“C’è una linea sottile tra l’avere torto ed essere dei visionari.
Sfortunatamente per vederla si deve essere dei visionari”
(Sheldon Cooper, The Big Bang Theory)
Il libro di Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perchè la
fine della moneta unica salverebbe salverebbe democrazia e benessere in
Europa, Imprimatur , Roma 2012) è un libro utile sia lo si condivida
nelle sue tesi di fondo sia, come nel nostro caso, pur apprezzandone i
meriti, si abbiano su punti chiave opinioni diverse.
Il libro è utile in primo luogo perché rappresenta uno sforzo
divulgativo di alto livello; ciò consente a molti di potere comprendere
il merito di complesse questioni economiche e di potere quindi
partecipare a una discussione, sulle sorti dell’Italia, che si vuole
ristretta a minoranze tecnocratiche.
In secondo luogo perché è tra i primi, e altrettanto sicuramente lo
fa con massima radicalità, che da noi pone la questione della
dissoluzione dell’unione monetaria, e propone seccamente l’uscita
dall’euro: una posizione che in varia forma ha preso il largo, e oggi
molti, in un modo o nell’altro, vi aderiscono, senza avere forse il
coraggio dell’estremismo della tesi di Bagnai. Tesi discussa, da almeno
due – tre anni, da altri economisti non ortodossi italiani (tra gli
altri, Bellofiore, 2010), e comunque ben presente nel dibattito tra gli
economisti a livello internazionale. I dubbi sulla sostenibilità
dell’euro risalgono per altro alla sua stessa nascita. (Gaffard, 1992;
Grahl, 1997; in tempi più recenti Vianello, 2013, e per un inquadramento
generale Toporowski 2010 e Wray 2012)
Non era difficile, in verità, predirlo. Durante la fase del
cosiddetto SME credibile (dal 1987 agli inizi del 1992), con cambi fissi
fra le valute aderenti, situazione allora vista come una sorta di
antipasto della moneta unica, le contraddizioni si andarono accumulando
sino all’esplosione.
Prima di passare alle nostre osservazioni critiche vanno messi nella
dovuta evidenza i punti importanti che il libro mette in luce.
Dice innanzi tutto una cosa sacrosanta. Ogni economia vive di debito.
Può essere il debito che l’imprenditore schumpeteriano ottiene
dall’autentico banchiere che scommette su di lui, e che si vede ormai
poco in giro. Anche il debito pubblico ha i suoi meriti. Basta vedere
come nella crisi, benché tutti parlino male del debito pubblico, anche
quando la crisi si dice provenga dalla crisi della finanza pubblica,
nell’incertezza la caccia è innanzi tutto ai titoli di debito pubblico.
Dopo di che giustamente Bagnai dice, attenzione che il debito privato è
più rischioso e pericoloso del debito pubblico, e aggiunge, ancora a
ragione, il vero problema è il debito estero.
E’ evidente che se c’è un debito c’è un credito. I bilanci dei
macro-operatori – il settore privato, il settore pubblico ed il settore
estero – sono connessi tra di loro, e tutti e tre insieme danno un saldo
nullo. Se, per esempio, il settore estero fosse in pareggio, e se ci
fosse un surplus del settore privato, ci deve essere un corrispondente
deficit del settore pubblico. Se l’area dell’eurozona avesse un bilancio
con l’estero pari a zero (ed è stato grosso modo così fino a un paio
d’anni fa, ora il saldo è in leggero attivo), allora, perché ci sia un
avanzo del settore privato, questo richiederebbe un bilancio negativo
dell’operatore pubblico. Da questo punto di vista, si deve dire, i
movimenti per il non pagamento del debito commettono spesso un errore
elementare, si dimenticano che non pagare il debito vuol dire non pagare
il creditore, ed è rilevantissimo a questo punto chi sia il creditore, e
se sia possibile discriminare i creditori; tra i creditori dello stato
vi sono spesso famiglie di classe media, non particolarmente ricche. La
crisi dell’Europa, come altrove, non è affatto una crisi del debito
pubblico ma è semmai una crisi del debito privato scaricata sulle
finanze dei governi.
Il terzo punto importante – ed è questo, a noi pare, il fuoco del
discorso di Alberto Bagnai – è l’attenzione prevalente, qualche volta
addirittura esclusiva, al bilancio con l’estero, cioè alla bilancia dei
pagamenti, ma forse più ancora alla bilancia delle partite correnti, e
forse più ancora alla bilancia commerciale.
Indubbiamente, si tratta di un punto di vista importante per capire
cosa sta succedendo in Europa, e nell’eurozona. Alcuni di noi –
Bellofiore, assieme a Joseph Halevi – lo sostennero nel 2005 per un
convegno di economisti italiani eterodossi, i quali ritenevano all’epoca
che il problema cruciale fosse il Patto di Stabilità e la proposta da
farsi la stabilizzazione del disavanzo dello stato. Noi lo vedevamo
piuttosto come un’imposizione di natura prettamente politica, tant’è che
fu infranto a ripetizione senza che ne subissero conseguenze paesi come
la Germania e la Francia, e ritenevamo che i problemi strutturali
richiedessero nel medio-termine di concordare, o imporre, un aumento del
rapporto disavanzo/PIL in una logica di piano del lavoro. La questione
dei disavanzi di partite correnti è sicuramente cruciale per comprendere
come si configurano le relazioni tra nazioni e aree regionali in questo
continente. Dopo un paio d’anni il tema degli squilibri commerciali
interni all’eurozona è entrato nell’orizzonte degli economisti critici
prendendosi la rivincita, perché quegli squilibri sono a questo punto
diventati per loro il problema, attribuito per di più sic et simpliciter
alla moneta unica; come più avanti argomenteremo meglio, questa tesi,
che sembra condivisa da Bagnai, a noi pare una semplificazione
eccessiva, come hanno ben messo in evidenza, in un loro recente saggio,
Simonazzi (et al. 2013)1.
