venerdì 12 ottobre 2012

L'Appello, "Dimissioni di Profumo", ministro taglione e sparaballe

Pubblichiamo il testo dell'appello in cui si chiedono le dimissioni del ministro Profumo. In calce l'elenco dei promotori.
Quasi un anno di governo è sufficiente per giudicare l'operato del ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo. Tutte le sue scelte confermano che egli è l'esecutore testamentario della legge Gelmini, vale a dire il prosecutore del più distruttivo attacco alle strutture della scuola e dell'università pubbliche mai realizzato nella storia della repubblica. Egli stesso ha dichiarato che tutte le sue iniziative sarebbero state realizzate «con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi e maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Ma è andato anche oltre. Egli continua a bloccare i concorsi universitari (sottobanco diminuisce la dotazione finanziaria per la loro applicazione), ha imposto nuovi tagli agli enti di ricerca, ha accresciuto il finanziamento alle scuole private, deliberato la possibilità di aumentare le tasse degli studenti universitari, ha prorogato i rettori in carica, al potere da decenni. Ma fa di peggio, perché sta fornendo all'opera di distruzione delle strutture della formazione un'ideologia ingannevole, quella che ha trovato espressione nel termine "merito": che ovviamente è, in sé, criterio serio, rispondente alle aspettative di giustizia di tutti noi.
Tuttavia il merito, per il ministro, è quello che inizia a essere valutabile a partire dall'anno del suo avvento. Così nel recente bando di concorso per la scuola, le abilitazioni, i risultati di concorso, le specializzazioni (conseguiti nel passato dagli insegnanti), non hanno più alcun valore e i docenti devono essere di nuovo giudicati da chi oggi ne stabilisce i criteri a proprio arbitrio. Gli stessi titoli dei docenti universitari vengono valutati secondo parametri stabiliti quest'anno dall'Anvur, un organismo di nomina oscura, che in base a criteri privi di riscontro stabilisce che cosa è scientifico e cosa no, imponendo una classificazione delle sedi di pubblicazione delle riviste e case editrici, di 10 o 20 anni fa, sulla base di scelte arbitrarie e inaccettabili.
Nel frattempo, come mostrano i recentissimi dati dell' Ocse, l'Italia precipita agli ultimi posti fra i paesi industrializzati per spese all'istruzione e per risultati. Il numero dei laureati/e cala ancora rispetto alla media europea, le immatricolazioni continuano a diminuire (meno 10% lo scorso anno). Le condizioni materiali della scuola pubblica sono degradate da aule sovraffollate, organici insufficienti, servizi inadeguati, edifici vecchi, quando non pericolanti. Come si risponde a questo quadro drammatico sotto la guida di Profumo? Alla Camera si sta tentando di trasformare in legge la cosiddetta "proposta Aprea", che riduce gli organi collegiali e avvia una privatizzazione camuffata della scuola pubblica. Nel frattempo, ad inizio di anno accademico, si innalzano le tasse e aumentano gli sbarramenti all'ingresso nell'università dei nostri ragazzi/e con quiz cervellotici indegni di un Paese civile.
Occorre finalmente alzare lo sguardo e afferrare l'ampiezza e la radicalità della distruzione oggi in atto. L'ideologia del merito serve solo a disconoscere la formazione, la competenza già conseguita da milioni di giovani a cui non si è in grado di offrire una prospettiva di lavoro all'altezza degli studi compiuti. Essa serve a nascondere la responsabilità di una classe dirigente che negli ultimi 20 anni ha messo nell'angolo ben due generazioni di giovani studiosi. Tutti gli sbarramenti posti davanti ai ragazzi/e che vogliono avanzare negli studi e nella ricerca servono a camuffare una drammatica disoccupazione intellettuale di massa e farla percepire, da chi ne è vittima, come incapacità personale e mancanza di merito. Noi diciamo basta a questo gigantesco inganno. E diciamo basta al declino programmato dell'Italia, spinta verso la periferia del mondo.
Noi chiediamo le dimissioni di Profumo, uomo di copertura ideologica, che continua e persegue con l'inganno pubblicitario delle sue trovate la politica di demolizione dell'istruzione pubblica di massa intrapresa dal governo Berlusconi. La violenza della polizia contro le manifestazioni studentesche di questi giorni conferma una continuità politica che occorre spezzare.
Chiediamo il superamento totale del numero chiuso all'università; la chiusura dell'Anvur per manifesta incapacità di assolvere il suo compito. Chiediamo invece il ruolo unico della docenza universitaria con progressione di carriera basata sulla verifica scientifica dei risultati. Le procedure per l'idoneità alla docenza devono svolgersi al più presto secondo seri criteri di valutazione e senza automatismi. Chiediamo la revoca immediata del bando di concorso per gli insegnanti della scuola e il rispetto dei diritti acquisiti nel passato.
Chiediamo inoltre stanziamenti adeguati e immediati per borse di studio nella scuola e nell'università, per i dottorati e per assegni post-dottorato: un aiuto concreto e un segnale di incoraggiamento per migliaia di giovani ora privati di ogni prospettiva dignitosa. Dalla crisi si esce anche con lo slancio e la volontà della nostra gioventù.
Chiediamo un adeguamento delle risorse finanziarie destinate a scuola e università almeno a livello della media dei Paesi dell'Ocse. A chi dice che non ci sono i soldi rispondiamo che i soldi ci sono per le scuole private e cattoliche – in spregio alla Costituzione – ci sono, in abbondanza e senza valutazione, per l'Istituto Italiano di Tecnologia, creato dal governo Berlusconi, ci sono per grandi opere dannose come il sottopasso di Firenze, ci sono – oltre 60 milioni al mese – per la guerra in Afghanistan, ci sono per gli sperperi di un ceto politico predone che dissangua il Paese. Secondo il Sole 24ore del 21 settembre, se i docenti che svolgono attività professionali venissero pagati in regime di tempo definito, e non di tempo pieno come oggi, si risparmierebbero almeno 500 miliardi.
"Non ci sono i soldi" è un ritornello per farci accettare la privatizzazione strisciante del sistema formativo. In realtà, il bilancio dello stato è oggi territorio di scorrerie di poteri e clientele, fonte di disuguaglianze e iniquità. I soldi ci sono per chi fa la voce grossa. Facciamo sentire la nostra.
Nell'approssimarsi di un momento cruciale della politica italiana, chiederemo a chi si candida a governare l'Italia, a tutte le forze democratiche, l'impegno ad abolire le legge Gelmini e ad avviare una riforma dell'università ispirata alla Carta di Roma, al Quadrifoglio per l'Università, del Documento per l'Università bene comune, dei Sette punti fondamentali dei DP.
Tutte le associazioni e le realtà firmatarie di questo appello si costituiscono come forza stabile organizzata con l'intento di coinvolgere docenti, ricercatori, gli studenti e le loro famiglie. Esse non avanzano rivendicazioni settoriali. Rimettere al centro della vita nazionale il ruolo della ricerca e della formazione è la strada in aggirabile per sfuggire al declino del Paese. La gioventù colta è la nuova élite che deve risollevare le sorti dell'Italia.
Raccogliamo le firme in rete, (www.amigi.org o altri siti) ma anche davanti alle scuole e alle università. Chiediamo ospitalità al nostro appello presso i banchetti dove si raccolgono le firme per i referendum contro la demolizione dello Statuto dei lavoratori. Facciamo del nostro movimento un interlocutore nazionale che dialoga permanentemente con i governi della repubblica. 

