Potrebbe sembrare una questione locale, invece sta decisamente
debordando dai confini cittadini, per le implicazioni politiche che
porta con sé. Il 26 maggio 2013 i bolognesi dovranno esprimersi sul
seguente quesito:
Quale, fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie
comunali, che vengono erogate secondo il vigente sistema delle
convenzioni con le scuole di infanzia paritaria a gestione privata,
ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle
bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola
dell’infanzia?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private
Da un paio di settimane la battaglia referendaria sul finanziamento
comunale alle scuole paritarie private bolognesi è entrata nel vivo. Da
una parte sono schierati tutti i poteri forti cittadini, a difesa
dell’attuale sistema integrato pubblico-privato; dall’altra un comitato
referendario indipendente, senza mezzi e senza fondi, che però ha
prodotto un appello nazionale firmato da alcune delle più importanti
personalità italiane, tra cui Rodotà, Settis, Camilleri, Hack, Gallino
(e che tutti possono firmare qui).
La posta in gioco è un milione di euro che il comune di Bologna versa
ogni anno alle scuole paritarie private, cioè a 25 istituti di impronta
confessionale e a due istituti laici, tutti a pagamento, con rette che
vanno dai duecento ai mille euro al mese.
L’emergenza è rappresentata dall’esaurimento dei posti disponibili nella scuola pubblica. All’inizio di quest’anno scolastico, 423 bambini sono rimasti esclusi dalla scuola materna pubblica e il comune ha dovuto correre rocambolescamente ai ripari, senza riuscire a soddisfare le domande di tutti: 103 bambini sono rimasti comunque fuori, a fronte di 96 posti ancora disponibili nelle scuole paritarie private. Evidentemente si tratta di famiglie che non possono pagare le rette o non vogliono impartire ai propri figli un’educazione confessionale.
L’emergenza è rappresentata dall’esaurimento dei posti disponibili nella scuola pubblica. All’inizio di quest’anno scolastico, 423 bambini sono rimasti esclusi dalla scuola materna pubblica e il comune ha dovuto correre rocambolescamente ai ripari, senza riuscire a soddisfare le domande di tutti: 103 bambini sono rimasti comunque fuori, a fronte di 96 posti ancora disponibili nelle scuole paritarie private. Evidentemente si tratta di famiglie che non possono pagare le rette o non vogliono impartire ai propri figli un’educazione confessionale.
L’iniziativa dei referendari ha già ottenuto un primo risultato
pratico. Il comune insieme ai partiti della maggioranza consiliare, al
Movimento 5 stelle, ai sindacati confederali e all’Usb, ha inviato una
lettera a Roma per chiedere da parte dello stato più impegno, diretto o
indiretto, per le scuole bolognesi. Bologna infatti è la città dove il
coinvolgimento statale nella scuola è di gran lunga minore in rapporto a
quello comunale.
Questo atto congiunto non è stato pensato l’anno scorso, quando è
scoppiata l’emergenza materne, ma è cosa degli ultimi giorni,
conseguenza diretta della campagna referendaria. Per questo non è
difficile interpretarlo anche come un’azione strategica del comune per
depotenziare il referendum del 26 maggio, mostrando una tardiva
iperattività. Tuttavia la lettera chiede che, in alternativa a un
impegno diretto, lo stato “finanzi con risorse aggiuntive il comune,
perché possa proseguire il suo impegno”. Non è specificato però se il
comune vuole usare quei soldi statali per darli alla scuola pubblica o a
quella paritaria privata. Ne consegue che il valore del quesito
referendario non solo viene confermato, ma addirittura rafforzato dalla
lettera congiunta di politici e sindacalisti.
Manovra a tenaglia e partita truccata
L’ambiguità viene parzialmente sciolta dal partito di maggioranza, il
Pd, che si è mosso in parallelo, lanciando una propria petizione
cittadina.