Alberto Bagnai nel suo libro disegna molto bene la situazione
squilibrata dell’economia europea, per cui c’è un’area, grosso modo il
Centro Nord, in attivo sistematico, difeso ferreamente, e c’è l’area dei
PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna e Grecia), il Sud Europa più
l’Irlanda, che invece è in passivo. Bagnai quasi identifica la prima
area con la Germania, si tratta invece della Germania con i suoi
“satelliti”, una cosa un po’ diversa ora che anche quel blocco sta
disgregandosi. E’ vero comunque che ereditiamo una divisione dell’Europa
in due blocchi, da un lato quelli che esportano più di quanto
importano, non solo all’esterno ma anche all’interno dell’area, e
dall’altro quelli che importano più di quanto esportano. Tra i satelliti
vi erano, almeno fino a poco tempo fa, l’Olanda, il Belgio, cui si
aggiungevano la Svizzera e la Danimarca, che però stanno fuori
dall’euro, vi erano poi l’Austria, la Finlandia, e ancora la Svezia che è
fuori dall’euro. Bagnai chiarisce gli effetti devastanti di questa
frattura, come questa divisione in due esistesse prima della nascita
dell’euro, come sia stata aggravata dalla moneta unica.
Un quarto punto, infine, è il giusto rilievo dato da Bagnai al
divorzio Tesoro-Banca Centrale del 1981, come un vero e proprio
spartiacque nella storia italiana recente. Tale decisione – il divieto
per la Banca centrale di garantire in asta il collocamento integrale dei
titoli offerti dal Tesoro e il ricorso quindi, senza salvagenti, al
mercato finanziario per finanziare lo Stato, con il conseguente aumento
vertiginoso dei tassi d’interesse – è, infatti, assimilabile alla
controrivoluzione reaganiana e thatcheriana. Un evento catastrofico
nelle sue conseguenze, all’origine dell’esplosione del debito pubblico,
un segno del cambio di regime, assieme alla sconfitta alla Fiat nel
settembre-ottobre 1980, che sanzionò la svolta nei rapporti di forza tra
le classi, nel senso che “chiuse” i primi conti di una strategia di
normalizzazione iniziata a metà degli anni Settanta, aprendo così la
nuova fase.
Le nostre osservazioni critiche riguardano in primo luogo la storia
dell’esperienza dell’euro come è ricostruita da Bagnai. Prima è utile
ricordare che nell’analisi e nella proposta di Bagnai un concetto
cardine, assieme all’indipendenza o meno della Banca Centrale, è la
sovranità monetaria ed è per lui il criterio con cui analizzare le
diverse fasi della storia economica italiana recente: prima e dopo la
perdita della sovranità monetaria, a causa dell’adesione all’euro, e,
durante le diverse fasi della partecipazione allo SME.
La differenza di valutazione nasce da una diversa idea dell’unità
d’analisi necessaria a comprendere quanto è accaduto. Il discorso di
Bagnai è spesso troppo rinchiuso nel contesto dell’eurozona, per di più
con una opposizione troppo secca tra la Germania e il resto dei paesi.
L’Europa sta nel mondo.
La storia dell’esperienza dell’euro, che va divisa tra il periodo
degli albori (1999-2002) e poi la fase di realizzazione (2003 – 2013),
appare in questa prospettiva alquanto diversa. Il disegno della moneta
unica è un progetto francese, non tedesco. E’ un progetto costruito nel
mondo di prima, non la risposta alla caduta del muro. L’idea dietro il
trattato di Maastricht la superiorità del capitalismo europeo-
continentale contro quello USA, salta in aria tra il 1992 e il 1993
proprio a causa della caduta del muro. Come l’Araba Fenice, è risorta
dalle sue ceneri qualche anno dopo per più motivi, tra i quali la
relativa debolezza (allora) della Germania e il grande rilancio
egemonico del capitalismo USA. Ciò che bisogna capire è che gli anni
Novanta sono un decennio in cui la Germania è rivolta al suo interno, e
patisce una qualche debolezza verso l’esterno, e ha dovuto accettare una
moneta unica “larga” e non “stretta”, come probabilmente nelle sue
intenzioni, cioè comprendente soltanto i suoi satelliti, ed
eventualmente la Francia. Costretta a cedere, la Germania ha agito come
sempre, dal Trattato di Maastricht alla crisi più recente: “scambiando”
ogni passo in avanti verso una unione monetaria più integrata, con la
previa imposizione di vincoli stretti sulla finanza pubblica (allora
furono, prima i parametri sulla finanza pubblica, poi il Patto di
Stabilità, negli anni a noi più vicini il Fiscal Compact). Salvo essere
lei stessa, sinora, a infrangerli – non si dimentichi che la stessa
ripresa ormai evanescente dell’economia tedesca degli anni più recenti è
dovuta in primis a (intelligenti) politiche attive di disavanzo
keynesiano in risposta alla crisi del 2008.
Perché andò in questo modo? L’euro riparte perché negli anni Novanta
gli Stati Uniti diventano di nuovo un traino dell’economia mondiale,
nelle forme contraddittorie della new economy. Sono anni in cui i tassi
di interesse, oltre che l’inflazione, declinano, mentre i tassi di
crescita degli Stati Uniti forniscono sbocchi alle economie
neomercantiliste, come quella tedesca e italiana. In occasione del primo
decennio della moneta unica, un attimo prima che la crisi investisse
l’Europa, nel 2008, si sono sprecate le iniziative e gli articoli che ne
celebravano il successo. Al di là di crederci o non crederci va
spiegato per quale motivo la moneta unica è parsa, fino alla crisi, un
modello di successo, e per quale ragione l’area europea sia poi
sprofondata nella crisi. La nostra tesi, a differenza di quella di
Bagnai, è che l’elemento scatenante non sia affatto riconducibile alla
bizzarra costruzione dell’euro, per le sue contraddizioni (che ci sono).