"L'Università che vogliamo", "CoNPAss", "Università bene comune", "Alternativa", "Fuoriregistro", "Forum Insegnanti", "Il tetto"

Piero Bevilacqua, Angelo D'Orsi, Tonino Perna, Maurizio Matteuzzi, Giorgio Tassinari, Giuseppe Aragno, Francesco Aqueci, Laura Corradi, Francesco Coniglione, Alberto Lucarelli, Saverio Luzzi, Ugo Olivieri, Maria Rosaria Marella, Raul Mordenti, Giorgio Pagano, Valeria Pinto, Francesco Pitocco, Enzo Scandurra, Patrizia Ferri, Fabio Minazzi, Alessandra Ciattini, Fabio Bentivoglio, Michele Maggino, Roberto Renzetti, Andrea Bagni, Domenico Rizzuti.

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Nessuna smentita, anzi una piena conferma. Il governo - con un codicillo inserito della "legge di stabilità" - vuol portare l'orario di docenza da 18 a 24 ore. Con i salari bloccati per altri due anni.

Il "ragionamento", diciamo così, è elementare; ma condito con le solite frasi vuote riperticate in qualche manuale di retorica per signorine di buona famiglia. "Chiediamo un atto di generosità", naturalmente "l'equità" (con le maestre elementari che già fanno 24 ore settimanali: 22 "frontali" e 2 di programmazione). Inutile spiegare a uno che è stato Rettore che le ore "frontali" sono solo una parte del lavoro docente (gravato strutturalmente di consigli, scrutini, correzione compiti, preparazione delle lezioni, ecc); lo sa benissimo. L'intenzione è perciò di "far male": alla scuola, ai docenti, agli studenti. Più ore frontali, infatti, significano meno cura dei dettagli, un rapporto con gli studenti meno personalizzato, sbrigatività anche nella correzione dei compiti, ecc.
Trasparente la logica complessiva in cui sono inseriti gli interventi di "riforma" degli ultimi venti anni: fare della scuola pubblica un impasto incoerente, alla fine incapace di "formare" soggetti portatori di "sapere critico" (semplicemente: non solo ritenere un certo numero di nozioni, ma anche capacità di interrogarsi sulla correttezza o meno - o del carattere storico ed evolutivo - delle nozioni apprese). Mentre il compito di formazione della classe dirigente passa integralmente a scuole e università private, dove la soglia del censo è la prima prova da affrontare.
Patetici, infine, i tentativi di motivare le "24 ore" con l'esigenza di ridurre gli "spezzoni orari", affidati in genere ai supplenti precari o ai docenti di ruolo per "completamento cattedra". Un orario più lungo comporterà un aumento del numero degli "spezzoni" (in molti casi, già oggi, è difficile assegnare cattdre di 18 ore nello stesso istituto). E la necessità di "completare le cattedre" - oltre al mancato rinnovo delle supplenze per molti precari - costringerà un numero enorme di insegnanti a correre tra due o tre scuole diverse. Un fenomeno già oggi esplosivo (specie per le materie con poche ore frontali nella stessa classe), ma che con l'aumento di orario coinvolgerà praticamente quasi tutto il corpo docente.
Non c'è solo un problema di orari e di costi (il tempo di spostamento tra un scuola e l'altra, benzina a usura dei mezzi privati, ecc), ma soprattutto di allentamento del rapporto tra docenti e istituto (con i colleghi, con gli studenti, con i genitori). In una parola: abbassamento della qualità.
Infine, l'elemento stipendiale non sembra davvero minimale: un aumento del 30% dell'orario "frontale" senza un corrispettivo monetario - rinviato a "quando la crisi sarà finita", probabilmente mai - è un insulto sanguinoso; specie dopo sei anni di blocco del rinnovo del contratto e di congelamento salariale che hanno già prodotto una perdita di potere d'acquisto nedia di 6.000 euro annuali a persona.

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