La richiesta allo stato è di assumere “la gestione diretta di più
scuole dell’infanzia” oppure assicurare al comune “i fondi necessari
affinché possa proseguire il suo impegno” (più o meno le stesse parole
utilizzate nella lettera di cui sopra). In questo caso appare più chiaro
che secondo il Pd l’impegno del comune dovrebbe essere indirizzato al
mantenimento dello status quo. Si legge infatti in testa alla petizione:
“Un sistema integrato per dare risposta a tutte le famiglie”. Ancora
una volta quindi, non viene affermata la precedenza per la scuola della
costituzione, cioè quella pubblica, gratuita, pluralista e non
confessionale.
C’è poi una contraddizione della quale è ben difficile tacere: il Pd
ha appoggiato il governo Monti, quello che più di tutti, in Europa, ha
scaricato sull’istruzione pubblica i costi della crisi, con tagli
indiscriminati, a fronte di un aumento degli stanziamenti per la scuola
privata. Fa un po’ ridere che oggi gli stessi che predicavano tagli e
austerità affermino con voce stentorea: “Ora basta. Lo stato faccia la
sua parte”. Quando si sono lasciate scappare tutte le vacche dalla
stalla tenendo spalancata la porta, dopo si può sbarrarla con tutta la
forza che si vuole, ma la credibilità ne risente.
Intanto il Pd e gli amministratori, uniti nella lotta per l’opzione
B, iniziano un tour propagandistico per i quartieri di Bologna, in
difesa del sistema integrato. Il sindaco Virginio Merola, che per il suo
ruolo dovrebbe fare da garante e arbitro della contesa referendaria, ha
deciso di scendere in campo con la maglia di una delle due squadre, con
una bella B stampigliata sopra. Lo stesso farà l’assessore alla scuola.
Ci si abitua talmente a evocare i conflitti d’interessi altrui da non
vergognarsi più di mettere in mostra i propri. Così, mentre fa
propaganda per l’opzione B, il primo cittadino annuncia di volere
istituire soltanto 200 seggi, i quali – statistiche alla mano –
garantirebbero l’accesso al voto per meno del 40 per cento degli aventi
diritto. Se si considera che tanto una scarsa affluenza al voto quanto
la vittoria della B sono risultati utili per la compagine
politico-amministrativa del sindaco, il sospetto che si stia giocando
scorretto nasce spontaneo.
School connection
L’indizione di questo referendum ha anche il merito di portare alla
luce una connessione d’interessi politici ed economici trasversali. Per
rendersene conto è sufficiente osservare la composizione del tavolo alla
conferenza stampa di presentazione del comitato pro-B.
Come campione è stato scelto un personaggio di levatura nazionale, il
professor Stefano Zamagni (classe 1943), il cui curriculum parla da
solo. Docente di economia all’università di Bologna, già insegnante alla
Bocconi, presidente dell’Agenzia per il terzo settore, membro della New
York academy of science, nonché consulente del Pontificio consiglio
della giustizia e della pace, membro della Pontificia accademia delle
scienze sociali, già consulente di papa Benedetto XVI.
Al suo fianco in conferenza stampa, Walter Vitali, senatore del Pd,
due volte sindaco di Bologna negli anni novanta, e un paio di ex
assessori delle medesime giunte, ovvero i fautori del modello integrato
di scuola pubblico-privato, varato nel 1995.
A seguire, il segretario cittadino della Cisl; il presidente
nazionale di Federcultura-Confcooperative; l’ex prorettrice
dell’università.
Insomma, dietro allo stesso tavolo parlano con una sola voce la
burocrazia del partito di governo cittadino, i baroni universitari, le
cooperative bianche, il sindacato d’ispirazione cattolica.
Ciò che unisce questi apparati di potere è l’intesa che si produsse
tra ex comunisti ed ex democristiani a metà anni novanta, quando si
doveva formare l’Ulivo e dare avvio al percorso che anni dopo sarebbe
approdato alla nascita del Partito democratico. Il terreno di scambio fu
appunto la scuola, ovvero l’apertura al finanziamento pubblico alle
scuole private cattoliche. La convenzione venne infatti firmata con la
Federazione italiana scuole materne (cattoliche).
Poco dopo, le giunte Vitali si resero responsabili anche della
privatizzazione delle farmacie comunali, che portavano nelle casse
pubbliche due miliardi di vecchie lire all’anno. L’operazione fu
conclusa dopo che, nel 1997, un referendum consultivo era stato vinto
dai contrari alla privatizzazione, ma data la scarsa affluenza alle urne
(36 per cento), l’amministrazione tirò diritto e vendette le farmacie.
