Il Parlamento deve rappresentare i diversi
interessi e punti di vista che esistono nella cittadinanza. Per poterlo
fare in modo adeguato non può essere troppo piccolo. E perciò dimezzare
il numero dei parlamentari italiani sarebbe eccessivo. Per ridurre le spese, meglio tagliare i loro stipendi.
di Valentino Larcinese* (lavoce.info)
Parlamentari e rappresentanza
“Dimezzare
il numero dei parlamentari”. Da Pier Luigi Bersani a Silvio Berlusconi,
da Mario Monti a Confindustria, tutti sembrano essere d’accordo:
bisogna ridurre i costi della politica, tagliare gli sprechi, mostrare
che la politica è partecipe dei sacrifici richiesti al paese: dunque
“dimezzare il numero dei parlamentari”. Ma perché
dimezzare? Perché non ridurre a un quarto, un terzo, o qualsiai altro
numero? Si tratta probabilmente solo di uno slogan, un po’ come il
famoso “milione di posti di lavoro”. Sono numeri semplici e un po’ a
casaccio, che si ricordano facilmente, marketing o poco più. È
comprensibile, e in un certo senso positivo, che si voglia mandare un
segnale forte di discontinuità con una politica che non ha dato il
meglio di sé negli ultimi anni. Ma i cambiamenti di policy, e ancora di
più quelli istituzionali, andrebbero discussi e fatti con più serietà.
Prima di cambiare il numero dei parlamentari bisognerebbe innanzitutto porsi il problema della rappresentanza. Prima considerazione: il parlamento deve rappresentare al meglio i diversi interessi e punti di vista che esistono nella cittadinanza e per poterlo fare in modo adeguato non può essere troppo piccolo. Un confronto internazionale dovrebbe chiarire il punto. Il grafico di sotto mostra il numero totale di parlamentari (ossia Camera e, dove esiste, Senato) per alcuni paesi Ocse, più o meno comparabili al nostro quanto a grado di sviluppo economico e politico.
Prima di cambiare il numero dei parlamentari bisognerebbe innanzitutto porsi il problema della rappresentanza. Prima considerazione: il parlamento deve rappresentare al meglio i diversi interessi e punti di vista che esistono nella cittadinanza e per poterlo fare in modo adeguato non può essere troppo piccolo. Un confronto internazionale dovrebbe chiarire il punto. Il grafico di sotto mostra il numero totale di parlamentari (ossia Camera e, dove esiste, Senato) per alcuni paesi Ocse, più o meno comparabili al nostro quanto a grado di sviluppo economico e politico.
In
questa graduatoria l’Italia è seconda solo al Regno Unito e molto
vicina alla Francia. Troppi parlamentari? Il grafico successivo mostra
il numero di cittadini per parlamentare: ci dà un’idea
più precisa dei costi che ciascun cittadino deve sostenere per mantenere
in piedi il parlamento, nonché del numero di cittadini rappresentato,
in media, da ciascun parlamentare. In Italia, ad esempio, ciascun
parlamentare rappresenta in media circa 63mila cittadini. Dal secondo
grafico emerge che i paesi più grandi hanno un numero di cittadini per
parlamentare sistematicamente più elevato. (1)
Pattern
confermato molto chiaramente dal grafico successivo che mostra la
relazione fra la popolazione di un paese e il numero di cittadini
rappresentati in media da ciascun parlamentare (l’Italia si trova
all’interno del pallino rosso con Francia e Regno Unito). La maggioranza
dei paesi non si discosta di molto da una ipotetica linea a 45 gradi:
al crescere della popolazione cresce proporzionalmente il numero di
cittadini rappresentati da ciascun parlamentare. Posto in altri termini,
i paesi più piccoli hanno, in proporzione, parlamenti più grandi. Il Belgio ha
una popolazione circa otto volte inferiore a quello della Germania, ma
il suo parlamento non è otto volte più piccolo, dunque (ignorando le
differenze di salario) i cittadini belgi spendono di più,
pro-capite, per mantenere i loro parlamentari. I confronti che spesso
vengono fatti con gli Stati Uniti, con una popolazione circa cinque
volte maggiore di quella italiana, possono dunque essere fuorvianti.
Dovremmo piuttosto confrontarci con paesi quali la Francia o il Regno
Unito. Quello che emerge è che il nostro parlamento, almeno a giudicare
dal confronto con paesi comparabili, è probabilmente sovradimensionato (si colloca al di sotto della ipotetica retta a 45 gradi) ma che un dimezzamento non è giustificato. Una riduzione a650 parlamentari in totale porterebbe l’Italia più o meno in linea con gli altri paesi qui considerati.
