QUALCHE giorno fa, fuori tempo massimo e
senza averne i requisiti, mi sono candidato attraverso un post sulla mia
pagina Facebook alla guida del Movimento 5 Stelle. Le reazioni sono
state le più disparate, ma la cosa che mi ha davvero impressionato sono
stati gli ultrà del Movimento che hanno commentato il mio post.
Nessuno - e dico nessuno - ha sollevato obiezioni di natura politica. La maggior parte mi scriveva che non potevo candidarmi "perché non avevo i requisiti". Incredibile, i sostenitori di un movimento che ha cambiato continuamente le regole cardinali della propria struttura, senza fare autocritica e senza fornire spiegazioni (conseguenti magari all'inevitabile incontro/scontro con la realtà), si aggrappavano ai requisiti e alla loro mancanza.
Quindi il paradosso: da un lato una inflessibilità di facciata che sa di indottrinamento, dall'altro una fisiologica "flessibilità" sulle regole, diretta conseguenza dell'assenza di uno Statuto che abbia alla base valori politici. E questa assenza, nonostante i sondaggi, sta divorando il Movimento dal suo interno. Qui non si tratta di comporre requiem perché è evidente che quel partito noto a tutti con il nome di M5S gode di ottima salute. Mi sto solo interrogando su questo: cosa è rimasto del Movimento 5 Stelle nel Movimento 5 Stelle?
Quando penso alle prossime elezioni politiche mi viene in mente un detto che suona più o meno così: "Vediamo di che morte dobbiamo morire". E a "morire" non saremo solo noi, a "morire" sarà soprattutto quell'idea di politica nuova, che in teoria nulla ha a che vedere con compromessi e alleanze di necessità. Eh sì, perché anche il M5S, se vorrà governare, dovrà invece scendere a patti.
Qualche giorno fa si è celebrato l'anniversario del primo V-day. Ricordo solo una cosa di quella giornata e delle analisi che la seguirono: le persone in piazza appartenevano alla classe media, con un buon livello di istruzione. Erano giovani, ma non giovanissimi. Erano tutti outsider, persone in gamba, sfiancate da anni di berlusconismo e da una opposizione incapace di rappresentare quel malessere. Erano persone che non riuscivano più a votare, che non pensavano neanche lontanamente di fare politica, perché a scoraggiarli erano i ras e capetti locali, rimasti a presidiare quello che restava della partecipazione politica.
C'era la parte migliore del Paese in piazza a Bologna nel 2007? Non lo so, ed è inutile stabilirlo oggi. Quel che è certo è che, a distanza di dieci anni, la fiammata iniziale si è spenta per lasciare spazio ad altro. A molto altro, in verità, perché se arrivi al 30% dei consensi, allarghi la base elettorale in maniera esponenziale e, forse, non sei più in grado di riconoscere le categorie - sociali, economiche, generazionali - delle quali sei rappresentativo. Sono però abbastanza certo che chi aveva provato entusiasmo per le parole d'ordine di democrazia dal basso, orizzontale, di lotta alle vecchie dinamiche di partito è scappato da tempo dal Movimento per rifugiarsi ancora una volta nel non voto, per coltivare il proprio privato alla ricerca di una felicità individuale.
Gianroberto Casaleggio era un consulente. Al momento del V-day, la Casaleggio Associati non si occupava solo di gestire il blog di Beppe Grillo, ma anche della comunicazione politica e delle strategie di partito per Antonio Di Pietro. La candidatura di Luigi de Magistris nell'Italia dei Valori alle Europee fu una sua idea. Casaleggio era anche socio, assieme a Beppe Grillo, con il commercialista Enrico Nadasi e Enrico Grillo, nipote di Beppe, dell'associazione Movimento 5 Stelle, proprietaria del simbolo del Movimento, un elemento cruciale. Pensiamo a come gli eredi della Democrazia Cristiana hanno battagliato negli anni per la proprietà del simbolo (che poi, dopo Tangentopoli, non aveva tutto questo appeal); o a Marco Pannella, che donò il simbolo del "Sole che Ride" al movimento ambientalista. Cosa comporta la proprietà del simbolo? Che, pena l'espulsione, nessuno all'interno del Movimento può prendere decisioni in autonomia e che la proprietà del simbolo decide la linea del Movimento in maniera insindacabile. Grillo è garante e chiede fiducia per sé e per le proprie decisioni: allora chi viene eletto nel Movimento che ruolo ha? E ancora: chi decide l'idoneità di una candidatura anche dopo il cosiddetto voto popolare attraverso la piattaforma Rousseau di proprietà di Davide Casaleggio? La parola finale spetta sempre ai garanti, in barba al voto orizzontale, all'uno vale uno. Ma come mai, viene da chiedersi, Grillo e Casaleggio junior dell'organizzazione che loro stessi hanno dato al Movimento non si fidano più? Perché dove manca una caratterizzazione politica può entrare di tutto. Il vuoto può essere riempito da qualunque cosa. Faccio un esempio che ciascuno può comprendere. L'unica significativa esperienza di governo del Movimento 5 Stelle dalla sua fondazione è l'amministrazione capitolina, ed è un caso di scuola di infiltrazione e quindi di commissariamento (della sindaca Raggi) da parte della associazione che gestisce il simbolo. Raggi non decide nulla, poiché per i vertici del Movimento è diretta emanazione di altri ambienti politici: questa è la realtà dei fatti, ed è grave per una città tanto grande quanto i suoi problemi giustificare la catastrofe con l'eredità del passato. È evidente il peso della devastazione precedente, ma allora che senso ha avuto proporsi come alternativa di governo?
