domenica 27 ottobre 2013

DILUVIO DI LIQUIDITÀ politiche monetarie, rally di borsa e nuove bolle di Francesco Schettino, La Contraddizione






1. Un paradosso apparente

Se si volesse delineare sinteticamente la condizione in cui versa il capitale mondiale in questo periodo, probabilmente l’immagine che maggiormente potrebbe essere d’ausilio per interpretare il comportamento dei principali indicatori economici sarebbe quella del paradosso, anche se solo apparente. Sono ormai mesi, e lo abbiamo adeguatamente riportato e dettagliato nei precedenti numeri di questa rivista, che diverse grandezze si stanno stabilizzando su un andamento divergente rispetto a quello che “normalmente” sarebbe ragionevole attendersi, sovvertendo talvolta anche i più triviali meccanismi relazionali. Tale ineffabile condotta, per quanto, da una parte, possa permettere la ripresa dell’accumula­zione per singoli capitali, d’altro canto, essendo generata dall’incedere contraddittorio della crisi del capitale, sta ponendo le basi per un futuro, e neanche troppo lontano, pesante aggravamento della condizione del capitale mondiale, inteso nella sua unicità.
Nel numero passato di questa rivista – chiuso giusto al ridosso dell’esito precario della tornata elettorale per il parlamento italiano – tentavamo già di offrire un quadro interpretativo dell’umore degli agenti del capitale: l’incertezza e l’an­goscia di un rischio imminente ci apparivano allora come le sensazioni prevalenti al­l’interno della classe dominante, dovute sia al presumibile esito senza vincitori delle elezioni italiane, sia ad una strana euforia di borsa che andava in direzione diametralmente opposta a quella che l’accumulazione reale – e pertanto anche il livello di occupazione – continua a tracciare da ormai più di cinque anni: dapprima, la crisi di Cipro è sembrata essere l’innesco di una detonazione che avrebbe potuto davvero far male a molti, salvo poi ridimensionarne le potenzialità a causa della sua svelata specificità di paradiso fiscale in cui il riciclaggio russo la fa da padrone.
Tuttavia, forse più di allora, tale schizofrenia inizia ad assumere dei connotati estremamente allarmanti e, finalmente, anche gli analisti di borsa – braccio fidato del capitale – iniziano a comprendere che la situazione è quasi del tutto compromessa: se ad un alieno capitasse di essere catapultato oggi per la prima volta sulla terra e si trovasse dinanzi ad un qualsivoglia periodico finanziario, avendo così la possibilità di apprendere gli andamenti degli indici azionari dei paesi imperialisti degli ultimi mesi, questi non avrebbe alcun dubbio nell’affer­mare che il capitale mondiale stia vivendo uno dei suoi momenti più floridi e che semmai ci sia stata una fase di crisi essa deve essere appartenuta ad un passato ormai assolutamente remoto. E invece, come purtroppo sanno quelli che vivono della materialissima alienazione quotidiana della propria forza-lavoro ai proprietari delle condizioni oggettive di produzione, le cose non stanno affatto così visto che, in particolare nell’area dell’euro, la disoccupazione continua a correre, specie nella fascia dei lavoratori più giovani; il 2013 – ora lo si può dire, dopo le finzioni benauguranti dei discorsi di fine 2012 – sarà un anno di recessione generalizzata, particolarmente acuta nei paesi del sud del continente e, al di là di proclami destinati semplicemente ad alimentare vane speranze, già ridotte al lumicino, della classe subalterna “in sonno”, anche l’anno prossimo sembra incanalarsi nuovamente sulla triste china a cui ormai siamo purtroppo abituati.



2. Capitale bipolare

Provoca certamente rabbia vedere gruppi di broker finanziari festanti, brindare ai record raggiunti ormai quotidianamente dalle borse di mezzo mondo, specie se si raffrontano tali stoltezze iconografiche con le contemporanee notizie drammatiche scaturenti da una disoccupazione ormai giunta ai massimi livelli: persino negli Stati uniti – che, ripetiamo, oltre ad esser stati l’epicentro del magnifico crollo di fine 2008, ancora rappresentano l’area al mondo alle prese con le maggiori difficoltà – gli stessi agenti del capitale, che erano in preda a vere e proprie crisi di panico nei mesi subito successivi al fallimento pilotato di Lehman bros [Lb], in queste settimane trovano il coraggio di indossare magliette e cappellini inneggianti ai nuovi volumi di “affari” raggiunti sui mercati locali del capitale fittizio. È quanto mai probabile che questo tipo di atteggiamento sia frutto della specifica schizofrenia del capitale che li comanda, ma, al di là di tale esteriorizzazione, che solo con una buona dose di eufemismo può essere definita folcloristica, è significativo tentare di sviscerare le ragioni che si trovano alle fondamenta di questo inatteso e, solo apparentemente, anomalo andamento.
