“Si
sente dire spesso che ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, che la
ripresa non è lontana. Sono dichiarazioni totalmente slegate dalla
realtà. E chi le afferma, se ne deve assumere la responsabilità”.
Luciano Gallino, classe 1927, sociologo di fama internazionale e autore
di innumerevoli manuali e saggi, è lucido nella sua analisi, forte di un
incessante lavoro di studio e ricerca che dura da oltre 50 anni.
Professor Gallino, che cosa ci dicono i recenti dati sul lavoro in Italia?
“Ci dicono che la situazione dell’economia e del lavoro è
gravissima. La disoccupazione tocca livelli altissimi: tra disoccupati
‘dichiarati’ e lavoratori ‘scoraggiati’ siamo arrivati ormai a quasi 4
milioni di persone. Se il tasso di disoccupazione è diminuito quindi è
solo perché molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro.
Ma non solo. Ancora in questi giorni ho letto che i cosiddetti ‘precari’
sono soprattutto giovani. Ora, è senz’altro vero che l’80% delle nuove
‘assunzioni’ (se così possiamo chiamarle) riguarda persone poco avanti
con gli anni. È anche vero, però, che ormai milioni di lavoratori hanno
seguito questa trafila: dopo 15, 20 anni di contratti di breve durata di
vario genere, non sono più tanto giovani. Si stima che almeno un 30%
dei precari oggi abbia passato i 40 anni. Le stime dicono che i precari
sono 3 milioni. Io ipotizzo 4 milioni. Quel che conta però è il totale:
stiamo parlando di 7, 8 milioni di persone che non hanno lavoro, o lo
hanno scadente e mal pagato (ricordiamoci che i precari quando hanno uno
stipendio ragionevole lo hanno per 8, 9 mesi). Non vedo proposte
adeguate per questa situazione. Eppure si dovrebbe ridurre di almeno 1
milione o 2 i disoccupati. Senza dimenticare un altro dato: per il 2012 è
previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in
media per un milione di persone. La Cig vuol dire per un lavoratore
ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200. La
nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque
altro Paese europeo”.
Quali conseguenze ha la disoccupazione?
“La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo
senza essere occupati. È una ferita profonda del proprio senso di
autostima. Soprattuto per i giovani: perché non ho lavoro? Ho studiato,
ho esperienza… Senza contare i problemi familiari: anche coi 750 euro
della cassa integrazione, il reddito è insufficiente, i rapporti in
famiglia si logorano, si inaspriscono.
La disoccupazione è un enorme spreco economico e sociale. L’unica cosa
che crea valore reale è il lavoro: 4 milioni di persone che non
producono, 4 milioni che producono poco e male. Poi ci sono le
professionalità che si perdono: il 50% dei disoccupati ha superato un
anno di inattività, un’eternità se comparato con lo sviluppo della
produzione e il mutamento delle tecnologie. Per strada si perdono forme
di conoscenza. La disoccupazione è il più grande scandalo che la società
possa conoscere. Che non se ne parli è uno degli aspetti più gravi”.
Perché colpisce il sistema produttivo italiano?
“La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri
delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i
costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per
inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale.
Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori
rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per
una normale azienda.
Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi,
emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi
europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato
questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi
industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che
spiegano la differenza con noi.
Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27
Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro
all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil. Il tasso
tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, che di
per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe
molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli
investimenti in capitale fisso. Gli stabilimenti italiani sono
irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la
media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è
equamente divisa tra pubblico e privato”.
Quanto hanno influito le riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite nel tempo?
“Le cosiddette riforme del lavoro progettate dalla fine degli
anni 90 in poi hanno aumentato il lavoro precario. In particolare, se si
guarda la curva del lavoro precario, dal 2003 -anno della stesura del
decreto attuativo della legge 30- c’è una fortissima impennata. La
precarietà peraltro contribuisce alla crescita del coefficiente di
disoccupazione, perché tra un contratto e l’altro passa sovente qualche
mese.
È una delle conseguenze delle dottrine neoliberali, che per quanto
sconfitte, smentite e sconfessate, sono sempre lì, si insegnano nelle
università, costituiscono la forma mentale dominante nei media.