Ma veniamo al punto cruciale di questa mia riflessione che dimostra come la condizione attuale del M5S, al di là delle mistificazioni di facciata, sia sul piano del metodo e della pratica politica in perfetta continuità con quanto l'Italia ha vissuto negli ultimi decenni. Silvio Berlusconi dal nulla fondò un partito politico che alle europee del 1994 veleggiava al 30% e lo fece utilizzando la sua struttura aziendale: il partito personale, il partito azienda. Il Movimento 5 Stelle oggi è una evoluzione di quella patologia, perché al di là dei proclami sulla politica dal basso e sull'assenza di personalismi, è il primo caso di un'entità politica gestita da associazioni riconducibili a singoli e da srl che pretendono fiducia incondizionata. Il caso Cassimatis lo conferma.
I leader del Movimento, quelli che hanno consolidato la propria immagine nel corso di questi anni, non sono che figuranti destinati a diventare figurine qualora dovessero accettare il vincolo di mandato che, al di là delle motivazioni di facciata, e cioè di preservare la fedeltà nei confronti degli elettori, genererebbe un mostro: il controllo da parte di associazioni e di srl riconducibili a Beppe Grillo e a Davide Casaleggio di istituzioni pubbliche. A proposito, vado interrogandomi da qualche giorno su una questione: ma quando, tra cento anni, Davide Casaleggio e Beppe Grillo decideranno di trasferirsi nella costellazione Gaia, chi erediterà le redini del Movimento 5 Stelle: figli, nipoti, zie? Nemmeno Berlusconi potè tanto: basti pensare che quando si ventilò l'ipotesi che Marina Berlusconi potesse succedere al padre, dalla coalizione di centro- destra si levarono voci più che critiche. Oggi dal conflitto di interessi siamo a un passo dal cadere nella privatizzazione della democrazia.
È, questo, un punto di non ritorno e i figuranti, gli ospiti fissi dei salotti televisivi sanno di non potersi più fermare a riflettere su cosa sia accaduto a loro e al Movimento, e probabilmente non hanno nemmeno gli strumenti per farlo. Voglio essere facile profeta: i Di Maio, i Di Battista, i Toninelli saranno per sempre "politici", nella declinazione dispregiativa che del termine hanno dato loro stessi, perché dalla visibilità provata, dalla sensazione di riuscire a raggiungere il potere - pure se di facciata - non si torna indietro. Altro che due mandati. Oggi l'unica parola d'ordine rimasta a disposizione del Movimento è che gli altri sono peggio. Accettiamo retoricamente l'argomentazione, ma poi? Chi ha creduto in questo vento nuovo lo ha fatto per sentirsi dire, di fronte a errori, fallimenti e contraddizioni che "gli altri sono peggio"? Lo si sapeva già. E oltre questo? Cosa rimane, qual è l'orizzonte politico?
In queste ore il Movimento è riunito a Rimini per festeggiare la partenza della campagna per le politiche dell'anno prossimo. Io vedo invece la formalizzazione del fallimento di tutte le premesse. Da domani il Movimento non avrà più un portavoce, ma un leader. Un capo che rimarrà comunque solo un figurante, incapace sul piano politico e culturale di opporre alcunché al dominio del dedalo di associazioni e di srl che peraltro non hanno neanche lontanamente intenzione di rinunciare ai loro altri clienti e che cambiano le regole a loro capriccio chiedendo atti di fede. Perché solo un atto di fede può far digerire in Sicilia (proprio in Sicilia!), dopo anni in cui si è professato il rispetto di legalità e magistratura, una candidatura che un tribunale ha dichiarato illegittima. Gli altri saranno peggio, ma il Movimento dimostra di seguirne i passi con disinvoltura coprendosi, peraltro, di ridicolo perché il pasticcio siciliano è conseguenza della necessità di far credere che le decisioni nel Movimento siano sempre prese dal basso. E intanto, Silvio Berlusconi...