Seguendo alla lettera una litania ben nota a Wall Street (sell in may and go away), la prima metà del mese di maggio dell’anno corrente ha visto gli operatori del capitale speculativo abbandonare ogni remora, immergendosi in un volume di “affari” che, se da una parte trova pochi precedenti anche prima del crollo di Lb, dall’altra ha permesso a molte piazze finanziare di superare alcune soglie (cosiddette psicologiche) ottenendo dei risultati che, innegabilmente, rimarranno nella storia: l’abbondante utilizzo del termine rally, ormai patrimonio non più esclusivo della stampa specializzata, rappresenta proprio questa serie di movimenti che, in poche settimane, ha traghettato la borsa di Francoforte a superare gli 8.200 punti [Dax] già nei primi giorni di maggio, i 15.000 negli Usa [Dow Jones], ad uno stato euforico sui listini nipponici, oltre ad aver garantito alla gran parte delle piazze finanziare profitti particolarmente soddisfacenti, aggiungendo nuovi tasselli alla scia di performance che dall’inizio dell’anno si è stabilizzata in territorio nettamente positivo.
Analogo comportamento è stato osservato persino nell’asta dei titoli di stato che, nel biennio 2010-2011, invece, specie nel caso dei piigs, venivano descritti più o meno come spazzatura con grado massimo di insolvenza e, per questo, vulnus dell’intero sistema del capitale, in quanto rappresentazione del più ampio debito pubblico di paesi sull’orlo del default. Se l’acquisto dei Bund tedeschi, in realtà, ha mostrato tutt’altro che una flessione negli ultimi cinque anni – percorrendo, per ovvie ragioni, un andamento anticiclico proprio in luogo delle crisi più acute del debito dei piigs e garantendo, pertanto proprio per questa ragione, un afflusso di capitale estero, più che significativo, nelle casse tedesche – e se quella dei Treasury statunitensi è in ripresa da tempo, ciò che maggiormente stupisce è la domanda significativa di Bonos spagnoli, dei Btp italiani, dei titoli portoghesi e ... persino di quelli greci il cui rendimento, proprio per l’eccesso di richieste, si è ridotto in una settimana dell’1%: probabilmente anche per questa ragione Fitch ha “resuscitato” il rating dei titoli ellenici da un mortifero c ad un indecente bbb-. Tutti i politicanti, alfieri dell’austerity, non attendevano altro per accreditarsi dinanzi ai proletari massacrati nei mesi passati con l’alibi di dover stabilizzare i conti dissestati: e così si è costretti ad ascoltare persino le dichiarazioni trionfanti dei rappresentanti del governo greco rivendicanti la rettitudine delle loro manovre che in pochi anni hanno fatto della società ellenica un cumulo di macerie garantita dal braccio autoritario e violento del capitale, Alba dorata.
Oltretutto, la questione, già intrisa di sospetti, diviene ancora più preoccupante se si osserva che l’assalto ai titoli di stato non si è limitato a quelli emessi da paesi che, almeno prima del 2008, si erano dimostrati essere sufficientemente solventi; quel che più colpisce è che questa mostruosa richiesta è stata rivolta persino ai paesi meno stabili del continente africano. In Ruanda, ad esempio, la recente emissione di titoli ha ricevuto una clamorosa over-subscription: ciò vuol dire che il volume della domanda per l’acquisto dei titoli del debito pubblico ruandese è stato di ben otto volte superiore rispetto all’offerta, nonostante i tassi di rendimento non fossero particolarmente alti, da rendere ragionevole l’accollo di un rischio così significativo; se si considera che il tasso di rendimento è persino più basso rispetto a quello offerto dagli omologhi italiani sino a qualche mese fa, ci si rende conto dell’entità dell’anomalia. Da questo punto di vista sembra opportuno sottolineare come questi titoli, con scadenza a 10 anni, siano stati emessi in valuta straniera (dollari Usa), riproponendo, sebbene su scala per ora inferiore, quel meccanismo adottato in diversi paesi latinoamericani (Argentina in primis) tra la fine degli anni ottanta ed il decennio successivo, che ha reso praticamente impossibile la restituzione di tale debito contratto in valuta “forte”, divenendo così una delle cause principali del conseguente default.