Non sono stati gli squilibri commerciali, e neanche quelli della
finanza pubblica. E’ stata una crisi importata dall’esterno, un rimbalzo
violento della crisi globale nata negli Stati Uniti. Una grande crisi
del capitalismo. Questo segna una novità enorme.
Noi parliamo di una
crisi dell’Europa e dell’euro dentro una crisi finale del neoliberismo,
cioè dentro una crisi lunga, di quelle che segnano uno spartiacque tra
una fase e l’altra del capitalismo: e noi siamo nel bel mezzo della
transizione, senza poter intravedere lo sbocco. Ogni parallelo tra
un’eventuale uscita dall’euro e svalutazioni precedenti, che è
l’argomento centrale di Bagnai sul perché e sul come bisogna uscire
dall’euro, è inficiato anche solo per questa considerazione.
La crisi europea non nasce dall’interno, nasce dal crollo del modello
di capitalismo anglosassone, il cui centro sono stati gli USA, basato
sul consumo a debito e su un certo tipo di finanza. E’ quel modello che
ha consentito ai modelli neomercantilisti, che fanno profitti dalle
esportazioni nette, di prosperare, trovando sbocchi alle proprie merci.
Le due cose vanno in qualche modo legate, e qui il libro ha un buco, non
lo fa, ed è un limite non da poco. Non si può replicare che è
un’obiezione illegittima, un parlare d’altro. Si parla della cosa
stessa.
Infatti, il progetto dell’euro e il suo concreto svolgimento,
contraddizioni comprese, sono difficilmente comprensibili senza
riferirsi all‘economia reale, all’obiettivo cioè, prima francese, coi
campioni settoriali governati politicamente, poi tedesco, con la
selezione naturale per via di mercato e di capacità innovativa, di
costruzione di un unico capitalismo europeo industriale e manifatturiero
che privilegiasse le esportazioni. L’assunto implicito di tale scelta
era che la globalizzazione in concreto significasse l’inizio di una
guerra commerciale globale per conquistare i nuovi mercati emergenti,
nel mentre si doveva consolidare il mercato interno europeo come il
“cortile di casa” di questo nuovo capitalismo europeo. Un cortile di
casa il cui obiettivo strategico era quello di posporre ogni altra
considerazione alla competitività delle sue industrie con una
discriminazione interna, verificata sia dalla capacità di ciascuna
impresa di occupare il mercato interno che quello globale. In questa
prospettiva le bilance commerciali sono sì un indicatore chiave, ma un
indicatore, appunto, di una gigantesca e continua ristrutturazione
industriale e di ridefinizione del potere di mercato delle singole
imprese, non solo in Europa ma a livello globale. In questa prospettiva
neomercantilistica e di forzatura sulla competitività si capisce meglio
come il destino dell’euro sia fortemente dipendente dall’economia
globale, più specificatamente dal livello di sovrapproduzione relativa
sia a livello globale sia tra le aree geopolitiche; in questa partita le
scelte politiche e istituzionali delle autorità nazionali e
sovranazionali hanno un peso rilevante.
Alberto Bagnai propone, con molta coerenza e con molta chiarezza, che
è bene uscire dall’euro, senza se e senza ma. Il sottotitolo del suo
libro recita: “come e perché la fine della moneta unica salverebbe
democrazia e benessere in Europa”. Per rispondere alle critiche a questa
prospettiva, che non può non dar luogo a una subitanea svalutazione,
per valutarne conseguenze e dimensioni, Bagnai ripercorre alcuni degli
episodi passati di svalutazione del nostro paese. Lo fa però, di nuovo,
quasi come se il quadro storico, il contesto generale e le scelte
politiche e istituzionali non contassero. Non è così. La vicenda del
cambio del nostro paese è più articolata, e piena di insegnamenti.
E’ utile partire da una crisi in cui la svalutazione non ci fu, la
crisi del 1963-1964. Vigeva allora il sistema dei cambi fissi (benché
aggiustabili) pattuito a Bretton Woods. Le lotte salariali, conseguenza
del pieno impiego nel triangolo industriale seguita agli anni ruggenti
del miracolo economico di fine Cinquanta-primissimi Sessanta,
rovesciarono in un anno solo il rapporto salario-produttività dal 1950.
Eravamo uno stato-nazione indipendente, con sovranità monetaria, e una
Banca Centrale non autonoma dal Tesoro, condizioni ottimali nell’ipotesi
di Bagnai. Il Governatore della Banca Centrale, malgrado ciò optò per
una difesa strenua dei margini di profitto delle imprese per il tramite
di una strategia inflazionistica, sostenendola con la tesi che alti
profitti significavano alti investimenti, e per questo andavano
ristabiliti. L’esito fu un passivo della bilancia commerciale (in verità
erano andati in rosso anche i movimenti di capitale, per fughe
illegali), che fu assunta come motivazione di una svolta a 180 gradi,
verso una deflazione della quantità di moneta, e quindi una caduta degli
investimenti, del reddito, dell’occupazione. I capitalisti italiani –
questa purtroppo è una storia di lungo periodo e a nostro parere (che
qui seguiamo Marcello De Cecco) all’origine delle traversie del nostro
paese – hanno avuto un’incapacità di reagire a quel conflitto
distributivo in un’ottica di qualche respiro.