Chiunque abbia studiato a fondo la questione si rende conto che non c’è
nessuno studio empirico di peso che metta in correlazione flessibilità
nel lavoro e aumento dell’occupazione. Semmai molti studi dimostrano il
contrario. Negli anni 90 l’Ocse insisteva molto sulla flessibilità, ma
già dal 2004 ha cominciato a ricredersi.
L’evidenza ci dice che dal 2000 in poi l’indice Ocse della rigidità del
lavoro in Italia è diminuito moltissimo, passando dal 3,50 del 2003 a
meno di 1,8 oggi, in una scala da 0 a 5, dove il massimo significa quasi
impossibilità di licenziare (tra gli indicatori c’è ad esempio il costo
per il licenziamento). Ma questo nella testa degli economisti non
entra. Eppure si danno l’aria di scienziati, e dovrebbero sapere che si
fa se un esperimento fallisce”.
Molti spingono sulla retorica del costo del lavoro e della scarsa produttività, come nel caso Fiat.
“Assistiamo a dell’umorismo nero: 5 anni fa Sergio Marchionne
disse ‘Che cos’è questa storia del costo del lavoro, che incide 5/6% sul
totale! Bisogna occuparsi di cose serie’. Anni dopo pare abbia scoperto
che il lavoro costa troppo… Chissà, forse non aveva previsto la crisi…
Continuano a sperare di produrre 6 milioni di auto. Nel 2007 -l’ultimo
anno buono per l’industria automobilistica- in Europa si sono vendute di
17 milioni di auto. Quest’anno saremo sotto i 13 milioni, 4 milioni di
pezzi in meno. Tutte le società automobilistiche sono in crisi, tranne
forse la VolksWagen. I manager non hanno tenuto conto che l’auto è alla
fine dei suoi giorni. E ciò vale soprattuto per l’Italia, visto che
detiene il maggior numero di auto per abitante (in Francia è inferiore
di un terzo)”.
Non c’è però solo l’auto: tutto il nostro sistema industriale pare in crisi.
“Come nel caso dell’acciaio: siamo il maggior produttore
d’Europa, ma non è un segno di buona salute. Le acciaierie dovrebbero
essere più piccole, per fare acciai più adatti. Noi abbiamo l’impianto
più grande d’Europa, espressione di un vecchio modello produttivo,
difficilmente riformabile. Negli Stati Uniti hanno chiuso gli impianti
per realizzarli 5 volte più piccoli. Il sistema va ripensato, anche per
ragioni ecologiche. Occorrerebbe pensare a produrre valore in settori
differenti. Il territorio italiano è un disastro, da riqualificare. Il
50% delle scuole non è a norma, tra soffitti che crollano e pavimenti
che cedono. C’è poi il risparmio energetico: 9 case su 10 riscaldano
anche l’esterno…
Poi c’è da sviluppare nuovi sistemi di mobilità. Basti solo pensare alla
metropolitana: l’Italia avrà meno di 250 chilometri di linee. Da sola,
Parigi ne ha il doppio, Londra anche di più, così come Berlino. Tradotto
stiamo parlando di grandi investimenti, per decine di migliaia di posti
di lavoro”.
Come si può creare lavoro?
“La cementificazione è un fatto orrendo: in 20 anni la
popolazione è aumentata di 2 milioni, ma sono stati costruiti 20 milioni
di vani. Pura follia, così come costruire senza fine fiumi di
automobili e lavastoviglie. Molte altre scelte creerebbero lavoro
specializzato ad alta intensità: riqualificazione del territorio, di
quel 70% di edifici non antisismici, degli acquedotti che perdono, delle
scuole non a norma. C’è un’ampia platea di settori che richiederebbero
lavori che sono altamente tecnici, che richiedono l’impiego di
tecnologie avanzate e al tempo stesso hanno utilità collettiva ampia e
diffusa”.
Il suo ultimo libro parla esplicitamente di lotta di classe.