Poiché i dati apparentemente positivi che dovrebbero trainare questa euforia si limitano a quelli sulla disoccupazione Usa – le cui risultanze sembrerebbero essere timidamente positive (nel mese di aprile ci sarebbe stato un calo dello 0,1%) –, a quelli del Pil tedesco (anch’esso cresciuto su base annua di un impercettibile 0,1%) e a quelli inerenti la produzione industriale olandese e di pochi paesi nordeuropei rispetto allo stesso mese del 2012, allora il dubbio si gonfia a dismisura. Infatti, a questi striminziti segnali di presunta vitalità, si contrappone una serie di tragedie macroeconomiche che non sembrano prevedere rallentamenti nel futuro più prossimo: in Europa, complessivamente la contrazione dell’indice di produzione industriale è stato prossimo al 2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; in Italia, per il settimo trimestre consecutivo lo stesso indicatore è crollato (-5,2%), mentre in Spagna, Portogallo, Germania (-1,7%); la Francia (-1,6%), paese ormai entrato di diritto nel club dei paesi in recessione tecnica, ha registrato una riduzione del Pil per il secondo trimestre consecutivo: da questo punto di vista, comunque, il paese transalpino si trova in ottima compagnia, già che la contrazione media dell’eurozona è pari all’1% e oltre agli scarni risultati tedeschi solo i nord europei forniscono dati positivi.
Chiaramente, a questo stillicidio di numeri negativi corrispondono analoghi drammi dal punto di vista della disoccupazione che in tutto il continente continua a crescere sensibilmente, raggiungendo quasi un quarto nel totale della forza-lavoro, con punte nettamente superiori al 50% come in Grecia per quel che riguarda la fascia di età inferiore ai 34 anni; per di più, se si indaga più nel dettaglio, i dati citati in precedenza relativamente all’occupazione Usa sono prevalentemente attribuibili ad una diminuzione della forza lavoro attiva con un conseguente ed inevitabile riduzione, seppur minima, della disoccupazione: quindi, in realtà, il numero degli occupati è restato del tutto identico, con buona pace dei fantomatici nuovi 165.000 posti di lavoro millantati dagli equilibristi dell’e­conomia di casa Usa.

3. Spazzatura aurea

Un andamento dei titoli azionari così sostenuto, in generale, può essere giustificato da due fenomeni alternativi e del tutto divergenti: da situazioni di accumulazione netta strettamente positiva e diffusa a livello mondiale (o almeno da uno scenario presumibilmente migliorativo), questione che spinge i valori delle azioni presenti in borsa a crescere di una misura simile; dalla condizione opposta, ossia nelle fasi più acute della crisi da sovrapproduzione, quando una pletora di capitale monetario accumulatasi nelle mani della classe dominante, individua nel giuoco di borsa l’unica possibilità per autovalorizzarsi attraverso il profitto (senza passare per merce e plusvalore), tramutandosi in pianta stabile in capitale fittizio; in assenza, dunque, di accumulazione crescente, il risultato più ovvio è che, a livello più ampio, un miglioramento sostenuto dei valori dei titoli di borsa non fa altro che rigonfiare bolle speculative in ragione geometrica.
Anche gli apologeti più servili del modo di produzione del capitale – che ideologicamente continuano a chiamare “economia di mercato” come se il mercato fosse una fattispecie esclusiva del capitalismo – in questo momento non se la sentirebbero di sostenere che l’accumulazione mondiale stia procedendo a gonfie vele: persino la Repubblica popolare cinese, locomotiva del capitale mondiale almeno dell’ultimo decennio, nel 2012 ha osservato un aumento del pil inferiore all’8%, soglia che, secondo molti, rappresenta il limite al di sotto del quale la Cina diviene permeabile ad eventuali rivolte sociali potenzialmente destabilizzanti. Scartata pertanto la possibilità che i rally di borsa siano indotti da una esaltante produzione e circolazione di neovalore a livello mondiale, quella del violento rigonfiamento di una immensa bolla speculativa – conseguenza e, pertanto, non causa della crisi di accumulazione – resta l’ipotesi più agghiacciante e al tempo stesso più conforme alla realtà.