Curatore di quella dismissione fu un altro professore d’area cattolica,
l’allora assessore al bilancio Flavio Delbono, coautore insieme al
professor Zamagni di un manuale di economia.
Le giunte Vitali degli anni novanta, che giustificarono le proprie
politiche a colpi di “modernizzazione” e “superamento degli steccati
ideologici”, riuscirono nella non facile impresa di minare il più solido
sistema di welfare dell’Europa occidentale, costruito dalle giunte
rosse del dopoguerra, e di fare perdere alla sinistra il governo della
città dopo quarantacinque anni. Nel 1999 le elezioni amministrative
furono vinte da Giorgio Guazzaloca, già presidente dell’Associazione
commercianti di Bologna, appoggiato da Berlusconi.
Per rivincerle, cinque anni dopo, gli allora Democratici di sinistra
dovettero far precipitare in città un pezzo grosso, Sergio Cofferati,
che si rivelò una personalità decisamente fuori misura e del tutto
estranea al contesto locale, al punto da inimicarsi praticamente
chiunque e rinunciare a una ricandidatura. Quindi è stata la volta di
Flavio Delbono, ripescato per l’occasione dal Pd, a dimostrazione
dell’incapacità di uscire dalle secche del decennio precedente. Delbono è
durato poco più di sei mesi, dopodiché ha dovuto dimettersi travolto da
uno scandalo per uso improprio di fondi pubblici (“Cinziagate”), in
seguito al quale ha patteggiato la pena a un anno e otto mesi per
peculato, truffa aggravata, intralcio alla giustizia, induzione a
rilasciare false dichiarazioni, abuso d’ufficio. Questo con buona pace
del collega e amico Zamagni che aveva dichiarato: “Delbono è una persona
seria. Sono certo che non abbia utilizzato fondi pubblici per fini
privati” (intervista all’Unità, 17 giugno 2009).
A seguire: il lungo periodo di commissariamento affidato ad Anna
Maria Cancellieri, che in città si è guadagnata i galloni per diventare
ministro dell’interno del governo dei tecnocrati montiani. Infatti
Bologna è stata un laboratorio anche per la svolta “tecnica” del potere
esecutivo nazionale.
Alla fine di questa discesa libera, eccoci all’attuale sindaco,
Virginio Merola, che eredita il disastro politico di un ventennio e fa
quello che può con i mezzi che si ritrova, finendo a giocare una partita
che dovrebbe invece arbitrare.
Ecco chi sono gli sponsor dell’opzione B.
Insieme ovviamente al Popolo della libertà, alla Lega nord, alla curia e a Comunione e liberazione.
B-side
“È evidente che si tratta di persone malate di ideologismo”, ha
affermato il professor Zamagni in un’intervista, a proposito dei
promotori del referendum. E ha aggiunto che la motivazione ideologica
dei referendari sarebbe “ispirata a un laicismo che si sperava fosse
scomparso”.
È un vecchio trucco: spacciare per ideologia la rivendicazione di un
diritto, in questo caso quello alla scuola pubblica. La parola “diritto”
infatti non compare nemmeno una volta nel Manifesto a favore del
sistema pubblico integrato bolognese della scuola dell’infanzia,
promosso dal professor Zamagni.
Il motivo è semplice: i diritti o sono universali o non sono diritti;
e se sono universali allora possono essere esercitati solo superando
gli elementi di discriminazione, di esclusività, di privilegio. Ora,
fino a prova contraria, una scuola che applichi vincoli di censo o di
confessione religiosa non è una scuola inclusiva, ma esclusiva. È cioè
una scuola che non può riconoscere l’istruzione come diritto universale,
ma tutt’al più la libertà di scelta del modello d’istruzione che si
preferisce.