Il costo dei parlamentari
Il
grafico successivo mostra, per un sottoinsieme di paesi, il costo per
cittadino (ossia il monte salari diviso per il numero dei cittadini): è
abbastanza evidente che i paesi più piccoli si sobbarcano in media costi
maggiori. (2)
Dunque,
i parlamenti hanno grandezze comparabili in tutti paesi e il criterio
che determina la loro dimensione non è il costo pro-capite. Perché? Per
due motivi soprattutto. Il primo è che per rappresentare in modo
adeguato la cittadinanza non si possono avere parlamenti troppo piccoli.
Chi insiste, giustamente, sul fatto che in parlamento debbano entrare
categorie sottorappresentate (ad esempio le donne), non può anche
chiedere di dimezzare il numero dei parlamentari senza porsi il problema
di chi avrà accesso a un parlamento dimezzato. È possibile che il costo
di minore rappresentanza possa essere più alto per la società del costo
dello stipendio dei parlamentari? Non solo credo che sia possibile, ma
anche altamente probabile.
Il secondo motivo è organizzativo:
anche i parlamenti si fondano su specializzazione e divisione del
lavoro e le commissioni parlamentari istituzionalizzano proprio questa
necessità. Non si può voler dimezzare il numero dei parlamentari e
pensare che la qualità nello scrutinio delle leggi non ne risenta.
Infine, come si evince dai grafici, l’Italia è sicuramente
sovradimensionata nei confronti internazionali, ma è tutto sommato in
buona compagnia: non c’è dunque nessuna anomalia italiana quanto a
numero di parlamentari. Non tale, quantomeno, da giustificare un
dimezzamento.
Se si vogliono ridurre le spese, meglio allora sarebbe ridurre gli stipendi anziché il numero dei parlamentari. Come ampiamente dimostrato da più parti, la vera anomalia italiana è l’entità degli stipendi dei parlamentari, non la dimensione del parlamento.
Se si vogliono ridurre le spese, meglio allora sarebbe ridurre gli stipendi anziché il numero dei parlamentari. Come ampiamente dimostrato da più parti, la vera anomalia italiana è l’entità degli stipendi dei parlamentari, non la dimensione del parlamento.
L’ultimo
grafico mostra per l’appunto il rapporto fra il salario di un
parlamentare e il reddito pro-capite del paese: non credo occorrano
molti commenti. Vero è che una riduzione di stipendio potrebbe, in via
di principio, comportare problemi di selezione, ossia
le persone più preparate, che guadagnano abbastanza al di fuori della
politica, potrebbero non trovare conveniente candidarsi. Ma bisognerebbe
allora chiedersi se paesi come la Francia o il Regno Unito, con salari
dei parlamentari molto più bassi di quelli italiani, abbiano anche una
classe dirigente politica che sfigura in confronto alla nostra.
Francamente mi pare di no e il motivo, credo, sia da ricercare nella
motivazione non strettamente economica che ancora spinge tante persone a
occuparsi di politica. Il problema è allora piuttosto quello di
rimuovere le barriere all’entrata, di cui il salario
non mi sembra la componente più importante. Certo i danni fatti dal
Porcellum e dall’assenza di competizione elettorale sono notevoli.
Comprensibile, dunque, il bisogno non solo di dimezzare, ma di eliminare
totalmente un certo tipo di politici dalle istituzioni. Ma bisogna
stare attenti a non buttare via il bambino con l’acqua sporca.
(1) Nel
grafico non ho incluso gli Stati Uniti perché il numero di cittadini
per parlamentare in quel paese, con una popolazione 30 volte quella del
Belgio, renderebbe illeggibile il grafico.
(2) I valori sono espresso in euro. Gli stipendi dei parlamentari sono stati convertiti in euro a parità di potere d’acquisto.
(2) I valori sono espresso in euro. Gli stipendi dei parlamentari sono stati convertiti in euro a parità di potere d’acquisto.
*Valentino Larcinese: Insegna
alla London School of Economics ed è research associate presso il
centro di ricerca STICERD. Si occupa del rapporto fra istituzioni,
processi di decisione collettiva e politiche pubbliche. Ha pubblicato
ricerche riguardanti il comportamento politico dei mass media, l’impatto
di quotidiani e televisione sul comportamento degli elettori, i costi
della politica, il rapporto fra spesa pubblica e risultati elettorali,
gli effetti redistributivi dell’IRPEF. Si è laureato in Discipline
Economiche e Sociali presso l’Università Bocconi di Milano ed ha
conseguito il PhD in Economia presso la London School of Economics.
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