venerdì 29 settembre 2017

SINISTRA – IL PIENO DI ASPETTATIVE IL VUOTO DI CONSENSI

Di Ciuenlai - C'è una domanda che diventa sempre più stringente a sinistra. Come mai le iniziative di Mdp, della Falcone e di Montanari, persino di SI, fanno il pieno di gente e i sondaggi registrano modeste percentuali di consenso verso queste formazioni?
Si, lo sappiamo, che l'ordine è sottovalutare “ scissionisti & Co.”. Si lo sappiamo che siamo alla fase iniziale e non è ancora venuto alla luce il nuovo soggetto politico, ma la dicotomia appare troppo grande per accontentarsi di spiegazioni semplici come quelle elencate prima o come la solita “sale piene, urne vuote”. La verità è che questa apparente contraddizione deriva dal fatto che le aspettative sono grandi quanto lo scetticismo che accompagna questa operazione politica. E non può essere altrimenti.
Se si perdono due stagioni (Primavera ed Estate) dietro al fantasma di Pisapia, se si continua a spacciare come alternativa un “nuovo Ulivo” o un “Centrosinistra innovativo”, se tutta la strategia si compendia nella richiesta di “primarie” con Renzi e nel tragico dilemma Pd si o Pd no, se anche chi prova a superare questa galleria di errori dicendo cose interessanti (leggi D'Alema), il giorno dopo se le rimangia è facile comprendere i tanti perchè la sinistra non sfonda, non convince e non cresce.
Se non hai un progetto tipo quello di Corbyn (che parla di nazionalizzazioni, diritti collettivi, servizi sociali ecc.), se non provi a disegnare una vera alternativa al liberismo, se non esci da questo tatticismo esasperato che ti fa parlare solo di leadership e di alleanze, se non inizi a navigare in mare aperto fregandosene di tutto questo e perseguendo un progetto autonomo, ho paura che si rischia di perdere anche questo ennesimo treno. E stavolta potrebbe anche essere l'ultimo per molto tempo.

