Un comunista sindaco di Milano, un magistrato sindaco di Napoli, il G8 con figuraccia, i referendum alle porte con quell’Annozero micidiale e quel Celentano che è quasi suo coetaneo e sembra suo nipote, ma soprattutto quel Ferrara che non si leva di torno portando una sfiga terrificante, e poi Tremonti che fa la fronda, Bossi che gli dà del “bollito” (senti chi parla), i Responsabili che si ripresentano alla cassa.
Non bastando la politica, ci si mette pure la cronaca. Per esempio il cetriolo che si aggira per l’Europa e da qualche parte dovrà pure infilarsi: ecco, una metafora così sinistra era difficile immaginarla. Se aggiungiamo che le vittime della truffa Aiazzone si mettono d’accordo per recuperare il maltolto con una rapina proletaria, e presto De Benedetti potrebbe fare altrettanto a 22 anni dallo scippo della Mondadori, il presepe è completo.
L’unica consolazione viene da D’Alema, che è sempre un amore. Lui non tradisce mai: appena B. zoppica un pochino, si precipita subito al salvamento. Gli amici si vedono nel momento del bisogno. Lungi dall’invocare le dimissioni del governo, come un banale oppositore qualsiasi, l’amico Max propone su Repubblica un bel governissimo con dentro tutti per fare “le grandi riforme insieme”. Un classico della commedia all’italiana. Ma stavolta l’appello cade in acqua, lo ignora persino Latorre.
Fortuna che c’è il "Pompiere della Sera", che per 17 anni ha finto di non vedere e capire, invocando al massimo il ritorno a una mitologica “rivoluzione liberale”, ovviamente mai esistita come il regno di Saturno e l’età dell’oro. L’altro giorno, all’improvviso, tomo tomo cacchio cacchio, Ernesto Galli della Loggia ha scoperto che il Pdl ha un padrone: “È stata l’obbedienza – pronta cieca e assoluta – il veleno che ha ucciso il Pdl. O meglio che, inoculato nel suo corpo fin dall’inizio, fin dall’inizio gli ha impedito di esistere veramente come partito. Bisognava obbedire a B.: dargli sempre ragione, o perlomeno non azzardarsi mai a criticarlo”. Anche perché – rivela l’acuto politologo – “i voti alla fine li portava solo lui: con i suoi soldi, le sue televisioni, il suo carisma” (e quell’accenno alle tv getterà nel più cupo sconforto il povero Pigi Battista, ancora convinto che non portino voti).
Oh bella, ci mancherebbe altro. Con tutti i soldi che ha tirato fuori quel pover’ometto per mantenere la corte dei miracoli e dei miracolati, ci mancherebbe pure che quelli non gli obbediscano. Lo sanno anche in Papuasia che, senza i soldi, le tv, i giornali, Mediolanum, Medusa, le quote in Mediobanca e dunque nel Corriere, il Cainano bollito sarebbe già stato deposto e tradotto nel più vicino cronicario, o penitenziario. È dal dicembre ‘94, quando Bossi rovesciò il primo governo del “mafioso di Arcore”, che ogni due per tre si apre l’appassionante dibattito sulla successione. I cimiteri nazionali sono pieni di suoi “eredi”: da Fazio a Dini, da Casini a Fini, da Montezemolo a Maroni, da Monti a Tremonti.
Ora siamo ad Alfano, la comica finale: l’unico segretario di partito al mondo non eletto da un congresso, ma investito da un padrone. Eppure Angelino viene preso molto sul serio, almeno dal Pompiere. Verderami scrive che “da oggi Alfano non è più sotto la tutela di Berlusconi” (ma certo, come no, e chi l’avrà mai nominato?). Galli della Loggia invita i berluscones ad “alzare la testa, cominciare a disobbedire, provare a esistere politicamente. Le primarie possono essere uno strumento. Altri se ne possono trovare. Ma ciò che oggi è decisivo è una cosa soprattutto: che imparino a disobbedire. Anche ad Alfano, se necessario”. Già ci pare di vederli Cicchitto, Capezzone, Gasparri, Bonaiuti, Bondi, Verdini, Gelmini e naturalmente Alfano che gliele cantano chiare e gli contendono la leadership alle primarie.