A conferma di quanto dice De Cecco, è bene ricordare che, caduto il
fascismo, la scuola liberale, sfruttando anche la scelta delle sinistre
di lavorare per la ricostruzione del paese senza porre problemi di
controllo statale dell’economia, attuò una politica liberista pura,
unico paese del dopoguerra, senza porsi un problema di transizione, anzi
“volendo consolidare i vecchi rapporti economico-finanziari,
all’interno dei gruppi privati e fra tali gruppi e l’apparato statale”
(Daneo 1975:155). L’Italia, infatti, spicca, tra i paesi europei
destinatari del piano Marshall, per una politica economica a tal punto
di rigorosa cautela da provocare le critiche dell’amministrazione
americana dei fondi ERP (European Recovery Program). Insomma, nel mentre
in Europa si sviluppava il piano Beveridge, in Inghilterra e il piano
Monet in Francia, in Italia si attuava un riaggiustamento selvaggio
secondo principi liberisti – un ritirarsi dello Stato – motivato dal
fatto che la presenza dello Stato in assenza del controllo poliziesco
sui lavoratori ed il sindacato era potenzialmente pericoloso. Si
determina così un intreccio perverso tra liberismo, proclamato in chiave
di controllo sociale, e politiche di freno alla crescita della base
produttiva (nel 1946 la produzione industriale fu pari ad un terzo delle
possibilità tecniche, Daneo, 1975: 155). La situazione divenne a tal
punto ingovernabile – una iperinflazione fuori controllo – che nel ’46
si ebbe un parziale sblocco dei licenziamenti ed una tregua salariale la
tregua salariale che aprì la strada, nel ’47, alla svolta deflattiva:
la così detta stabilizzazione che si tradusse in una stagnazione
produttiva rotta solo negli anni ’50 (Daneo, 1975).
Ciò che si vuole metter in luce è che l’uscita dal fascismo,
riaprendo una sia pur timida, ipercentralizzata e fortemente controllata
dalla convenienza politica, dinamica tra capitale e lavoro, spinge i
gruppi dirigenti a respingere l’idea, affacciata da Togliatti, di un
patto di solidarietà nazionale, cioè di una uscita lunga e regolata
dalle distruzioni della guerra – come in Inghilterra e Francia -e dalla
ingessatura fascista della società e dell’economia italiana. Liberismo
significa liquidare l’ingerenza statale fascista e lasciare che il
mercato si autoregoli ma, quando l’ipotesi naufraga nella
iperinflazione, allora si dà inizio ad una ristrutturazione finanziata
dallo Stato e dai fondi ERP (Daneo , 1975), in una ipotesi di rigorosa
cautela, sfruttando la moderazione rivendicativa e salariale offerta per
favorire la ripresa. L’idea che la rottura con lo stato fascista
significasse introdurre i diritti sociali, in corso di affermazione in
Inghilterra, veniva esplicitamente scartata; impressionante in uno
scritto di Einaudi (1942), il brano riportata da Daneo (1975: 109):
anche là dove la macchina comanda, dove la concorrenza impone al
massimo la divisione del lavoro, importa porre una diga, molte dighe al
dilagare del livellamento (…) ponendo un limite al crescere delle città
industriali.(…) Se anche ne andrà di mezzo una parte, forse grande,
della moderna legislazione sociale di tutela universale e sulle
assicurazioni in caso di malattie, disoccupazione, vecchiaia,
invalidità, se anche ne usciranno stremate le organizzazioni coattive in
cui oggi i lavoratori sono classificati [i sindacati], poco male. Anzi,
molto bene, se così avremo ridato agli uomini il senso della vita
morale, della indipendenza materiale e spirituale.
Questo pensiero einaudiano ricorda niente?
Alla metà degli anni Sessanta vivemmo dunque una ristrutturazione
senza investimenti. La ripresa dell’accumulazione della fine degli anni
Sessanta fu dovuta in primo luogo ad un aumento selvaggio dell’intensità
di lavoro, ben rappresentato in film come La classe operaia va in
Paradiso. E’ da allora che si è imboccata la via della crisi della
grande industria, e dello smantellamento di buona parte della nostra
base industriale.
Il secondo grande episodio inflazionistico, in condizioni non poco
diverse, è quello degli anni Settanta. Il sistema di Bretton Woods
collassa tra il 1971 e il 1972, e l’Italia entra nel mondo dei cambi
flessibili tra il 1972 e il 1973, dopo una presenza fugace nel serpente
monetario. Gli aumenti di salario superiori agli aumenti di produttività
furono accompagnati da una serie di svalutazioni tra il 1973 e il 1979.
Quello che, con riferimento al 1974-1975, fu chiamato il processo di
disinflazione dell’economia mondiale non fu un processo neutrale
rispetto alle classi e non può essere letto solo in termini di economia
nazionale. Si poteva scegliere tra diverse modalità e si scelse di fare
precipitare ciò che in teoria (con i cambi fluttuanti, in particolare)
avrebbe dovuto evitare, una prova di forza interna verso il movimento
operaio e sindacale. (Biasco, 1979: 120-123)
Alberto Bagnai ne parla, ma a noi pare non ne chiarisca gli aspetti
più significativi: importanti, perché il “successo” di quella manovra,
se così lo si vuole chiamare, venne dal tipo particolare di svalutazione
che fu praticata, e dal particolare contesto internazionale che la
rendevano possibile. Il contesto internazionale era quello di un dollaro
che tendeva alla svalutazione rispetto al marco. La scelta politica
delle autorità di politica economica fu di agganciarci al dollaro, e
dunque di svalutarci rispetto al marco, riducendo l’impatto negativo dal
lato delle importazioni (dove la valuta significativa era per noi
quella statunitense), massimizzando l’impatto positivo sull’esportazione
(la nostra area principale di sbocco essendo al contrario l’area del
marco).Ciò consentì di dare una mano alle imprese nel conflitto
distributivo con i salari. Una svalutazione “differenziata” e non
socialmente neutrale.