giovedì 28 settembre 2017

Basta col teatrino, ecco la verità sull'unità a Sinistra di Tomaso Montanari

     Sul "Corriere della sera" di ieri Massimo D'Alema ha annunciato un'assemblea della Sinistra per il prossimo 19 novembre. Nella stessa intervista, l'ex presidente del Consiglio esorta Giuliano Pisapia a "prendere in mano il processo unitario" della Sinistra.
      Dal sito di "Repubblica" ho poi appreso che "la prossima settimana, lunedì o martedì, nella riunione operativa ci saranno anche Tomaso Montanari e Anna Falcone. Tutti insieme per una sorta di Linke con una spruzzata di Spd tanto cara a Bersani e una buona dose ambientalista: è la sintesi di Pippo Civati".
     Ora, è davvero deprimente dover dedicare tanto tempo non ai problemi reali, ma a questo eterno teatrino: tuttavia, è importante fare chiarezza.
La verità è che Anna Falcone e chi scrive non parteciperanno né a quell'assemblea né a quella riunione – ammesso che si tengano davvero - . Semplicemente perché le riunioni – i mitologici tavoli – hanno senso solo quando c'è già un accordo politico: almeno sulle questioni fondamentali. E servono solo se tutti (senza esclusioni) sono invitati.
     Nel percorso del Brancaccio i cittadini senza tessere e i partiti (Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione Comunista, L'Altra Europa) concordano su tre punti essenziali: vogliono costruire una lista di Sinistra e non di Centrosinistra (è una distinzione sostanziale, che è stata approfondita al Brancaccio); i voti di questa lista non potranno e non dovranno servire a costruire un governo con il Pd; programma, candidature e leadership dovranno essere scelti attraverso un processo di partecipazione dal basso, senza imposizioni a priori: qualcosa di assolutamente nuovo, da costruire insieme e in modo trasparente.
     Ora, è a tutti evidente che a nutrire dubbi su tutti e tre questi punti è Mdp-Articolo 1. In una smentita del titolo della sua intervista al "Corriere" (un felice "Mai col Pd") D'Alema precisa:
Io non ho detto "mai con il Pd", come d'altra parte risulta anche dal testo dell'intervista, come sempre ben scritta dal collega Cazzullo, che ringrazio. Mi sono limitato a dire che non ci sono, oggi, le condizioni politiche e programmatiche per presentarci insieme alle elezioni... Tuttavia non credo affatto che si debba rinunciare in prospettiva ad un dialogo con il Pd per dar vita, in futuro, a un centrosinistra radicalmente innovativo. Questo comporta, come ha detto più volte Giuliano Pisapia, una chiara discontinuità di contenuti e leadership.
Credo che la partecipazione di Mdp a una sinistra unita sia davvero importante: come per molte delle forze riunitesi al Brancaccio, si tratta di un partito che ha iniziato a nascere nel fuoco dello scontro sulla Costituzione, sulle barricate del No. Nonostante le contraddizioni insite nelle biografie di alcuni suoi celebri esponenti e nonostante la lentezza del processo di distacco dalle politiche di Renzi, continuate da Gentiloni, il popolo e i dirigenti di Mdp sono una parte importante della sinistra da costruire. Oggi questo partito è impegnato in una seria riflessione, che rispetto profondamente, e di cui aspetto l'esito: se rimarrà attuale il progetto di sostanziale convergenza con il Pd siglato dalla leadership di Giuliano Pisapia, allora sarà evidentemente impossibile camminare insieme. In caso contrario, la lista unitaria potrà diventare reale.
Fissare perentoriamente e lanciare pubblicamente la data di un'assemblea le cui forme e i cui modi sono ancora tutti da discutere, o ancora far filtrare illazioni sulle date di immaginarie riunioni "decisive" non aiuta in alcun modo lo scioglimento di questi nodi: che sono oggettivi, concreti, comprensibili a tutti.
Lo scopo dell'appello del Brancaccio è chiaro: "L'obiettivo rimane una sola lista a sinistra", è stato detto il 18 giugno. Il percorso che si è poi snodato in tutto il paese ha già mostrato che c'è lo spazio e c'è il desiderio per far nascere un nuovo movimento radicalmente nuovo, a sinistra: un progetto che ha bisogno di molto impegno e di tempi lunghi.
E allora occorre che questo primo stadio, la costruzione di una lista elettorale, non neghi e non comprometta quel percorso più ambizioso, e così necessario. E credo che dar vita a due piccole liste in competizione sarebbe un inizio tragicamente sbagliato.
Per questo, se la lista unitaria dovesse alla fine naufragare, personalmente proporrei alle assemblee del Brancaccio di non presentarsi alle prossime elezioni: ma so che molti la pensano diversamente, e davvero nessuno può prevedere quale sarebbe la collettiva decisione finale.
So, tuttavia, una cosa: una lista di centrosinistra, non alternativa al Pd e con un leader deciso a tavolino, sarebbe condannata dalle urne alla totale irrilevanza. Anche senza una concorrenza a sinistra: perché moltissimi elettori (me compreso) semplicemente non andrebbero a votare.
Ma davvero spero che – per citare una celebre frase dell'impaziente Michelangelo – che si possa fare "una buona pace insieme, e lasciar tante dispute: perché vi va più tempo che a far le figure", cioè le opere. E tutti noi abbiamo bisogno di dedicarci alle opere, non alle dispute.

Ma quale Linke? E’ il solito centrosinistra, versione bonsai. di Maurizio Acerbo



Ma quale Linke? E’ il solito centrosinistra, versione bonsai.
Leggo su Repubblica.it un curioso articolo in cui si riferisce della ormai prossima nascita di una sedicente Linke italiana con Pisapia, Bersani, D’Alema. In realtà si tratta di una versione bonsai del vecchio centrosinistra. E’ ridicolo accostare gli Schulz e gli Hollande italiani alle formazioni dei nnostri compagni della sinistra radicale europea. Più che Linke o Podemos l’accostamento evoca i “marxisti per Tabacci”.
 
E certi tavoli non mi sembra che abbiano molto a che fare con la proposta dell’assemblea del Brancaccio che mirava a riunificare le energie culturali, sociali e politiche della sinistra a partire dalla vittoria del NO al referendum intorno a un programma di radicale rottura e con una modalità partecipativa di ricostruzione dal basso.
Noi continuiamo a ritenere quello il percorso da fare e partecipiamo con convinzione alle assemblee che si stanno programmando in tutta Italia e che speriamo si moltiplichino.
Falcone e Montanari a nostro parere hanno troppo tergiversato dopo la bella assemblea di giugno, ma finalmente si sono decisi a lanciare la campagna di adesioni individuali e invitiamo tutte/i a registrarsi:https://www.aderisci.perlademocraziaeluguaglianza.it/events/1/subscriptions/new
In Italia se non c’è una formazione unitaria delle dimensioni di quelle della sinistra radicale europea  è perchè in troppi continuano a lasciarsi egemonizzare dal centrosinistra invece di costruire un’alternativa alle politiche neoliberiste. 
Solo in Italia può accadere che la sinistra antiliberista e di opposizione si faccia sussumere da una formazione politica che sostiene il governo in carica. 
Dato che nessuna delle condizioni poste da mesi da Sinistra Italiana ai suoi interlocutori (alternatività al PD, rottura col governo, parola fine sul centrosinistra) si è concretizzata e anzi l’intera operazione ha sempre più il profilo della proposta che avanzò Pisapia a Piazza S.Apostoli confido che il mio amico Nicola Fratoianni prenda atto che bisogna fare altro riprendendo con convinzione il percorso del Brancaccio. 
Per quanto ci riguarda noi lavoreremo testardamente per una lista di sinistra alternativa al PD prima e dopo le elezioni, indisponibile per “governi del presidente” come quelli evocati da D’Alema già sostenitore del governo Monti, che abbia un programma e un profilo di rottura con le politiche neoliberiste degli ultimi 25 anni.