Non bastando la politica, ci si mette pure la cronaca. Per esempio il cetriolo che si aggira per l’Europa e da qualche parte dovrà pure infilarsi: ecco, una metafora così sinistra era difficile immaginarla. Se aggiungiamo che le vittime della truffa Aiazzone si mettono d’accordo per recuperare il maltolto con una rapina proletaria, e presto De Benedetti potrebbe fare altrettanto a 22 anni dallo scippo della Mondadori, il presepe è completo.
L’unica consolazione viene da D’Alema, che è sempre un amore. Lui non tradisce mai: appena B. zoppica un pochino, si precipita subito al salvamento. Gli amici si vedono nel momento del bisogno. Lungi dall’invocare le dimissioni del governo, come un banale oppositore qualsiasi, l’amico Max propone su Repubblica un bel governissimo con dentro tutti per fare “le grandi riforme insieme”. Un classico della commedia all’italiana. Ma stavolta l’appello cade in acqua, lo ignora persino Latorre.
Fortuna che c’è il "Pompiere della Sera", che per 17 anni ha finto di non vedere e capire, invocando al massimo il ritorno a una mitologica “rivoluzione liberale”, ovviamente mai esistita come il regno di Saturno e l’età dell’oro. L’altro giorno, all’improvviso, tomo tomo cacchio cacchio, Ernesto Galli della Loggia ha scoperto che il Pdl ha un padrone: “È stata l’obbedienza – pronta cieca e assoluta – il veleno che ha ucciso il Pdl. O meglio che, inoculato nel suo corpo fin dall’inizio, fin dall’inizio gli ha impedito di esistere veramente come partito. Bisognava obbedire a B.: dargli sempre ragione, o perlomeno non azzardarsi mai a criticarlo”. Anche perché – rivela l’acuto politologo – “i voti alla fine li portava solo lui: con i suoi soldi, le sue televisioni, il suo carisma” (e quell’accenno alle tv getterà nel più cupo sconforto il povero Pigi Battista, ancora convinto che non portino voti).
Oh bella, ci mancherebbe altro. Con tutti i soldi che ha tirato fuori quel pover’ometto per mantenere la corte dei miracoli e dei miracolati, ci mancherebbe pure che quelli non gli obbediscano. Lo sanno anche in Papuasia che, senza i soldi, le tv, i giornali, Mediolanum, Medusa, le quote in Mediobanca e dunque nel Corriere, il Cainano bollito sarebbe già stato deposto e tradotto nel più vicino cronicario, o penitenziario. È dal dicembre ‘94, quando Bossi rovesciò il primo governo del “mafioso di Arcore”, che ogni due per tre si apre l’appassionante dibattito sulla successione. I cimiteri nazionali sono pieni di suoi “eredi”: da Fazio a Dini, da Casini a Fini, da Montezemolo a Maroni, da Monti a Tremonti.
Ora siamo ad Alfano, la comica finale: l’unico segretario di partito al mondo non eletto da un congresso, ma investito da un padrone. Eppure Angelino viene preso molto sul serio, almeno dal Pompiere. Verderami scrive che “da oggi Alfano non è più sotto la tutela di Berlusconi” (ma certo, come no, e chi l’avrà mai nominato?). Galli della Loggia invita i berluscones ad “alzare la testa, cominciare a disobbedire, provare a esistere politicamente. Le primarie possono essere uno strumento. Altri se ne possono trovare. Ma ciò che oggi è decisivo è una cosa soprattutto: che imparino a disobbedire. Anche ad Alfano, se necessario”. Già ci pare di vederli Cicchitto, Capezzone, Gasparri, Bonaiuti, Bondi, Verdini, Gelmini e naturalmente Alfano che gliele cantano chiare e gli contendono la leadership alle primarie.
La rivolta di Spartacus. Poi, si capisce, tutti all’Olgettina dal ragionier Spinelli col cappello in mano.
Marco travaglio, Il Fatto quotidiano
Marco travaglio, Il Fatto quotidiano
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