L’altra cosa di rilievo che ci pare assente nel libro di Alberto
Bagnai è che le svalutazioni degli anni Settanta furono svalutazioni
eccedenti quella che era stata l’inflazione passata, e la cosa non si
ripeté successivamente. Per questa ragione negli anni Settanta le
svalutazioni offrivano subito un vantaggio competitivo alle industrie
italiane, cosa che non accadde più in seguito. Per Bagnai la possibilità
di un rilancio produttivo a seguito di una inflazione guidata, come
secondo lui, sarebbe possibile nel caso di un abbandono unilaterale
dell’euro da parte dell’Italia, è un dato incontestabile. Non fu così
allora.
Le imprese italiane, infatti, cosa fecero nella loro grande
maggioranza? Fecero, mutatis mutandis, come negli anni Sessanta rispetto
alla manovra prima inflazionistica e poi deflazionistica: accolsero con
gratitudine l’aiuto, alzarono i prezzi, e si guardarono bene da un
impiego del vantaggio competitivo che così era loro temporaneamente
concesso per migliorare in modo strutturale e permanente sui mercati
esteri, a differenza di ciò che fece ad esempio la Germania. E’ chiaro
che una risposta di lungo periodo al conflitto distributivo sarebbe
stata l’aumento della produttività attraverso una strategia di
investimenti. Negli anni Settanta l’industria italiana usò invece la
svalutazione non per aumentare le quote di mercato, ma per aumentare i
prezzi, dissolvendone rapidamente i vantaggi senza lasciare un sedimento
positivo permanente.
Nel 1976 ci fu un altro picco di svalutazione. Eravamo anche qui uno
stato sovrano, con la propria Banca Centrale, non divorziata dal Tesoro.
Non di meno dovemmo ricorrere all’FMI, che ci impose (a noi come alla
Gran Bretagna) delle condizioni dure. La storia degli anni successivi fu
dovuta anche a ciò, oltre alla circostanza che il Partito Comunista
Italiano aderì alla politica di solidarietà nazionale. La svalutazione
fu, da molti punti di vista, un’occasione persa. E un episodio della
normalizzazione e ristrutturazione del “caso” italiano: per quello
disegnata, per quello agita.
Gli anni Ottanta sono tutta un’altra storia, divisa per di più in due
fasi, se non tre. Il periodo dal 1980 al 1987 è caratterizzato dal
fatto che l’Italia, che è entrata nel Sistema Monetario Europeo, vive sì
altre svalutazioni, ma queste ultime sono sempre inferiori
all’inflazione passata, non consentono perciò alcun recupero del
guadagno competitivo, e non permettono di conseguenza alle imprese di
proseguire nella strategia accomodante sul terreno del salario. Secondo
autori come Giavazzi e Pagano vi sarebbero dei vantaggi nel “legarsi le
mani”. Si può così razionalizzare la scelta di aderire allo SME. La
Banca d’Italia, in accordo con il Tesoro, era convinta che impedire
svalutazioni “competitive” avrebbe imposto la ristrutturazione del
sistema produttivo italiano (il che fu vero, ma in termini di puro
adeguamento tecnologico, non di autentica innovazione, come sostiene a
ragione Graziani, 2000). E si era per di più convinti, del tutto a
torto, come Bagnai dimostra e come tutti dovremmo sapere, che in questo
modo si costringeva lo Stato a spendere meno. La spesa sociale corrente
iniziava a venire compressa, è vero, ma, al suo posto, cresceva la spesa
per interessi, dato il forzato ricorso del governo al finanziamento sul
mercato dei titoli, a causa del divorzio tra la Banca d’Italia e il
Tesoro avvenuta nel 1981, in un decennio di alto costo del denaro.
L’aumento del rapporto debito pubblico/PIL è poi da attribuire in larga
misura all’andamento del denominatore.
Un’altra cosa che va detta è che in questi anni la situazione del
cambio marco-dollaro si è totalmente invertita nella prima metà degli
anni Ottanta: è il dollaro che tende a rivalutare, mentre il marco tende
corrispettivamente a svalutarsi. La politica della svalutazione
differenziata non era più praticabile. C’è un interludio, 1985-87 (un
interludio in cui cambia di nuovo la situazione globale sul terreno dei
cambi). Dal 1980 al 1985 la lira godeva di una banda di oscillazione più
larga di quella concessa agli altri aderenti all’accordo valutario, dal
1985 al 1987 rientra nella fascia ristretta. Si arriva così al periodo
dello SME credibile, 1987-1992. Una cosa che va detta, e lo stesso
Bagnai a un certo punto del suo libro la ricorda, è che non esiste il
mercato libero dei cambi. I cambi sono sempre sporchi, la loro
fluttuazione sempre manovrata. Francesco Farina, Adriano Giannola e Ugo
Marani all’epoca sostennero, a ragione, che in quel periodo la lira
fosse una valuta forte (tanto che premeva sulla fascia superiore, non
quella inferiore della banda di oscillazione) perché la Banca Centrale
manteneva il tasso d’interesse più alto di quanto sarebbe stato
richiesto dalle altre condizioni dell’economia, incluso lo stato della
finanza pubblica3. La ratio era, ancora una volta, quella di premere
sulla ristrutturazione interna delle imprese e sulla compressione del
disavanzo pubblico di parte corrente al netto degli interessi. E così
dall’inizio degli anni ’90 che noi viviamo in un universo di avanzi
primari del settore pubblico che si accumulano, senza sollievo alcuno
della situazione.
In queste vicende ebbe un ruolo significativo l’accordo sulla scala
mobile del dicembre del 1975 che tutelava il salario lordo della gran
parte dei lavoratori al 100%. Ottima cosa, si dirà. Peccato che era
entrato in vigore, da pochissimo, un sistema fiscale progressivo, per
cui quando aumentavano i redditi monetari (per esempio i salari, causa
l’inflazione elevata, a sua volta favorita dalla svalutazione),
aumentava il prelievo fiscale, e dunque il salario reale al netto delle
tasse cadeva anche se era tutelato al lordo. Quei soldi cosa sono andati
a finanziare? Sono andati a finanziare la ristrutturazione dell’impresa
privata, dentro il nuovo quadro di rapporti di forza che si andava
delineando. A questo era servita la svalutazione di uno stato sovrano
monetariamente.