sabato 23 settembre 2017

Dati controcorrente sull’economia italiana e il mercato del lavoro di Andrea Fumagalli

Dati contenuti nel Bollettino BCE n.3 dell’11 maggio 2017.

Dati contenuti nel Bollettino BCE n.3 dell’11 maggio 2017.

Nelle ultime settimane siamo stati subissati da buone notizie sull’andamento del’economia italiana. Il Pil cresce sopra le aspettative. L’Istat ci dice che il numero degli occupati è tornato a superare la quota di 23 milioni di persone, cioè al livello precrisi (2008) e che la disoccupazione scende (- 154.000 nell’ultimo anno).  Nel luglio 2017 la produzione industriale è aumentata del 4,4% su base annua (ma solo del + 0,1% su base mensile). Il primo ministro Gentiloni twitta che un risultato del genere era impensabile soltanto due anni fa (dimenticandosi di ricordare che nel giugno 2017 la produzione industriale era aumentata su base annua del 5,3%: il che significa che, nell’ultimo mese, abbiamo avuto una riduzione della crescita). E aggiunge, sempre su Twitter: “Disoccupazione ai minimi dal 2012. Buoni risultati da jobs act e ripresa”.  Calici di spumante (lo champagne sarebbe eccessivo) brindano al risultato. La stampa di regime si unisce a celebrare l’uscita dalla crisi. Tutto vero?

Apparentemente sì. Il Pil ha visto una crescita annua tendenziale dell’1,5% nel II trimestre 2017, contro le previsioni del governo di crescita dell’1,2%. Tale risultato potrebbe consentire al governo italiano di avere maggiori gradi di flessibilità nella formulazione della legge di stabilità per il prossimo anno.  Tale risultato è soprattutto dovuto ad un aumento dell’export verso i paesi arabi e in particolar modo verso l’Egitto (+ 13%), grazie al coinvolgimento della politica italiana  negli affari del petrolio (vedi l’investimento Eni  di 7  miliardi in tre anni giacimento di gas di Zohr a dispetto del caso Regeni. Ma non solo. Gli investimenti industriali hanno cessato di diminuire (+ 0,1%) e le aspettative per un loro aumento in futuro sono cresciute,  dopo il crollo seguito alla crisi economica (- 30%).

Tali risultati, tuttavia, non consentono di affermare che la crisi sia stata superata, tutt’altro. In Italia, nonostante la ripresa dell’ultimo biennio, il livello del Pil in volume è ancora inferiore di oltre il 7 per cento rispetto al picco di inizio 2008; in Spagna il recupero è quasi completo mentre Francia e Germania, che nel 2011 avevano già recuperato i livelli di attività pre-crisi, segnano progressi pari rispettivamente a oltre il 4 e quasi l’8 per cento.

Tra il 2007 e il 2013, il peso dell’industria manifatturiera nella creazione di valore aggiunto in Italia è diminuito dal 17,7 al 15,% del totale, a fronte di una contrazione in volume di quasi il 16%.

Negli anni successivi si è avuto un recupero, tuttora in corso, ma a livello aggregato il volume del valore aggiunto manifatturiero resta ancora inferiore di circa il 13% rispetto al 2007, attestandosi al 16%.

Gli investimenti hanno seguito una dinamica simile e ora sono attestati intorno al 19% del Pil, con un livello che è pari al 75% di quello pre-crisi e nettamente inferiore alla media europea. Di converso, i tassi di profitto (come quota sul valore aggiunto) delle imprese non finanziarie in Italia risultano superiori alle media europea e dopo il calo registrato nel triennio 2009-2012 ora si trovano in ripresa (dal 41% al 42%).