Un esempio su tutti può fornire un’adeguata rappresentazione di ciò che sta avvenendo sui mercati finanziari internazionali. Certamente tutti ricordano la bolla legata ai derivati sui mutui subprime, ossia quei pacchetti azionari-immon­dizia che già dal 2006 furono messi in circolazione, con l’approvazione colpevole delle agenzie di rating, ma che erano minati alle fondamenta da una più che certa insolvenza da parte dei debitori, quei soggetti statunitensi che, privi di ogni tipo di garanzia (lavoro stabile, proprietà ecc.), avevano preso a prestito cifre ingenti per l’acquisto di immobili che, dopo l’esplosione della bolla di fine 2008, avrebbero inevitabilmente perso in quanto insolvibili. Uno tra quei tanti bond era denominato Mabs 2006-Fre1 ed era uno strumento costruito su mutui subprime di circa duemila persone (che, come previsto, in gran parte non avrebbero restituito le somme contrattate) il cui valore, già a fine 2008 era giunto, per ovvie ragioni, ad una cifra praticamente nulla: ma come questo, una miriade di strumenti simili erano stati venduti in ogni parte del mondo – proprio perché dotati di una buona valutazione rilasciata dalle agenzie di rating – lasciando nelle mani degli acquirenti ciò che si rivelò essere un pugno di mosche quando, alla fine del 2008, il giuoco veniva svelato e l’immensa bolla iniziò a detonare.
Ebbene, ciò che spaventa di più, è che, dopo un quinquennio di crisi pesantissima, di rassicurazioni da parte dei rappresentanti istituzionali che i comportamenti “dissoluti” svolti nel decennio precedente il crollo di Lb non si sarebbero più verificati, all’inizio del 2013 un fondo speculativo del Colorado ha avuto il coraggio di acquistare proprio il “maledetto” Mabs 2006-Fre1, nonostante il tasso di insolvenza di chi contratta questi mutui sia salito al 57%; perdipiù, è importante sottolineare come tale scelta non sia stata frutto di una scellerata strategia suicida, in quanto non pochi operatori hanno messo gli occhi sul titolo, dacché la sua valutazione di mercato si è più che raddoppiata in poco meno di cinque mesi. È questo uno dei tanti casi in cui la realtà soverchia nettamente ogni tipo di immaginazione e, ci racconta che, come dieci anni fa, anche la “spazzatura è divenuta oro” [vedi anche W.Riolfi, sole24ore, 8.5.2013].
La questione di maggior rilievo è che, il caso appena descritto, non è affatto sporadico: dall’inizio del­l’anno corrente, infatti, il volume delle emissioni dei cosiddetti “titoli-spazzatura” (trash-bonds, vedi anche no.129) ha superato quello del biennio 2006-2007, periodo di maggior rigonfiamento della bolla speculativa, esplosa solo qualche mese dopo. Pertanto, non sorprendono, ma al tempo stesso devono far riflettere, le recenti dichiarazioni di importanti agenti del capitale come Warren Buffett per cui “le obbligazioni sono ora un terribile investimento; quando le cose cambieranno, la gente perderà un mucchio di denaro”; oppure quelle di Mohamed El-Erian (direttore generale della Pimco, uno dei più grandi fondi di investimento al mondo) per cui “quest’onda finirà prima o poi per infrangersi”: individuarne le modalità e le conseguenze, al momento, data l’importanza qualitativa che il fenomeno sta assumendo, è cosa ardua.

4. Inondazione di liquidità

“Le nuove regole del giuoco” a cui gli agenti di borsa (non tutti consapevoli) si appellano per giustificare tale comportamento, di certo contraddittorio per le sorti del sistema, sono null’altro che le ferree ed immanenti leggi del capitale. La sovrapproduzione di capitale altro non è che sovraccumulazione di capitale: impossibilitati nella produzione di plusvalore e, per questo, liberati dalla produzione di merci, questi agenti sono costretti a proiettarsi nella speculazione nel tentativo di usurpare quote di profitto ai fratelli nemici. È l’incedere stesso della crisi, e dunque la riduzione tendenziale del saggio di profitto, da una parte a favorire fenomeni di concentrazione, dall’altro a creare quella massa di capitale monetario che viene liberata dalla produzione di merce ma che, proprio perché capitale, ha il dovere di autovalorizzarsi accedendo prevalentemente ai mercati borsistici: “la crescente concentrazione non appena abbia raggiunto un certo livello, provoca una nuova diminuzione del saggio del profitto.
La massa dei piccoli capitali frantumati viene così trascinata sulla via delle avventure: speculazione, imbrogli creditizi ed azionari, crisi. Quando si parla di pletora di capitale ci si riferisce sempre o quasi sempre, in sostanza, alla pletora di capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è compensata dalla sua massa – e questo avviene sempre nel caso di nuovi capitali di formazione derivata – oppure alla pletora che questi capitali, incapaci di funzionare da soli, mettono a disposizione dei dirigenti delle grandi industrie sotto forma di credito. Questa pletora di capitale viene determinata dalle stesse circostanze che generano una sovrappopolazione relativa e ne costituisce quindi una manifestazione complementare, quantunque i due fenomeni si trovino ai poli opposti, capitale inutilizzato da un lato e popolazione operaia inutilizzata dall’altro” [Marx, C,iii, 15].
