha riempito il vuoto lasciato da Commissione e
Consiglio, quindi dai singoli governi. Le politiche monetarie sono cosi
importanti perché non ci sono politiche industriali, economiche, fiscali
su scala europea. Un vuoto politico che non fa che ingigantire
ulteriormente lo strapotere e il peso assunti dalla finanza in un’Europa
dei capitali senza Europa dei diritti.
All’indomani del 2007 l’impegno solenne era quello di chiudere una
volta per tutte il casinò finanziario e di ridurne potere e influenza.
Non solo non è stato fatto, ma ci troviamo oggi in una situazione
probabilmente peggiore. Se scoppiasse una nuova crisi, quale Stato
potrebbe mettere in campo piani di salvataggio paragonabili a quelli che
furono necessari allora?
E quali potrebbero essere le conseguenze,
considerando non solo la situazione finanziaria ma prima ancora la
rabbia sociale, la crescente sfiducia e il rischio concreto di una
disgregazione del’UE? Tutti fattori che nel 2007 non erano presenti o
comunque non avevano certo il peso che hanno oggi.
Poco o nulla è stato fatto non solo dal punto di vista economico e
delle regole, ma prima ancora culturale: la stessa finanza è riuscita a
ribaltare l’immaginario collettivo, addossando la responsabilità della
crisi su Stati e debiti pubblici. La lezione del 2007 è stata
completamente dimenticata, se mai era stata appresa. Si naviga a vista,
anzi peggio ancora: bussola e timone sono nelle mani di quello stesso
sistema finanziario che ci ha fatto naufragare solo pochi anni fa. In
attesa della prossima tempesta.
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