Il Jobs Act non  ha avuto effetti occupazionali reali e stabili,  ma ha creato aspettative positive per l’economia italiana, soprattutto sul versante dell’export. La domanda interna è infatti troppo depressa per mancanza di reddito per essere appetibile per un miglioramento delle aspettative interne. E di fatto gli investimenti languono (+ 0,1%). Non è un caso che se l’export cresce, le vendite al dettaglio  vedono una contrazione dell’0,2% su base mensile (luglio 2017) e dello 0,4 su base annua. Sembra un paradosso. La domanda interna è stagnante ma l’export no. La spiegazione è il basso costo del lavoro che consente una maggiore competitività a bassi prezzi ma di qualità peggiore verso l’estero.

Negli anni ‘50 e ’60, il boom economico italiano è stato trainato dall’esportazione, al punto che, per il caso italiano, autorevoli economisti stranieri e italiani  (Vera Lutz e Augusto Graziani) avevano coniato il termine “Export Led Growth” (Crescita trainata dall’export). All’epoca tutta i comparti manifatturieri ne erano coinvolti. Ma oggi non è così. I settori a più alto valore aggiunto e sulla frontiera tecnologica ne sono esclusi. Il motivo è semplice. In Italia, biotecnologie, nanotecnologie , industrie del corpo umano, telecomunicazioni, digitale, neuroscienze, trasporto avanzato , informatica 4.0 sono settori  che non esistono e se esistono svolgono solo un ruolo subordinato, da  subfornitura etero-diretta, a vantaggio di imprese e profitti.

Non stupisce quindi che, sebbene l’ultima rilevazione dell’Istat abbia messo in evidenza che gli occupati a luglio di quest’anno, pari a poco più di 23 milioni di unità, sono tornati allo stesso livello del 2008, il monte ore lavorate, invece, è diminuito di oltre 1,1 miliardi (-5 per cento). Nei primi 6 mesi del 2008, infatti, i lavoratori italiani erano stati in fabbrica o in ufficio per un totale di 22,8 miliardi di ore, nei primi 2 trimestri di quest’anno, invece, lo stock è sceso a 21,7.

In buona sostanza, segnalano dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, se a parità di occupati sono diminuite le ore lavorate, rispetto al 2008 i lavoratori a tempo pieno sono scesi e, viceversa, sono aumentati quelli a tempo parziale (contratti a termine, part-time involontario, lavoro intermittente, somministrazione, etc.).

Si conferma così che il Jobs Act ha avuto l’effetto sperato. Aumentare la precarietà e la ricattabilità del lavoro, dando l’illusione che il lavoro sia aumentato. Tale fumo negli occhi viene illusoriamente confermato dagli ultimi dati ufficiali sul tasso di disoccupazione. Secondo la recente indagine sul mercato del lavoro dell’Istat, nel secondo trimestre del 2017 l’occupazione presenta una nuova crescita congiunturale di 78 mila unità (+0,3%) dovuta all’ulteriore aumento dei dipendenti (+149 mila, +0,9%), in oltre otto casi su dieci a termine (+123 mila, +4,8%). Continuano invece a calare gli indipendenti (-71 mila, -1,3%). Il tasso di disoccupazione “ufficiale” si attesta così all’11,2%, come esito dell’effetto sostituzione tra lavoro precario e lavoro stabile. Come già sottolineato in altri contributi su queste stesse pagine, nel calcolo dell’effettivo numero dei disoccupati devono essere calcolati anche gli scoraggiati, ovvero quelle persone che hanno bisogno di lavorare ma che non cercano lavoro in quanto poco fiduciose nel successo dell’impresa. Tale categoria contabilmente incide in negativo sulle forze lavoro effettive (che è il denominatore del tasso di disoccupazione) con l’effetto di diminuire tale rapporto. Se si considerano le forze lavoro potenziali, i dati descrivono un quadro assai differente.

Nel luglio 2017, sono stati resi noti i dati dall’indagine 2017 sull’occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa (Esde) pubblicata dalla Commissione Europea. L’Italia è il paese europeo dove il numero di lavoratori autonomi è fra i più alti d’Europa (più del 22,6%), i giovani fra 15 e 24 anni che non hanno e non cercano lavoro (i cosiddetti Neet) toccano il record Ue del 19,9% (la media europea è 11,5%), la differenza fra uomini e donne che lavorano è al 20,1%, e il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema (11,9%) è aumentato fra 2015 e 2016, unico caso in Ue con Estonia e Romania.

Se analizziamo in modo congiunto questi dati (come si evince dal grafico in apertura) abbiamo una reale fotografia del mondo del lavoro italiano nel 2017. Se si considerano gli scoraggiati e i sottoccupati, il tasso di disoccupazione italiano risulta il  più alto d’Europa, superiore a quello della Grecia e della Spagna.

Alla faccia dl Jobs Act e dell’uscita dalla crisi.