A proposito di “Ancora Keynes?!” di Giovanni Mazzetti
1.
Attraverso una puntuale critica del pensiero, della politica economica
e dei risultati economici del neo-liberismo, il libro di Giovanni
Mazzetti Ancora Keynes?! (Asterios Editore, Trieste, 2012, pp.
93, euro 8) propone una salutare interazione tra le riflessioni di
Keynes e di Marx, per tratteggiare una sintetica indagine sul
“significato” storico della fase attuale dell’economia mondiale,
contraddistinta dall’esplosione del deficit pubblico.
Il problema fondamentale dell’economia capitalistica appare essere
quello degli sbocchi e i modi attraverso i quali le società avanzate
hanno affrontato questo problema individua altrettanti fasi storiche del
capitalismo. Dapprima il problema è stato risolto grazie alla nascita
del sistema bancario, che crea moneta – al contrario di quanti
ritengono che le banche siano semplici intermediari finanziari, meri
redistributori del risparmio agli imprenditori – e permette la chiusura
del circuito di produzione e di scambio di ricchezza (di beni utili)
volto alla realizzazione del profitto.
Grazie a Keynes e alla politiche keynesiane, in un secondo periodo
storico il circuito viene chiuso grazie alla spesa pubblica, che diviene
volano degli investimenti privati, ancora capaci di generare la piena occupazione.
Con il crescere della disoccupazione tecnologica il quadro cambia drasticamente, perché diviene inevitabile il ricorso al debito pubblico finanziato dalla banca centrale.
Non generando occupazione, infatti, il debito non è più ripagabile,
poiché l’aumento di reddito che si realizza grazie alla spesa pubblica è
esiguo e quindi insufficienti risultano gli introiti fiscali previsti
come fonte di appianamento del debito stesso.
Nasce così un nuovo sistema sociale dove il soddisfacimento di numerosi bisogni non
passa più attraverso lo scambio di mercato e, più in particolare, non
passa più attraverso lo scambio tra forza-lavoro e salario e la
realizzazione di profitto. Questo tipo di società, annunciata dal piano
Beveridge e manifestatasi con lo strutturarsi del moderno welfare
state, è incardinata sul “diritto al lavoro” e sull’appagamento di una
serie di diritti sociali in modo gratuito, secondo la
definizione che di questo termine ne danno Keynes e Marx,
opportunamente citati. Il superamento dell’economia fondata sullo
scambio di valori e sul profitto è, dunque, conseguenza diretta
dell’impossibilità per il capitalismo di risolvere il problema degli
sbocchi, è conseguenza diretta dell’impossibilità di superare l’ultimo
stadio del capitalismo incardinato sulla creazione illimitata, e non
ripagabile, di debito pubblico. Secondo l’autore si giunge così ai
prodromi di un nuovo modo di produzione, destinato a sorgere pacificamente
sulle ceneri del vecchio modo di produzione capitalistico e fondato
sulla progressiva estensione di forme di pianificazione. Forme di
pianificazione che, è bene rimarcarlo, sono il risultato necessario e
inevitabile del problema, tipicamente capitalistico, degli sbocchi.
A questo tipo di trasformazione si sono opposti, e ancora si
oppongono, i liberisti, da Reagan a Monti (che ha imposto la follia del
pareggio di bilancio in Costituzione), che appaiono come veri e propri
“conservatori” di un modo di produzione oggettivamente superato dai
tempi. L’obiettivo dei conservatori è semplice e chiaro ad un tempo:
negando l’esistenza di un problema degli sbocchi, impongono una
ri-aziendalizzazione votata al mercato dell’agire statale. Lo Stato è
costretto ad agire come un privato – e quindi invalgono i paragoni tra
Stato da un lato, e individuo o famiglia dall’altro lato: viene
costretto ad indebitarsi con i privati, si sancisce la
separazione tra Banca Centrale e Tesoro, si impone un aumento delle
tasse, si limitano le spese pubbliche. Si tratta di una vera e propria
“trappola”, all’origine, per altro, della crisi in corso, poiché
ciò che è stato impedito allo Stato – chiudere il circuito con il
debito pubblico non ripagabile -, è stato necessariamente attuato dai privati attraverso un’espansione senza precedenti del credito, cioè dell’indebitamento.
2. Per quale
motivo i conservatori sono riusciti, e ancora riescono, nel proprio
intento? “Perché “quasi nessuno sta oggi realmente operando in modo da
creare le condizioni soggettive per lo sviluppo” di un “potere
alternativo”? Poiché non mi pare che l’autore risponda esplicitamente a
questi fondamentali quesiti, penso che sia utile proporre alcune
riflessioni, oggettivamente complementari, almeno mi sembra, al filo
del ragionamento sin qui riassunto.
