La
sfiducia a Renzi, ieri o oggi, avrebbe trasformato il corteo del
Primo Maggio in una festa di popolo: sollievo, canti di gioia e
bandiere al vento.
Invece,
com’era agevole prevedere, non è successo nulla, e domani
sfileremo per le vie delle nostre città con più rassegnazione che
baldanza, consapevoli in fondo che non basta essere Popolo una volta
all’anno (o, ben che vada, una al mese – e lo dico anzitutto a me
stesso).
La
notizia che Matteo Renzi ha vinto è una non-notizia: già i latini
sapevano che “erat
facile vincere non repugnantes”
(Cicerone). Che i mini-dem calassero le brache era scontato: in
cinquanta lo hanno fatto platealmente, in pubblico, altri 38 hanno
avuto il buon gusto di appartarsi in bagno. Attentato alla
democrazia, imposizione al Parlamento… dopo tanto abbaiare, manco
un cane se l’è sentita di dare un morsettino al twittatore
toscano. Votare contro? Non sia mai: al massimo ci si assenta, si
scala l’Aventino di Montecitorio fino al bancone del bar. Il
“pugnace” D’Attorre, intervistato domenica da Il Piccolo, era
stato ambiguamente chiaro: non voterò la fiducia, per quanto
riguarda il testo finale si vedrà. Si vedrà, appunto, e sarà la
solita pantomina.
Eppure,
se - come sostiene Bersani - porre la fiducia su una legge di stretta
competenza parlamentare è evidente forzatura, un no di bandiera
sarebbe stato politicamente giustificabile, e facile da difendere
nell’arena dei talkshow: non occorreva il coraggio di un Matteotti
per pronunciarlo. Niente da fare: con il non-voto di ieri la
“sinistra dem” ci offre l’ennesima testimonianza della sua
natura esclusivamente mediatica, cioè della sua inesistenza.
Qual è la differenza tra il disciplinato Damiano ed Ettore Rosato,
entusiasta propagandista renziano? Che il secondo – proveniente
dalla Margherita e spalla politica di professione – è meno
colpevole del primo, perché non è mai stato “comunista” né ha
ricoperto incarichi in CGIL.
Dispiace
che Stefano Fassina – che su molti temi aveva dato prova di
ravvedimento operoso – si sia mestamente accodato alla minoranza
assente, mentre il decimillesimo preannuncio di addio al PD da parte
di Civati strappa un sorriso: quando sbatterà la porta (se mai si
deciderà), la notiziola cadrà nel vuoto. “Ma come, non era già
uscito?” – si chiederà qualche telespettatore, sbadigliando
davanti allo schermo presidiato da Lilli Gruber.
Renzi
ce lo teniamo, dunque. Ne è passato di tempo dall’ultima volta che
ho scritto su di lui, ma non sento l’esigenza di aggiornare il
ritratto. L’uomo è quello che era e sempre sarà: prepotente,
fanfarone, grossolano e compiaciuto di sé, capace di passare in un
attimo dalla blandizie alla violenza verbale (e alla sottile
minaccia) come un qualunque venditore di polizze. Potrei aggiungere
che ormai parla in playback: sempre le stesse frasi, le stesse
esortazioni, le stesse formule, le stesse battute. Che sia di destra,
di destrissima, lo asseverano i fatti: con il Jobs act ha cancellato
il diritto del lavoro, con la “Buona Scuola” metterà in riga gli
insegnanti (e forse manderà gli studenti ai lavori forzati estivi,
come auspica Poletti); la riforma della Pubblica Amministrazione strizza l’occhio al
modello americano, la privatizzazione di aziende strategiche e
servizi pubblici si porta dietro, attraverso l’accorpamento degli
enti, lo svuotamento della democrazia locale, la recisione
dell’ultimo tenue legame tra amministratori e amministrati.
E’
un fascista? No,
perché – da opportunista doc - è refrattario agli ideali, alti o
ignobili che siano: neoliberista poiché gli conviene, ha concesso i
propri servigi a finanzieri e lobby sovranazionali, che per ora
contraccambiano le sue attenzioni.
E’
detestabile, cinico, tracotante e bugiardo – ma non è un demone
insinuatosi a tradimento in un organismo sano: del
PD il fiorentino incarna l’anima più autentica.
C’erano una volta i comunisti, più amministratori che
rivoluzionari: la tesi, durata decenni. La caduta del muro provocò
una conversione in massa al neoliberismo: primum
vivere, deinde
philosophari.
Antitesi, con trasformazione strutturale e quieta conservazione degli
antichi riti. Renzi non ha fatto altro che prendersi la struttura e
“rottamare” la sovrastruttura, avendo compreso che, oramai,
lessico e bandiere son passati di moda.
Non
c’è contrapposizione ideale con il vecchio gruppo dirigente: le
frizioni nascono da collisioni fra interessi personali, al più da
rivalità e antipatie. Renzi ha voluto il Jobs act, ma la “sinistra
interna”, con poche eccezioni, gliel’ha votato, così come ha
votato e voterà tutti i provvedimenti reazionari pretesi dalla UE.
D’altra parte, il Jobs act è figlio del Pacchetto Treu, della
precarizzazione imposta dal primo centrosinistra negli anni ’90; la
privatizzazione dei servizi locali inizia con decreti che portano i
nomi di Letta, Burlando ecc. L’elenco potrebbe continuare
all’infinito, ma ve lo risparmio. Mi piacerebbe, invece, ricordare
a D’Alema il suo ruolo politico nell’aggressione NATO alla
Jugoslavia, a Bersani il giro delle sette chiese, a primavera 2013,
per rassicurare i mercati che, in caso di successo elettorale, le
riforme (neoliberiste) sarebbero proseguite e i Trattati UE non
sarebbero stati messi in discussione; al PD tutto la posizione
assunta sulla vicenda libica – attentato alla Costituzione
addolcito da melassa sugli immancabili “diritti umani”. Al
“rivoluzionario” Civati, infine, rammenterei che l’aver
affidato la stesura del proprio manifesto economico a un Taddei
(subito passato ad un balbettante renzismo) non è cosa di cui andar
fieri: in genere, chi si somiglia si piglia.
Il
Partito democratico, in fondo, è fatto della stessa sostanza di cui
è fatto Matteo Renzi: è neoliberista, fiancheggiatore dei mercati,
devoto alla NATO statunitense (v. da ultimo le folli sanzioni alla
Russia), spacciatore di diritti civili a buon mercato, paladino di
quella UE che, come uno sciame di locuste, sta spolpando la Grecia.
Se consideriamo solo l’impostazione economica – dissi quattro
anni fa, a Verona – i dem sono a destra di Forza Nuova. Allora
Renzi era un puntolino all’orizzonte, e gli odierni oppositori
stavano saldamente aggrappati ai loro scranni.
Erano
il partito, ma
non erano più sinistra da un pezzo.
Inverosimile che lo siano diventati per ripicca; assurdo aspettarsi
da loro (con l’eccezione forse di Stefano Fassina, che pare aver
maturato concezioni diverse) un’opposizione che non sia motivata da
grette esigenze concrete o – per prendere a prestito il linguaggio
vendoliano – “politiciste”.
No,
Renzi su questa fiducia non poteva naufragare – e una sua eventuale
uscita di scena, per quanto auspicabilissima, non sarebbe rebus
sic stantibus
risolutiva. Anche cancellando la primissima fila il quadro d’insieme
resterebbe una crosta: urgono un pittore, tecniche e colori nuovi.
In
ogni caso, buona Festa
dei Lavoratori
(e dei pensionati, degli studenti, dei precari, dei concorsisti a
vita)!
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