“Le classi ci sono più che mai: quando una persona guadagna
1.200 euro al mese, è totalmente soggetto a ordini dall’alto,
addirittura fino al modo in cui si muove. Prendiamo come esempio
l’accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano. In realtà è un diktat:
19 pagine sono dedicate alla metrica del lavoro, ovvero come e in
quanti secondi si devono muovere la mani, le braccia, il collo, le
gambe.
Ma questo vale non solo per l’industria meccanica, anche per la
ristorazione, per l’agricoltura. Lavoratori con uno stipendio scarso, e
una pensione che si annuncia da fame. Questa è una prima classe,
distinta da altre, che hanno un minimo di indipendenza in più e di
controllo fisico in meno: insegnanti, funzionari, fascia alta degli
impiegati, commercianti.
Infine c’è la classe dominante, quella espressione di un potere politico
ed economico enorme, che dice al 90% della popolazione che cosa fare, e
controlla i mezzi per farglielo fare. Diffonde quella che viene
chiamata ‘la mentalità del governare’. Sul piano internazionale è una
classe dominante formata da tante classi locali.
In molti Paesi queste classi si assomigliano sempre di più, sono sempre
più legate tra loro, dormono in alberghi identici, hanno gli stessi
parametri di riferimento. Parecchi anni fa fu coniata l’espressione
‘classe capitalistica transnazionale’.
Tra classi, infine, la mobilità è dovunque inferiore a quanto si pensi.
Un Paese in cui è particolarmente bassa sono gli Stati Uniti. La
rigidità intergenerazionale negli Usa è drammatica. Anche in Italia la
rigidità dell’ascensore sociale è molto rilevante, anche perché la
cuspide della piramide del lavoro è sempre più stretta e c’è sempre meno
posto”.
I salari fanno parte di questa dinamica.
“Con patrimoni finanziari ingenti si può fare tutto. Ma invece
di spendere in investimenti o in impianti fissi, una quota
rilevantissima degli utili delle aziende è stata utilizzata per
compensare i top manager, sia Usa sia in Europa. Oppure l’impresa compra
azioni proprie per far salire il valore di mercato, perché su questo si
misura l’operato del manager. Il risultato è crescita di
disuguaglianze. I salari italiani sono fermi dal ‘95, negli Usa fermi
addirittura dal 1975. Si stima anzi siano leggermente regrediti. Il
fenomeno riguarda l’80, 90% della popolazione, mentre si è enormemente
arricchito il famoso 1%. Tanto è vero che in alcuni Paesi europei
troviamo indici di disuguaglianza astronomici. La Germania ha un indice
di Gini (misura la distribuzione del reddito in una scala da 0 -massima
distribuzione- a 1 -massima concentrazione-, ndr) tra i più alti del
mondo: 0,8. Un Paese sull’orlo dell’esplosione sociale, dove a 5 milioni
di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la
settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai,
ricevono meno della metà del salario mediano”.
Come giudica la recente riforma del lavoro del Governo?
“A leggerne i provvedimenti, è chiaro che si ispira quasi alla
lettera alle indicazioni contenuti in alcuni documenti della Commissione
europea e dell’Ocse di una ventina di anni fa. Nel 1996 l’Ocse aveva
pubblicato un rapporto in cui si insisteva molto sul fatto che la
rigidità dei contratti manteneva bassi i tassi di occupazione. Dopo vari
rapporti intermedi la stessa Ocse ha pubblicato altri studi in cui
diceva che tutto sommato non c’è evidenza empirica del rapporto tra
rigidità e tasso di occupazione. Vi sono stati dunque casi di Paesi con
rigidità elevata accompagnata a occupazione elevata, e viceversa. In
sostanza, l’Ocse ha smentito se stessa. Eppure, la riforma del mercato
del lavoro riprende pari pari queste indicazioni. Devo dire a questo
punto che pensare sia utile in un momento di grave crisi (finanziaria,
ma con forti radici nell’economia reale) facilitare i licenziamenti per
accrescere il tasso di occupazione, significa applicare una ricetta del
tutto sbagliata. Diciamo che da una parte c’è l’orientamento preconcetto
di persone che hanno la mente intrisa delle dottrine neo liberali. Ma
ci sono anche ragioni più dirette: qualcosa bisognava dire o dare al
Fondo monetario internazionale, all’Ocse, alla Bce, un testo che li
accontentasse. A ogni riunione che si fa si dice che l’Italia ha fatto
passi in avanti sulla strada delle riforme”.