La pletora di capitale (monetario), che è cresciuta a dismisura con l’incedere dell’ultima crisi capitalistica – al pari della “liberazione” di forza-lavoro, a testimonianza della gravità della situazione – è pertanto frutto endemico della crisi; essa, già presa isolatamente, riesce a spiegare una buona parte dell’impres­sionante volume delle operazioni del capitale fittizio mondiale sia precedenti che successive alla fine del 2008: l’eccesso di capitale ha iniziato ad accrescersi già dagli inizi degli anni settanta, quando proprio l’accumulazione mondiale è entrata in crisi, espandendo i suoi tentacoli mortiferi in molte aree del mondo (sudest asiatico, sud america, paesi ex sovietici ecc.). Tuttavia, come abbiamo già più volte sottolineato in passato, nell’ultimo quadriennio un’ulteriore e mastodontica iniezione di liquidità, con l’obiettivo di contrastare l’ipotetico credit crunch (stretta creditizia), ha estremizzato tale fenomeno e reso, ovviamente, più devastanti, per ora almeno in potenza, le sue conseguenze.
Una stima quantitativa della montagna di liquidità in eccesso e presente sul mercato mondiale, in quanto capitale fittizio, è praticamente impossibile da fare: gli “addetti ai lavori” parlano di alcune migliaia di miliardi di euro, sebbene in molti reputino tale volume sottostimato rispetto a quello reale. Del resto è dagli ultimi mesi del 2008 che i cosiddetti quantitative easing (alleggerimento quantitativo, qe) vengono promossi ormai in ogni parte del mondo: questo stru­mento di politica monetaria (espansiva), in sintesi, consiste nella creazione di una nuova quantità di moneta liquida stampata dall’autorità locale che, per ovvii motivi, viene data in prestito a tassi molto bassi – e pertanto vantaggiosi – a imprese che, teoricamente, dovrebbero essere colpite dal credit crunch, essendo escluse dai consueti canali di finanziamento (prevalentemente quello bancario o obbligazionario).
Essendo il capitale più inguaiato quello legato al dollaro, ad iniziare questa danza (potenzialmente) suicida delle iniezioni di liquidità, è stata ovviamente la Federal reserve [Fed] che decideva di stampare ben 1700 mrd $ ex novo, già agli inizi del 2009, per tentare di tamponare una situazione a dir poco drammatica, preparando il terreno per lo spostamento dell’epicentro della crisi nei territori del capitale legato all’euro, suo principale antagonista, cosa che si sarebbe concretizzata in poco più di due anni in pianta stabile. In contemporanea, la Banca d’Inghilterra, sempre più allineata alle scelte politiche ed economiche della sua vecchia colonia, procedeva nell’acquisto di titoli potenzialmente tossici per un importo pari a circa 300 mrd €, per mezzo di sterline, anch’esse, appena sfornate dalla zecca di stato. La situazione era però talmente grave che Bernanke dovette ricorrere, solo qualche mese dopo alla seconda tranche, immettendo altri 600 mrd $ (qe ii), a cui corrispondeva un’analoga manovra in territorio britannico, sebbene di importo nettamente inferiore. La Banca centrale europea, nel frattempo, vittima delle sue stesse regole – improntate sul controllo del livello dei prezzi – non aveva la possibilità normativa di replicare a tali metodi aggressivi e divenne così la vittima sacrificale degli attacchi speculativi che ne seguirono e che acutizzarono, in maniera quasi mortale, le crisi del debito dei piigs che ancora viviamo [cfr. no.131].
Già nei numeri passati [in particolare no.135] di questa rivista sottolineavamo come la maggior parte di questa nuova immensa liquidità fosse destinata principalmente all’acquisto di nuovi strumenti derivati di natura speculativa: affossata, de facto l’approvazione della legge Dodd-Frank – che nella propaganda usamerikana avrebbe dovuto dare nuove regole ai mercati finanziari in quanto colpevoli, secondo la propaganda di classe, della crisi – già dal 2011, le cose si incanalavano su un pericoloso piano inclinato per il capitale mondiale.  Scrivevamo allora : “"la musica è ripresa, con la stessa orchestra e gli stessi direttori di prima" [sole24ore, 26.4.2011] e, con un giuoco di prestigio, i sacrificati sub­prime, con i loro pacchetti di riferimento, sono stati immediatamente soppiantati da quelli sintetici – etf [exchange trade fund], cov-light e abs [asset backed security] in particolare – che hanno un rischio estremamente elevato, non essendo in maniera assoluta ancorati ad alcun valore materiale. Tra i tre "prodotti" finanziari, quelli che hanno determinato maggiore timore a tutti i livelli, sono certamente gli etf, su cui persino Draghi, in veste di presidente del Fsb, ha espresso un giudizio netto, definendoli inquietanti, sebbene siano apparentemente innocui”.
