Non
passa giorno senza che il governo francese dichiari fedeltà alle
strategie economiche più liberiste: «politica dell’offerta», tagli alla
spesa pubblica, stigmatizzazione degli «sprechi» e degli «abusi» nella
previdenza sociale. Tanto che il padronato esita sulla condotta da
tenere. E la destra confessa il proprio imbarazzo davanti a un tale
livello di plagio…
Bisogna
aver esagerato con gli alcolici, che ci fanno sembrare sinuose tutte le
strade, per vedere, come fa il coro quasi unanime dei commentatori, una
svolta neoliberista nel «patto di responsabilità» di François Hollande (1).
Senza innalzare troppo gli standard della sobrietà, la verità richiama
piuttosto una di quelle affascinanti immagini di Jean-Pierre Raffarin (2):
la strada è dritta e la discesa è ripida – molto ripida (e i freni non
funzionano). In effetti, l’ossimoro del tornante rettilineo non fa che
approfondire la logica del quinquennio, manifestatasi sin dai primi
mesi. Una logica debole, che lascia trasparire strategie di disperazione
e rinuncia. Le antiche propensioni al tradimento ideologico si
mescolano con i calcoli smarriti del panico quando, avendo abbandonato
del tutto il progetto di riorientare le disastrose politiche europee, e
di conseguenza qualunque possibilità di ripresa, per salvarsi dal
naufragio totale si vede solo la zattera della Medusa: «l’impresa» come
provvidenza, cioè… il Movimento delle imprese di Francia (Medef) come
scialuppa di salvataggio. Trovata geniale, mentre si sta per essere
ingoiati dai flutti: «La sola cosa che non è stata tentata, è dar
fiducia alle imprese (3)». Che
bella idea! Dar fiducia alle «imprese»... Come ostaggi che danno fiducia
ai rapitori e si gettano nelle loro braccia, senza dubbio convinti che
l’amore chiama indubbiamente amore – e disarma le richieste di riscatto.
Contrariamente a quanto sosterrebbero all’unisono le schiere degli
editorialisti, scandalizzati che si possa parlare di «presa d’ostaggio»,
non c’è un grammo di esagerazione nella parola che, anzi, è
analiticamente dosata al meglio. È vero che l’alterazione della
percezione che fa vedere le linee dritte come curve ben si accorda con
quest’altra distorsione che porta a vedere delle «prese d’ostaggio»
ovunque – da parte dei ferrovieri, dei postini, degli spazzini e più in
generale di tutti quelli che si difendono come possono dalle ripetute
aggressioni subite – ma non dove ce ne sono davvero. Perché il capitale
ha per sé tutti i privilegi della lettera rubata di Edgar Allan Poe (4),
e la sua presa d’ostaggio, evidente, enorme, è diventata invisibile
proprio per la sua enormità ed evidenza. Come faceva notare Karl Marx,
il capitalismo, cioè il lavoro salariato, è prendere in ostaggio la vita
stessa! In un’economia monetaria fondata sulla divisione del lavoro,
non c’è altra possibilità di riprodurre la vita se non con il denaro del
salario… cioè ubbidendo al datore di lavoro. E, se non ci fosse stata
la conquista importante dei sistemi di protezione sociale, non si vede
cosa distinguerebbe il lavoro sotto il capitalismo da un puro e semplice
«o così o crepa». Il capitale non prende in ostaggio solo la vita degli
individui, una per una, ma anche (di fatto, nello stesso modo) la loro
vita collettiva, che è l’oggetto della politica. Questa cattura risponde
al principio di fondo secondo il quale l’intera riproduzione materiale,
individuale e collettiva, è ormai entrata nella logica
dell’accumulazione del capitale – la produzione dei beni e servizi che
riproducono la vita è ormai realizzata solo da entità economiche
dichiaratamente capitaliste e ben decise a operare unicamente con la
logica della mercificazione per profitto. L’altro principio è la
capacità di iniziativa di cui gode il capitale: il capitale finanziario
ha l’iniziativa delle anticipazioni monetarie che finanziano le