Nessuno - e dico nessuno - ha sollevato obiezioni di natura politica. La maggior parte mi scriveva che non potevo candidarmi "perché non avevo i requisiti". Incredibile, i sostenitori di un movimento che ha cambiato continuamente le regole cardinali della propria struttura, senza fare autocritica e senza fornire spiegazioni (conseguenti magari all'inevitabile incontro/scontro con la realtà), si aggrappavano ai requisiti e alla loro mancanza.
Quindi il paradosso: da un lato una inflessibilità di facciata che sa di indottrinamento, dall'altro una fisiologica "flessibilità" sulle regole, diretta conseguenza dell'assenza di uno Statuto che abbia alla base valori politici. E questa assenza, nonostante i sondaggi, sta divorando il Movimento dal suo interno. Qui non si tratta di comporre requiem perché è evidente che quel partito noto a tutti con il nome di M5S gode di ottima salute. Mi sto solo interrogando su questo: cosa è rimasto del Movimento 5 Stelle nel Movimento 5 Stelle?
Quando penso alle prossime elezioni politiche mi viene in mente un detto che suona più o meno così: "Vediamo di che morte dobbiamo morire". E a "morire" non saremo solo noi, a "morire" sarà soprattutto quell'idea di politica nuova, che in teoria nulla ha a che vedere con compromessi e alleanze di necessità. Eh sì, perché anche il M5S, se vorrà governare, dovrà invece scendere a patti.
Qualche giorno fa si è celebrato l'anniversario del primo V-day. Ricordo solo una cosa di quella giornata e delle analisi che la seguirono: le persone in piazza appartenevano alla classe media, con un buon livello di istruzione. Erano giovani, ma non giovanissimi. Erano tutti outsider, persone in gamba, sfiancate da anni di berlusconismo e da una opposizione incapace di rappresentare quel malessere. Erano persone che non riuscivano più a votare, che non pensavano neanche lontanamente di fare politica, perché a scoraggiarli erano i ras e capetti locali, rimasti a presidiare quello che restava della partecipazione politica.
C'era la parte migliore del Paese in piazza a Bologna nel 2007? Non lo so, ed è inutile stabilirlo oggi. Quel che è certo è che, a distanza di dieci anni, la fiammata iniziale si è spenta per lasciare spazio ad altro. A molto altro, in verità, perché se arrivi al 30% dei consensi, allarghi la base elettorale in maniera esponenziale e, forse, non sei più in grado di riconoscere le categorie - sociali, economiche, generazionali - delle quali sei rappresentativo. Sono però abbastanza certo che chi aveva provato entusiasmo per le parole d'ordine di democrazia dal basso, orizzontale, di lotta alle vecchie dinamiche di partito è scappato da tempo dal Movimento per rifugiarsi ancora una volta nel non voto, per coltivare il proprio privato alla ricerca di una felicità individuale.
Gianroberto Casaleggio era un consulente. Al momento del V-day, la Casaleggio Associati non si occupava solo di gestire il blog di Beppe Grillo, ma anche della comunicazione politica e delle strategie di partito per Antonio Di Pietro. La candidatura di Luigi de Magistris nell'Italia dei Valori alle Europee fu una sua idea. Casaleggio era anche socio, assieme a Beppe Grillo, con il commercialista Enrico Nadasi e Enrico Grillo, nipote di Beppe, dell'associazione Movimento 5 Stelle, proprietaria del simbolo del Movimento, un elemento cruciale. Pensiamo a come gli eredi della Democrazia Cristiana hanno battagliato negli anni per la proprietà del simbolo (che poi, dopo Tangentopoli, non aveva tutto questo appeal); o a Marco Pannella, che donò il simbolo del "Sole che Ride" al movimento ambientalista. Cosa comporta la proprietà del simbolo? Che, pena l'espulsione, nessuno all'interno del Movimento può prendere decisioni in autonomia e che la proprietà del simbolo decide la linea del Movimento in maniera insindacabile. Grillo è garante e chiede fiducia per sé e per le proprie decisioni: allora chi viene eletto nel Movimento che ruolo ha? E ancora: chi decide l'idoneità di una candidatura anche dopo il cosiddetto voto popolare attraverso la piattaforma Rousseau di proprietà di Davide Casaleggio? La parola finale spetta sempre ai garanti, in barba al voto orizzontale, all'uno vale uno. Ma come mai, viene da chiedersi, Grillo e Casaleggio junior dell'organizzazione che loro stessi hanno dato al Movimento non si fidano più? Perché dove manca una caratterizzazione politica può entrare di tutto. Il vuoto può essere riempito da qualunque cosa. Faccio un esempio che ciascuno può comprendere. L'unica significativa esperienza di governo del Movimento 5 Stelle dalla sua fondazione è l'amministrazione capitolina, ed è un caso di scuola di infiltrazione e quindi di commissariamento (della sindaca Raggi) da parte della associazione che gestisce il simbolo. Raggi non decide nulla, poiché per i vertici del Movimento è diretta emanazione di altri ambienti politici: questa è la realtà dei fatti, ed è grave per una città tanto grande quanto i suoi problemi giustificare la catastrofe con l'eredità del passato. È evidente il peso della devastazione precedente, ma allora che senso ha avuto proporsi come alternativa di governo?