Insomma, la storia della svalutazione, è una storia complicata:
sempre segnata dal rapporto capitale-lavoro, dalle vicende
dell’industria e delle banche, dalle scelte autonome di politica
economica. E quando non c’era l’euro, l’imposizione si chiamava comunque
vincolo esterno.
Arriva il 1992. Non fu una catastrofe, ci dice Bagnai. No, la
svalutazione del 1992 non fu una catastrofe: se non per un soggetto. Non
che si stesse bene prima (il declino dell’autonomia sindacale data
dalla seconda metà degli anni Settanta, e aveva vissuto già gravi colpi
come la Fiat o il referendum della scala mobile). Ma certo la pietra
tombale sulla scala mobile, per quel poco che ne era rimasto, e l’inizio
di una lunga lotta di svuotamento della contrattazione nazionale
collettiva, hanno nel 1992 un anno di realizzazione e drammatica
accelerazione.
Lamberto Dini, allora Direttore Generale della Banca d’Italia, al
convegno dell’AIOTE (associazione degli operatori in titoli esteri) nel
Giugno del 1993, invitò le imprese “a trasformare il margine offerto dal
più basso valore della lira in un duraturo guadagno di competitività e
di quote di mercato, piuttosto che in un effimero recupero di profitti” e
definì la manovra come il raggiungimento di “una dinamica del costo
unitario del lavoro che seguiti ad essere allineata a quella dei
principali paesi concorrenti“, costruendo così i “capisaldi di un
circolo virtuoso, che potrà coniugare aggiustamento della bilancia dei
pagamenti, rientro dell’ inflazione e stimolo allo sviluppo. Ne
conseguirà per l’economia la possibilità di beneficiare anche di una
sostenibiletendenza al ribasso dei tassi di interesse reali e di un
cambio stabile“. Se l’economia italiana “procederà lungo la strada
intrapresa – disse Dini – quella del risanamento della finanza pubblica
della moderazione nella dinamica dei redditi, potrà trasformare il
trauma della svalutazione in una rinnovata occasione di crescita del
prodotto e dell’occupazione”. Su questa base fu costruito l’accordo di
concertazione del 1993, ma del circolo virtuoso non ci fu traccia e,
dopo due anni, fonti sindacali4 già denunciavano la deriva di
quell’accordo nella direzione di una riduzione drastica del peso del
monte salari nel reddito nazionale.
“Noi” riacquistammo allora la sovranità monetaria, dice Bagnai. Ma
chi è quel “noi”. Il popolo italiano? Lo stato italiano? La svalutazione
fece ripartire la piccola impresa (la grande impresa privata entrava in
una crisi con pochi margini di respiro, quella pubblica venne di fatto
svenduta), e certe regioni del paese. L’inflazione, è vero, non ripartì,
perché i salari vennero compressi, complice la concertazione, e perché
la torsione verso l’austerità divenne ora sistematica. Il riaggancio
all’euro fu comunque dovuto alla ripresa della new economy, alla caduta
esogena dei tassi d’interesse, al rallentamento dell’inflazione
importata, e così via.
Non sapremmo trovare parole migliori su quella esperienza quelle che
pronunciò Augusto Graziani nel 1994 ad un convegno sullo SME – parole
che sono di monito a chi veda nell’uscita dall’euro e nella conseguente
svalutazione una sorta di “salvezza”:
c’è un altro problema, cioè che questo ritorno a una politica della
svalutazione come protezione delle esportazioni e della politica di
sviluppo guidata dalle esportazioni è una politica che, da un lato, ha
degli effetti diseguali dal punto di vista territoriale sullo sviluppo
del nostro paese perché avvantaggia largamente le regioni della piccola e
media impresa esportatrici, mentre penalizza tutte le altre regioni che
non sono in grado di trarre vantaggio dalla svalutazione. E poi è,
ancora una volta, una politica di sostegno all’industria, attraverso la
svalutazione e non attraverso l’avanzamento tecnologico. 5
Nel libro di Bagnai, non a caso, vi è un’assenza assoluta di analisi
della struttura industriale ed economica europea, prima e dopo l’Unione
Europea e la creazione dell’Euro, e delle ragioni geopolitiche, oltre
che economiche, del modificarsi dei rapporti interni all’area dei paesi
aderenti all’Unione Europea. Analisi, queste, che sono essenziali per
spiegare il perché del successo della politica neomercatilista tedesca e
la direzione dei processi di ristrutturazione messi in moto dalla
nascita dell’Unione Europea e dell’Unione Monetaria Europea (Bellofiore,
2013; Simonazzi, et al, 2013, Bellofiore e Garibaldo, 2011, Garibaldo
et al., 2012). In questa prospettiva analitica gli aspetti qualitativi
della produzione e il posizionamento relativo dei settori chiave dei
singoli paesi nella divisione del lavoro globale e interna all’Unione
Europea acquistano un carattere discriminante nel giudicare i margini
odierni di una classica manovra di inflazione/svalutazione; di qui i
dubbi espressi da Simonazzi (et al, 2013: 670-673) sul fatto che
manovrando solo le leve macroeconomiche senza mettere mano a scelte di
politica industriale e di politica sociale e del lavoro si possa uscire
dalla drammatica situazione attuale.
Il secondo gruppo di obiezioni che facciamo al libro di Bagnai
riguarda il ruolo delle tecnocrazie sovranazionali, la BCE in Europa ad
esempio, e nazionali, la FED negli USA e quello delle autorità
politiche, ad esempio il governo Abe in Giappone. Queste autorità hanno
un mandato manifesto, definito per legge, ma anche spesso un’agenda non
manifesta, una strategia che discende non solo da una valutazione della
realtà ma da un progetto d’intervento trasformativo della realtà.