Perché la finanza ha preso tutto questo potere?
“Perché non ha avuto opposizione. Non certo dai partiti, che a
partire dagli anni 80 si sono adoperati per la finanziarizzazione, la
liberalizzazione di movimenti di capitale, la produzione a valanga dei
titoli come i derivati strutturati. Tra questi i partiti di sinistra e
di centro-sinistra, che hanno ispirato molti documenti degli anni 80 in
quella direzione, spinti da illustri personaggi della sinistra. Lo dico
con una certa ambasce: i francesi Mitterand, Delors e Camdessus, il
tedesco Schröder.
Le dottrine neo liberali, diffuse e propagandate a suon di dollari
investiti in decine di ‘pensatoi’ e centri studi, hanno avuto un
successo straordinario anche tra uomini politici, intellettuali e
accademici. Poi c’è stata la caduta del Muro, e molte sinistre hanno
fatto il possibile per mostrare di essersi allontanati dalle ideologie
che vedevano nello Stato un soggetto di peso.
A dire il vero, soprattutto in Francia, furono dei problemi coi
movimenti di capitale a sollecitarne la liberalizzazione. Si cominciò a
dire che i capitali fuggivano, anche se il dato era falsato. Il
risultato fu di liberalizzarne i movimenti.Questi fattori hanno fatto sì
che la finanza non abbia avuto la minima opposizione. Il risultato sono
state direttive, norme, leggi: l’Unione europea è diventata più
liberale degli Usa.
Il fatto straordinario è che le banche oggi hanno convinto i governi che
andavano salvate per la seconda volta. In meno di tre anni il debito
pubblico europeo è aumentato del 20%. A partire dal 2008 si sono
dissanguati i bilanci pubblici per salvare le banche. I tedeschi si sono
trovati con miliardi di debiti. L’istituto Hypo Re è costata ai
tedeschi 142 miliardi di euro: troppo grande per fallire, avrebbe
trascinato con sé milioni di piccoli risparmiatori.
Dal 2010 la crisi delle banche è stata travestita da crisi del debito
pubblico. E quando i bilanci pubblici sono esangui non ce la fanno più, e
scattano i tagli. Ci sono dei progetti in sede di Parlamento Ue per
regolare i derivati (che sono stati definiti da Warren Buffet un’ ‘arma
finanziaria di distruzione di massa’) e per suddividere la banche
commerciali da quelle di investimento, ma sinora non si è fatto nulla.
La crisi ora è vagamente sotterrata ma potrebbe riservarci amare
sorprese.
In America nel 2010 è stata introdotta la Wall Street Reform, ma è
talmente complicata che richiede 500 decreti attuativi, che a oggi sono
solo una trentina. La legge è farraginosa, e le lobby fanno la loro
parte per svuotarla”.
Perché il lavoro è così colpito dalla finanza?
“Sin dagli anni 80 e 90, con lo sviluppo tecnologico, i mercati
di consumo hanno cominciato a essere saturi, poiché l’industria aveva
capacità produttiva in eccesso. Eccesso di capacità produttiva vuol dire
che il capitale investito rende poco. Vuol dire che il rendimento è
basso. La proprietà -non solo brutti personaggi panciuti col sigaro, ma
anche gli investitori istituzionali, compresi i fondi pensione- chiedono
rendimenti molto più alti. Sono i proprietari di metà delle azioni dei
capitali delle imprese di tutto il mondo. Coi bassi profitti che non si
possono far salire perché si produce troppo e si vende poco, i
dirigenti, per dare retta agli investitori, hanno puntato a comprimere
il costo del lavoro. Quindi flessibilità, precarietà, e compressione dei
diritti. Si chiama la ‘strada bassa’, la strada impervia delle
relazioni industriali.
Nessuno però ne parla. E non parlarne fa parte dello straordinario successo ideologico delle dottrine”.
Pietro Raitano - Micro Mega (Altraeconomia.it)