Ma veniamo al punto cruciale di questa mia riflessione che dimostra come la condizione attuale del M5S, al di là delle mistificazioni di facciata, sia sul piano del metodo e della pratica politica in perfetta continuità con quanto l'Italia ha vissuto negli ultimi decenni. Silvio Berlusconi dal nulla fondò un partito politico che alle europee del 1994 veleggiava al 30% e lo fece utilizzando la sua struttura aziendale: il partito personale, il partito azienda. Il Movimento 5 Stelle oggi è una evoluzione di quella patologia, perché al di là dei proclami sulla politica dal basso e sull'assenza di personalismi, è il primo caso di un'entità politica gestita da associazioni riconducibili a singoli e da srl che pretendono fiducia incondizionata. Il caso Cassimatis lo conferma.
I leader del Movimento, quelli che hanno consolidato la propria immagine nel corso di questi anni, non sono che figuranti destinati a diventare figurine qualora dovessero accettare il vincolo di mandato che, al di là delle motivazioni di facciata, e cioè di preservare la fedeltà nei confronti degli elettori, genererebbe un mostro: il controllo da parte di associazioni e di srl riconducibili a Beppe Grillo e a Davide Casaleggio di istituzioni pubbliche. A proposito, vado interrogandomi da qualche giorno su una questione: ma quando, tra cento anni, Davide Casaleggio e Beppe Grillo decideranno di trasferirsi nella costellazione Gaia, chi erediterà le redini del Movimento 5 Stelle: figli, nipoti, zie? Nemmeno Berlusconi potè tanto: basti pensare che quando si ventilò l'ipotesi che Marina Berlusconi potesse succedere al padre, dalla coalizione di centro- destra si levarono voci più che critiche. Oggi dal conflitto di interessi siamo a un passo dal cadere nella privatizzazione della democrazia.
È, questo, un punto di non ritorno e i figuranti, gli ospiti fissi dei salotti televisivi sanno di non potersi più fermare a riflettere su cosa sia accaduto a loro e al Movimento, e probabilmente non hanno nemmeno gli strumenti per farlo. Voglio essere facile profeta: i Di Maio, i Di Battista, i Toninelli saranno per sempre "politici", nella declinazione dispregiativa che del termine hanno dato loro stessi, perché dalla visibilità provata, dalla sensazione di riuscire a raggiungere il potere - pure se di facciata - non si torna indietro. Altro che due mandati. Oggi l'unica parola d'ordine rimasta a disposizione del Movimento è che gli altri sono peggio. Accettiamo retoricamente l'argomentazione, ma poi? Chi ha creduto in questo vento nuovo lo ha fatto per sentirsi dire, di fronte a errori, fallimenti e contraddizioni che "gli altri sono peggio"? Lo si sapeva già. E oltre questo? Cosa rimane, qual è l'orizzonte politico?
In queste ore il Movimento è riunito a Rimini per festeggiare la partenza della campagna per le politiche dell'anno prossimo. Io vedo invece la formalizzazione del fallimento di tutte le premesse. Da domani il Movimento non avrà più un portavoce, ma un leader. Un capo che rimarrà comunque solo un figurante, incapace sul piano politico e culturale di opporre alcunché al dominio del dedalo di associazioni e di srl che peraltro non hanno neanche lontanamente intenzione di rinunciare ai loro altri clienti e che cambiano le regole a loro capriccio chiedendo atti di fede. Perché solo un atto di fede può far digerire in Sicilia (proprio in Sicilia!), dopo anni in cui si è professato il rispetto di legalità e magistratura, una candidatura che un tribunale ha dichiarato illegittima. Gli altri saranno peggio, ma il Movimento dimostra di seguirne i passi con disinvoltura coprendosi, peraltro, di ridicolo perché il pasticcio siciliano è conseguenza della necessità di far credere che le decisioni nel Movimento siano sempre prese dal basso. E intanto, Silvio Berlusconi...
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