Proviamo, per esempio, a prendere sul serio Mario Draghi quando dice –
in un discorso a Londra del luglio dell’anno scorso – che lui farà
whatever it takes per evitare la dissoluzione della moneta unica – al
che fa seguire, un po’ come in un film di Scorsese, la battuta “e vi
assicuro, sarà abbastanza”. Una cosa a cui nel libro non si presta
adeguata attenzione è l’entità del cambiamento istituzionale
nell’eurozona, a partire dalla Banca Centrale Europea, almeno dopo
Lehman Brothers, cioè dopo il settembre 2008, già con Trichet e poi
ancor di più con Draghi. Gli economisti e gli analisti sociali critici,
come noi, sono bravissimi a rivelare la massa di contraddizioni delle
istituzioni europee in un momento dato, e a dedurne (prendendo a questo
punto quel contesto istituzionale come un dato) le catastrofi prossime
venture. Solo che quelle contraddizioni medesime, con le crisi che esse
stesse provocano, impongono, come dice Soros con la teoria della
riflessività, il cambiamento, e quel cambiamento sospende per un po’ la
crisi, e la catastrofe viene rimandata. Non succede per caso, o
reattivamente. E’ parte della strategia di Draghi, e non solo.
Il meccanismo che Mario Draghi ha costruito tra luglio e settembre
dell’anno passato la Outright Monetary Transaction – la promessa di un
acquisto illimitato di titoli di stato sul mercato secondario,
condizionata alla richiesta esplicita degli stati e, in buona misura,
alla loro accettazione di un controllo esterno sulle loro politiche –
non sta in piedi. Infatti, nessuno l’ha chiesta (anche se non crediamo
che il punto di Draghi fosse allora chiedere più austerità, semmai
mettere in sicurezza quanto già gli stati andavano decidendo: come
sempre, un gioco sulle aspettative). Se mai venisse davvero messa in
opera, se ne rivelerebbero tutte le pecche e i problemi che essa
comporterebbe6, come mette in evidenza Stark, uno dei due membri
tedeschi dimessisi della BCE a causa della scelta di Draghi. Fino ad
adesso è bastato l’annuncio perché la situazione di drammatizzazione
sulle sorti dell’euro di un anno fa rientrasse, e gli spread si
sgonfiassero rispetto ai livelli di allora. La riflessività degli agenti
istituzionali, ma anche privati e le scelte non ortodosse che ne
conseguono cambiano la situazione e per esempio può succedere che
l’euro, invece di esplodere subito, abbia la possibilità di
sopravvivere.
Dal nostro punto di vista questo non rappresenta necessariamente un
miglioramento della situazione; Hans-Werner Sinn7 dice che l’unica
strada è “muddling through”, cioè tirare a campare, avrebbe detto
Andreotti. Tirare a campare in questa situazione vuol dire condannare
milioni di persone a una situazione sociale intollerabile.
Draghi utilizza un approccio che può non piacerci, quello secondo cui
in Europa le cose cambiano solo grazie alla crisi, e lo gioca
all’interno di un sapiente progetto politico volto a favorire la
costituzione di un capitale tendenzialmente unificato su scala europea,
che impone regole non soltanto ai lavoratori, ma anche alle varie
frazioni della finanza e dell’industria dell’area. La Merkel si è
alleata a Draghi: ha praticamente licenziato, o accettato il
licenziamento (che è la stessa cosa), di due membri tedeschi della BCE
provenienti dalla Bundesbank, tra cui Stark. Ci sono forze e idee che si
stanno dislocando direttamente su un contesto sovranazionale, europeo.
Per questo progetto l’euro è essenziale, e verrà difeso con
determinazione. Tale difesa interagisce, e interagirà, con i calcoli
strategici della FED, così come con la scelta aggressiva del governo
Abe, in Giappone, e la scelta di riequilibrio tra mercato interno e
strategia esportatrice del governo cinese, mettendo così in moto nuovi
circuiti di riflessività. Questi circuiti interagenti devono fare i
conti con una situazione inedita della crisi globale, una situazione
nella quale ogni attore rilevante, con un ridimensionamento cinese volto
al suo sistema economico, sembra volere ripartire dalla produzione
manifatturiera come fattore guida di una strategia espansiva di tipo
neomercantile.
La sopravvivenza dell’euro nel breve e nel medio termine, in questo
quadro, non può che danneggiare il lavoro e le classi popolari. Senza
peraltro che vi sia garanzia alcuna che la moneta unica sia davvero in
grado di costituirsi su base stabile, fuori dalla tempesta, nel lungo
termine. Per quanti siano gli sforzi, l’euro non potrà che rimandare la
sua fine, se non cambia pelle e natura, o passare, più che attraverso
crisi, attraverso catastrofi (basta ricordarsi come si sono costituite
le unioni monetarie dollaro e lira: non ne sappiamo abbastanza, ma
sospettiamo che non sia troppo diverso per l’unione monetaria marco). La
tendenza deflazionistica implicita non solo nella struttura
istituzionale della moneta unica come fu disegnata al suo parto, ma
anche insita nel disegno di Draghi per spingere ristrutturazione del
lavoro, regolazione delle frazioni del capitale, transizione da una
visione sostanzialmente confederale a una autenticamente federale, non
può reggere a meno che lo sviluppo capitalistico non riparta altrove.
Non si vede però oggi chi sia l’acquirente finale di una strategia
neomercantile, tanto più che gli Stati Uniti vorrebbero essi stessi
tornare a far parte degli esportatori netti. Non si vede delinearsi la
forma del nuovo capitalismo. E’ un quadro aperto, e fosco.