“Il campanello di allarme è arrivato nel momento in cui il volume di questi titoli ha raggiunto la cifra astronomica di 1300 mrd $ in tutto il mondo, di cui solo 1000 mrd $ sono di proprietà statunitense. In maniera meno diplomatica anche altri sedicenti analisti di mercato hanno segnalato il potenziale pericolo: tra questi, il presidente di Harch capital managment e del capo ricercatore per gli etf europei di Morningstars a cui appare molto improbabile che esistano titoli sufficienti per tutti i titoli derivati sugli etf che circolano: in poche parole, molti analisti hanno dovuto ammettere che si sta costruendo un sistema di scatole cinesi molto simile a quello che tra il 2007 ed il 2008 ha determinato il crollo di numerosi istituti finanziari Usa e delle aziende ad essi, in qualche modo, collegate: e sono proprio loro a dire che se ci sarà un secondo crollo, esso comporterà conseguenze di gran lunga più dolorose di quelle che i lavoratori in primis hanno dovuto subire negli ultimi tre anni.
Oltre a queste "sospette" transazioni, ci sono i prestiti istituzionali concessi senza vincoli (e dunque senza alcuna garanzia del mutuante), i cosiddetti cov-light, che, nel primo trimestre del 2011, hanno raggiunto i 25 mrd $, rappresentando il 24% del totale e che, in valore assoluto, superano di ben cinque volte l’entità rilevata nello stesso periodo dell’anno precedente. Infine, sul banco degli imputati sono finiti anche gli abs, strumenti finanziari strutturati che hanno un elevato rischio e sono legati a categoria di debito a bassa qualità (ossia vengono contratti da soggetti la cui solvibilità è infima) e si differenziano dai sub­prime perché legati non già agli immobili, bensì all’acquisto di automobili: 18 mrd $ è il valore nel primo trimestre del 2011, ma già l’Ally Bank e il Banco di Santander hanno annunciato ulteriori operazioni rispettivamente di 2,9 mrd $ e di 784 mln $ rispettivamente. A questo va aggiunto, come ricorda l’Hedge fund research, che il denaro amministrato dai fondi speculativi ha persino superato il massimo toccato a giugno del 2008, raggiungendo la cifra astronomica di 2000 mrd $ solo negli Usa”.

5. Conflittualità fratricida

È del tutto comprensibile che una situazione così compromessa in ogni suo aspetto, induca i principali attori di una lotta intra-classista ad assumere dei comportamenti del tutto contraddittori per le sorti del sistema nel suo complesso: ad una più che evidente opportunità di procedere ad una sterilizzazione dei mercati finanziari – ossia una riduzione, anziché aumento, della liquidità in circolazione, per tentare di “sgonfiare” le bolle già esistenti – si contrappone tuttavia la necessità, di capitali legati a valute diverse, di replicare colpo su colpo alle offensive sempre più profonde che la lotta fratricida prevede, soprattutto in una fase di crisi così avanzata.
Gli attacchi speculativi ribassisti (reali o potenziali), provenienti principalmente da oltreoceano – che a partire dall’inizio del 2010, e per almeno un biennio, hanno messo in ginocchio i paesi del sud del continente europeo – hanno costretto le istituzioni preposte alla tutela del capitale legato all’euro ad intervenire inducendole a forzare persino l’impianto normativo, apparentemente inviolabile, che aveva istituito la Bce. L’ormai celeberrima dichiarazione di Draghi di fine 2012, con cui sostenne che l’euro era irreversibile, avendo asserito che si sarebbe fatto di tutto per difenderlo, fu il preludio all’adozione degli strumenti, sino ad allora considerati esterni al perimetro di competenze della Banca centrale europea, che avrebbero dovuto fungere da scudo anti-spread. Furono pertanto, in tale occasione, gettate le basi per dar vita ad un fondo di 650 mrd € utile per sopperire all’assenza di un prestatore di ultima istanza (funzione invece assunta dalla Fed), ossia di un soggetto in grado di controbilanciare eventuali nuovi attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico degli stati europei [cfr. no.142 per un approfondimento].