Nel loro manifesto infatti Zamagni & co. parlano di “libertà di
scelta educativa”, e con questo intendono dire che con le tasse di tutti
ognuno dovrebbe potersi finanziare l’educazione che vuole. Se
affermassimo questo principio dovremmo conseguentemente accettare di
finanziare qualunque tipo di scuola: non solo quelle cattoliche, quelle
steineriane, e perfino quelle che applicano rette salatissime – come già
avviene -, ma anche le eventuali scuole islamiche, quelle “padane”,
quelle laiciste, o quelle di qualsivoglia compagine sociale. In questo
modo, invece di una società basata sulla convivenza tra diversi
produrremmo una società a compartimenti stagni e nella quale alcune
categorie sociali (i benestanti, gli appartenenti a una data confessione
religiosa, eccetera) avrebbero il proprio welfare su misura, mentre i
poveri ne avrebbero un altro. È il modello di certi paesi anglosassoni,
dove quella pubblica è la scuola di chi non può permettersi una propria
scuola. Una scuola di serie… B, appunto.
In barba alla petizione del Pd, Zamagni non nasconde che sia proprio
questa la prospettiva: “Tutti sanno – anche i referendari – che le
risorse statali a favore delle scuole materne, e non solo, sono
destinate a diminuire. Proprio per questo, cosa fa il saggio
amministratore in questi casi? Cerca di siglare delle alleanze
strategiche con altri soggetti della società civile per accumulare una
quantità maggiore di risorse”.
Si dà insomma per scontato che la scuola pubblica verrà piano piano
abbandonata in favore di una sempre maggiore integrazione di quella
privata nel sistema pubblico. Significa che se l’istruzione sarà sempre
più a carico dei privati, chi potrà spendere di più avrà accesso a
scuole migliori. Ecco qual è il futuro che stanno preparando i paladini
dell’opzione B, mentre fanno firmare petizioni per chiedere l’intervento
dello stato. Tanto è vero che il loro refrain è che minacciare il
sistema integrato significa “mettere a repentaglio la possibilità di
assicurare a molti bambini la frequenza della scuola d’infanzia”
(Zamagni dixit). Purtroppo per i bambini e le loro famiglie, invece, è
l’attuale sistema integrato che non garantisce più il diritto alla
scuola per tutti, dato che i posti alla scuola pubblica bolognese non
sono più sufficienti a soddisfare la domanda, mentre nella scuola
privata paritaria i posti avanzano. Preannunciare catastrofiche
conseguenze nel caso di vittoria dell’opzione A, serve a nascondere il
fatto che il sistema che si vuole difendere ha già clamorosamente
fallito il suo obiettivo.
La srà dûra!
All’accusa di ideologismo di Zamagni si è aggiunta quella dell’ex
sindaco Vitali, che ha tacciato i sostenitori dell’opzione A di
“statalismo”, perché vorrebbero tornare alla gestione interamente
pubblica della scuola pubblica.
Viene da chiedersi cosa ci sia di più statalista della sussidiarietà
orizzontale, cioè del modello d’istruzione integrato pubblico/privato. A
guardare bene non è niente di nuovo, è il buon vecchio assistenzialismo
statale all’impresa privata che questo paese conosce bene. Perfino le
forme ricattatorie sono le stesse: i sostenitori dell’opzione B
affermano che senza i contributi comunali, le scuole private paritarie
sarebbero costrette ad aumentare le rette, quindi perderebbero
iscrizioni. Come a dire: o mi sovvenzioni o metto la gente (anzi, i
bambini) in mezzo alla strada.
Neanche a dirlo, la rete di clientele politiche ed economiche
mobilitata per difendere la school connection è estesissima. Si va dalle
cooperative – bianche e rosse – alle baronie universitarie; dalle
gerarchie sindacali alla burocrazia di partito; dalle parrocchie alla
associazioni che vivono di sovvenzioni e finanziamenti comunali. Il
sistema di potere cittadino sta muovendo le corazzate per schiacciare
l’ipotesi di un cambiamento di rotta riguardo alla scuola per
l’infanzia.
Sarà dura per i referendari, che possono contare soltanto sulle
proprie forze. Eppure questa battaglia, apparentemente folle,
clamorosamente impari, merita d’essere premiata con tutta l’attenzione
anche da fuori città. Comunque andrà a finire, infatti, sarà un piccolo
grande esempio di come sia possibile sfidare dal basso il potere sul
terreno degli interessi comuni, mettendone in risalto i compromessi e le
ambiguità.
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