Ma il “tempo comprato” – qui vale più l’inglese, buying time,che il
nostro tempo guadagnato – da Draghi a favore del progetto dell’euro
significa due cose importanti. Ci rammenta che il problema del soggetto
su una scala immediatamente europea non può non porsi anche dal lato del
lavoro e dei movimenti. Davvero non si capisce perché la sinistra, sia
sindacale sia politica, italiana predichi un internazionalismo astratto,
parli così tanto di globalizzazione, ma stia chiusa in un recinto di
analisi e proposte così strettamente nazionale. Lo stesso è vero per
l’atteggiamento degli economisti e degli analisti sociali critici
sull’euro: se si cancella l’unione monetaria all’inizio di un
ragionamento, non è strano che alla fine un’unione monetaria non esista
più nel proprio discorso, e che non si vedano neanche le forze che la
perpetuano. Se la categoria chiave del discorso sulla moneta o
l’industria o la banca è la nazione, se si pensa che non sia comunque
possibile una transfer union, una banking union e così via, è ovvio che
l’euro non può sopravvivere. Draghi tutte queste cose le sa benissimo
(la sua tesi di laurea con Federico Caffè era critica del progetto di
moneta unica!), tant’è che ha definito la moneta unica come un
calabrone: non dovrebbe volare ma vola, ha volato. Se vogliamo che
continui a volare – l’ha detto, evidentemente, dal suo lato della
barricata – si deve produrre un cambiamento strutturale di portata
enorme, perché il capitalismo è cambiato, vive una nuova fase, e questo
cambiamento avverrà spinto dalle crisi. Una coscienza della sfida
analoga latita dal lato del lavoro, dei soggetti sociali, dei movimenti
sociali, come ha osservato recentemente anche Brancaccio (2013), anche
se il suo ragionamento continua a restare nell’ambito di una prospettiva
ancora una volta sostanzialmente nazionale. Più facile, senz’altro,
sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un
ritorno all’economia nazionale è di questa natura, ed è sostanzialmente
consolatorio.
Se dunque l’euro è difficile che alla lunga possa vivere, così com’è,
per le sue contraddizioni interne e se è vero che la determinazione a
farlo vivere è nondimeno potente, allora quello che ci attende – per
citare una poesia famosa di T.S. Eliot – non è che questo mondo finisca
con un bang, cioè con una esplosione, ma con un whimper, con un gemito.
C’era una alternativa alla moneta unica negli anni Novanta? E c’è
oggi, nella crisi, qualcosa che non sia il puro semplice ritorno al
passato? A metà degli anni Novanta vi era, tra gli economisti, già chi
pensava che ci fosse un’alternativa alle monete nazionali, e alla
forbice deflazione competitiva (tedesca) versus svalutazioni (italiane),
un’alternativa che non fosse la moneta unica. Tutti i limiti dell’euro
erano noti ante litteram, basta andarsi a leggere un economista non
certo radicalissimo come Jean Luc Gaffard, su Le Monde Diplomatique del
1992. L’alternativa possibile alla moneta unica è quella che i francesi,
che sono bravissimi nelle distinzioni, chiamano moneta comune. La
differenza tra moneta unica e moneta comune un qualche interesse ce
l’ha. La moneta unica è anche circolante tra i cittadini dell’area. La
moneta comune è invece soltanto mezzo di pagamento tra le banche
centrali aderenti all’unione. Ogni nazione mantiene la sua moneta, i
vari aderenti mantengono cambi fissi ma esistono alla bisogna margini di
flessibilità. Se c’è uno squilibrio grave che nel medio periodo non
possa essere aggiustato dall’espansione dei paesi in avanzo, viene
consentita una svalutazione, mentre intanto la Banca Centrale Europea ha
il potere di far credito alle aree in crisi, come anche ai governi. Non
è un’idea di un’originalità devastante, è l’applicazione all’Europa di
un’idea di Keynes del 1944, è il progetto di una qualche Bretton Woods
europea. In questo orizzonte aveva scritto cose di grande interesse una
marxista solida come Suzanne de Brunhoff (1997).
La nostra convinzione è che una pura e semplice uscita dall’euro non
sia la soluzione, che anzi gli effetti domino possono essere gravi, e la
pressione per l’austerità che ne risulterebbe più e non meno elevata.
Ma non crediamo che cambi il segno di questa uscita dalla moneta unica
la pura difesa del lavoro su scala nazionale, o di un’area particolare
d’Europa (detto tra parentesi, le contraddizioni dell’euro si
ripeterebbero su una scala minore, come se per esempio si volesse
costruire l’Europa del Sud). Quello di cui vi sarebbe bisogno sono
piuttosto lotte coordinate e proposte politiche uniche della sinistra su
scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e dei soggetti
sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente organizzata
e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del disegno
della moneta unica, o della transizione alla moneta comune.
L’alternativa vera che abbiamo davanti non ci pare essere quella tra
esplosione a breve dell’area dell’euro o ritorno alle valute nazionali
in Europa, ma semmai quella tra stagnazione prolungata (funzionale alla
ristrutturazione contro il lavoro, contro le donne, contro i soggetti
sociali) o lotte transnazionali in grado di imporre un vincolo sociale e
un cambio di rotta. La questione autentica non è euro sì euro no, ma
come si devono configurare la lotta di classe e le lotte sociali per
poter riaprire quegli spazi che oggi non possono non apparire, allo
stato delle cose, inesorabilmente chiusi, come in una cappa d’acciaio.
NOTE
1 Si veda anche De Cecco 2012
2 Per uno sviluppo di queste tesi cfr. Riccardo Bellofiore 2013
3 Rimandiamo a Farina 1990, e più in generale al volume di cui quel saggio è parte Giannola-Marani 1990.
4 Si veda Sabattini (1995)
5 Il riferimento è a Graziani (1994)
6 Cfr. De Cecco (2013)
7 Cfr. Sinn (2013)
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