Alla nascita di questo strumento (che non è stato l’unico, ma senza dubbio quello che ha acquisito maggior rilievo), denominato per il suo potenziale anche “bazooka anti-spread” (e l’abuso di terminologia bellica è tutto fuorché casuale), il capitale antagonista, quello legato al dollaro, ha replicato, per mano di Bernanke e della Fed, procedendo ad una nuova iniezione di liquidità (qe iii). La specificità di questo nuovo “alleggerimento quantitativo” consiste nel fatto che, a differenza dei precedenti, non è limitato (è definito infatti open-ended): in pratica, ogni settimana – ormai da diversi mesi – vengono immessi nell’economia statunitense ben 40 mrd $ e tale esborso finirà, secondo quanto dichiarato dalla Fed, solo quando l’accumulazione si riprenderà in pianta stabile, e la disoccupazione si stabilizzerà su livelli sensibilmente più bassi rispetto a quelli esistenti al momento del varo della manovra. Poiché, dunque, non è previsto un limite né quantitativo e nemmeno temporale, in gergo giornalistico questo provvedimento è stato definito come qe-infinity, non necessitando pertanto di rinnovi o future approvazioni: è semplicemente perpetuo sino al raggiungimento di alcuni obiettivi, discrezionalmente individuati da Fed e governo Usa.
Se la Cina, da questo punto di vista non mostra alcuna intenzione di intervenire, forse anche perché di fatto detiene le redini delle sorti di entrambi i contendenti, ha effettivamente impressionato la recente (aprile 2013) scelta della banca centrale giapponese che, accodandosi, al già folle diluvio di denaro immesso nell’economia mondiale, ha deciso di fare la sua parte iniettando il mercato locale (e, ovviamente quello globale) di un quantitativo di yen equivalente a circa 1.400 mrd $ nei prossimi 24 mesi. Considerando che quello nipponico è il paese con il tasso di indebitamento più alto del mondo (debito/Pil), è interessante notare come un simile comportamento “iper-espansivo” sia diametralmente opposto a quanto operato in ambito europeo dove rigore e austerità, base del presunto risanamento dei conti pubblici, sono i concetti cardine della politica economica che i governi dell’Ue da anni stanno adottando, al fine di permettere una fuoriuscita dalla crisi che, per ora, appare del tutto teorica e ben poco fondata.
 Al di là dell’efficacia di tale manovra – che, aggiungiamo noi, è tutta da dimostrare, vista anche la reazione del mercato finanziario nipponico che ha perso immediatamente dopo il varo quasi 8 punti percentuali in un solo giorno –, di certo c’è che questa forte iniezione di liquidità anche dai settori asiatici potrebbe aggravare la situazione globale, per le ragioni già descritte. Del resto, anche gli analisti delle agenzie di rating non sembrano apprezzare particolarmente tali misure di politica monetaria, propagandate dai diversi governi che le promanano come strumenti idonei a garantire una nuova accumulazione o, come nel caso del Giappone, anche ad arginare l’ormai più che decennale deflazione, riportandola in terreno positivo (obiettivo del 2%). Fitch, in particolare, in occasione del qqe (quantitative and qualitative [!?!] easing) nipponico di aprile 2013, sottolineava come tale massiccia iniezione di liquidità possa essere un viatico per prendere tempo ed ossigeno, ma non certo può essere considerata come una panacea contro tutti i problemi strutturali che permangono.

6. La repressione finanziaria

Questi comportamenti “espansivi” sono peraltro sostenuti dalle politiche, diffuse ormai a livello planetario, adottate dalle diverse banche centrali che continuano a perseguire l’obiettivo di mantenere un livello dei tassi di interesse prossimo allo zero, in modo da tenere basso il costo del debito – questione vitale soprattutto per gli stati pesantemente indebitati tra cui spiccano, in particolare, Usa e Giappone oltre ai più noti piigs –  e inducendo gli stessi capitali che hanno guadagnato lautamente durante la crisi degli spread ad investire altrove.
Dall’inizio dell’anno, i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti significativamente praticamente in tutti i paesi occidentali: se quelli dei Bund tedeschi o dei Treasury statunitensi già da mesi forniscono un rendimento reale negativo (ossia inferiore al tasso di inflazione), non può lasciare indifferenti la notizia che quelli di tutti i piigs (Grecia compresa) siano crollati del 20% in media dall’inizio dell’anno, con evidenti conseguenze positive sui celeberrimi spread, per mesi al centro del dibattito politico non solamente in Italia. Da questo punto di vista, è importante rimarcare come tale crollo generalizzato non sia sostanzialmente addebitabile ad un miglior stato di salute del capitale legato al­l’euro, bensì, da una parte al bazooka puntato a tutela di eventuali onde speculative che, di certo, stabilizza i mercati locali; dall’altra alla corsa al taglio dei tassi di interesse che la Bce, così come le altre banche centrali, continua a perpetuare, sostenendo, quindi l’i­nondazione di liquidità anche con questo strumento.