Anzitutto si possono richiamare le spiegazioni che a tale proposito
vengono date negli Stati Uniti da eminenti economisti, che con la crisi
si sono visti costretti a ritornare sui testi della “vecchia” economia keynesiana della “domanda effettiva”. Secondo Bancarotta di Stiglitz (Einaudi, Torino, 2011) o Il prezzo della civiltà
di Sachs (Codice Edizioni, Torino, 2012), i motivi per cui la politica
oggi appare tremendamente in ritardo rispetto ai compiti che oggettivamente
è chiamata ad affrontare e risolvere, pena il disfacimento sociale e
la rinascita di devastanti conflitti, è evidentissimo: il sistema
politico, e l’analisi riguarda gli Stati Uniti d’America, è
capillarmente governato e dominato da quei ceti che si sono sentiti
minacciati dall’incombere del nuovo modo di produzione e che a partire
dal 1980 sono stati protagonisti e beneficiari di una gigantesca
redistribuzione della ricchezza che ha drammaticamente approfondito le
diseguaglianze sociali, innescando la concatenazione di avvenimenti
culminata nella crisi sistemica che stiamo vivendo e piegando, poi,
l’intervento pubblico - i salvataggi – a loro esclusivo beneficio.
Perno di questo antistorico arretramento è l’intelaiatura
istituzionale imperniata sul maggioritario, sull’esistenza di due
partiti che si contendono il governo del Paese senza tuttavia proporre
sul piano sociale ricette realmente diverse, infine, e in ultima
analisi, sulla inesistenza di un forte partito dei lavoratori, di tradizione socialista (ma in Italia il termine appropriato è “socialcomunista”).
E’ bene richiamare queste analisi perché in Italia si fa di tutto per
celarle, annacquarle, distorcerle: basti dire che l’interessante
volume di Rajan Terremoti finanziari (Einaudi, Torino, 2012),
che sottolinea come all’origine della crisi ci sia, oltre che la nuova
finanza liberalizzata, appunto la diseguaglianza, è introdotto dal noto
“liberista di sinistra” Franco Debenedetti, che, senza farsi mancare
la citazione di un altro campione di “liberismo-di-sinistra” quale
Michele Salvati, non solo parla di tutt’altri argomenti rispetto a
quelli messi in luce da Rajan, ma invoca il trionfo del “nuovo”
all’insegna… della completa e definitiva distruzione della nostra
Costituzione (p. XXV; distruzione invocata anche dal teorico del
Partito Democratico italiano M. Salvati in Tre pezzi facili sull’Italia,
Il Mulino, 2011). Della distruzione, cioè, del baluardo di tutte le
nostre conquiste economiche, sociali e civili; di un baluardo che
ancora contiene, sol che se ne capissero i fondamenti storici e logici e
si avessero di mira gli interessi generali e non quelli particolari
(non è difficile intuire l’origine del grande interesse per i fallimenti
della “nuova finanza” di tanti di coloro che per anni ne hanno
magnificato le potenzialità e scandagliato in profondità le sperate
potenzialità… ), gli anticorpi necessari per affrontare e superare
questa crisi e il sistema economico e sociale che l’ha generata.
Epicentro, pur tra mille contraddizioni, del tentativo di
trasformazione e superamento dell’ultimo stadio del capitalismo nei
trenta anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale,
l’Italia è stata poi al centro della controrivoluzione
liberista, che ha dispiegato i suoi disastrosi effetti con la cosiddetta
Seconda Repubblica e che ancora sta dispiegando, inesorabile, la
propria antistorica azione, che porterà alla desertificazione
industriale, alla definitiva svendita economica, sociale e geopolitica
del nostro Paese. L’analisi di Giovanni Mazzetti offre un contributo
importante per tentare di ricostruire un argine a questa spaventosa
deriva: perché propone un metodo e un’analisi capaci di superare
antistoriche diatribe dottrinali e storiografiche, ma assai più spesso
semplicemente ideologiche, riguardanti il significato della
Prima Repubblica e quindi anche il significato delle correnti
ideologiche (in senso nobile) che l’hanno innervata; perché potrebbe
consentire di ricongiungere organicamente, come da metodo gramsciano
utilizzato da Mazzetti, passato e presente, al fine di ricostruire un
movimento social(comun)ista degno del compito che la storia lo sta
chiamando ad adempiere.
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