Tale fenomeno di riduzione artificiosa dei tassi di interesse, denominato anche “repressione finanziaria”, ha assunto un carattere ormai talmente diffuso da indurre persino la banca centrale keniota ad operare nello stesso senso: come gli stessi operatori di borsa confessano, “sono le banche centrali che ci spingono ad adottare comportamenti solo un po’ rischiosi” [cfr. sole24ore,7.5.2013], creando di fatto tutti i presupposti perché incrementi l’attenzione verso titoli con rendimenti più alti, che, ovviamente sono gli stessi che hanno un livello di potenziale insolvibilità più elevato.
Tutto ciò ci dimostra come, a differenza del terribile biennio 2007-2008 quando la sfiducia reciproca – peraltro ben fondata, vista la pessima condizione in cui versava il capitale mondiale – tra le diverse aziende aveva, di fatto, interrotto qualsiasi canale di finanziamento reciproco, dopo cinque anni di una crisi che ha stravolto il volto e gli assetti del modo di produzione attuale, le manovre espansive di mezzo mondo hanno rinforzato quella pletora di capitale monetario già strutturalmente esistente. Tuttavia, nonostante questo enorme sforzo, la situazione tarda ad assumere connotati significativamente diversi ed il livello di accumulazione mondiale, come visto in precedenza, è sempre stagnante, o addirittura negativo se si espungono dal calcolo i dati cinesi. Questo dimostra come le conclusioni di sicofanti analisti di mercato o prezzolati d’acca­demia abbiano, per l’ennesima volta, capovolto il rapporto tra cause e conseguenze: il problema, infatti non era allora, e lo è ancor meno adesso, l’assenza di credito, bensì esso è rappresentato dall’impossibilità generalizzata di impiegare capitale monetario per produrre valore, a causa di una crisi di sovrapproduzione di merce che ormai ha pervaso ogni angolo del mondo.
Sembrerebbe, quindi, di assistere allo stesso film già visto poco prima dello scoppio della bolla della new economy (2000), preceduto dalle aggressioni speculative alle tigri asiatiche, passando poi per Russia e America latina, oppure giusto al ridosso del crollo fatale di Lb e affini. Tuttavia, rispetto ad allora le cose sono mutate significativamente: la situazione contingente è stata preceduta da un quinquennio che ha messo a serio repentaglio, da molti punti di vista, il sistema capitalistico. La condizione della classe subalterna, e anche della piccola borghesia, è talmente prossima ai minimi di sussistenza, anche in quegli stati in cui per secoli essa ha vissuto al pari della aristocrazia proletaria che, di certo, una violenta deflagrazione della bolla difficilmente potrebbe lasciare intatte le istituzioni capitalistiche, così come abbiamo imparato a conoscerle da almeno mezzo secolo a questa parte.
D’altra parte però, il grado di coscienza della classe subalterna è talmente in palese e rapido declino – frutto anche di una ignobile ma, al tempo stesso, ineccepibile manovra del capitale orientata all’eliminazione progressiva e totale di ogni residuo di opposizione basata sulla propria appartenenza di classe – che immaginare una rivoluzione che capovolga i rapporti proprietari nei prossimi anni (o anche decenni) è semplicemente una “pia illusione”. Al contrario, se un’eventualità bellica su ampia scala sembra essere ancora scongiurata dal deterrente delle armi atomiche, una gestione dispotica del capitale appare un’ipo­tesi tutt’altro che peregrina. Il riemergere di partiti dichiaratamente fascisti, ed il loro palese rafforzamento in qualsiasi paese del­l’Europa – in Italia c’è l’anoma­lia grillina che potrebbe ricoprire la medesima funzione [cfr. no.142] – e, più recentemente, persino in Giappone, potrebbe stare a convalidare esattamente tale tendenza che incontrerà ben pochi ostacoli, fin quando l’ammaliante canto delle sirene “nuoviste” – che, come la storia ci insegna, hanno condotto importanti movimenti di lavoratori a derive del tutto deprecabili e inevitabilmente favorevoli alla borghesia mondiale – prevarrà sulla scientificità del marxismo e del materialismo storico nell’analisi della realtà contemporanea di chi ancora dichiara di opporsi al modo di produzione del capitale.

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