iniziative di spesa del capitale industriale, spese di investimento o
spese per le assunzioni. Così le decisioni globali del capitale
determinano le condizioni nelle quali i singoli trovano i mezzi –
salariali – per la propria riproduzione. È questo potere di iniziativa,
di impulso del ciclo produttivo, a conferire al capitale un ruolo
strategico nell’insieme della struttura sociale; il ruolo del rapitore,
dal momento che tutto il resto della società finisce per dipendere dalle
sue decisioni e dalla sua buona volontà. Se non si accondiscende a
tutte le sue richieste, il capitale praticherà lo sciopero degli
investimenti – «sciopero»: non è forse una parola che nella testa
dell’editorialista tipo scatena abitualmente l’associazione con «presa
d’ostaggio»? Basta allora andare indietro nel tempo per misurare meglio
l’efficacia dell’estorsione, dalla soppressione dell’autorizzazione
amministrativa al licenziamento, a metà degli anni ’80, fino alle
disposizioni scellerate dell’Accordo nazionale interprofessionale (Ani),
passando per gli sgravi fiscali sulle società, la defiscalizzazione
delle stock-options, i ripetuti attacchi al contratto a durata
indeterminata (Cdi), il lavoro domenicale (5),
ecc. La lista di bottini di guerra è gigantesca; ma bisogna capire che è
destinata ad allungarsi all’infinito finché la potenza del capitale non
sarà contrastata da una potenza della stessa scala di grandezza, ma di
segno opposto, che d’autorità riporti alla moderazione il capitale,
visto che esso non ha alcun senso dell’abuso, come dimostra la lista
summenzionata. Ma la cosa peggiore, in tutta questa storia, è forse
l’irrimediabile inanità della strategia di Hollande e dei suoi
consiglieri, spiriti che sono del tutto colonizzati dal punto di vista
Medef sul mondo e che come unico punto di partenza per tutte le loro
riflessioni hanno la premessa, l’enunciato principe del neoliberismo,
ovunque e da tutti ripetuto, entrato in tutte le teste come postulato:
«Sono le imprese che creano il lavoro». Questo enunciato, punto
nevralgico del neoliberismo, è la prima cosa da distruggere, come primo
passo verso la liberazione dalla presa d’ostaggio da parte del capitale.
In ogni caso, l’enunciato «le imprese non creano lavoro», non va
considerato puramente empirico – anche se gli ultimi 20 anni lo
confermerebbero in pieno. È un enunciato concettuale, la cui lettura
corretta, del resto, non è «le imprese non creano lavoro», ma «le
imprese non creano il lavoro». Le imprese non hanno alcun mezzo per
creare da sole i posti di lavoro che offrono: questi derivano solo
dall’osservazione del movimento dei loro ordinativi, che, ovviamente,
non possono controllare del tutto, dal momento che vengono da fuori –
cioè dalla volontà di spesa dei clienti, famiglie o altre imprese. In un
momento di verità, accecante quando non intenzionale, è stato
Jean-François Roubaud, presidente della Confederazione generale delle
piccole e medie imprese (Cgpme) e san Giovanni Crisostomo, a parlare
troppo, in un momento certo fatto per essere potentemente rivelatore:
quello della discussione delle «contropartite». Come si sa, nel momento
clou che precede la conclusione del «patto», il padronato giura sulla
testa del mercato che saranno create centinaia di migliaia di posti di
lavoro e, come si sa, nel momento immediatamente successivo alla
conclusione del patto, di colpo non si è più sicuri di niente… Non
perdiamo il controllo, in ogni caso bisogna che vi fidiate di noi. Ed
ecco quel babbeo Robaud che svela tutto senza malizia né preavviso:
«Bisogna che gli ordini arrivino…», risponde candidamente alla domanda
«come contropartita, le imprese sono pronte ad assumere?» (6).
Roubaud non è bugiardo! Se le imprese potessero da sé crearsi gli
ordini, la cosa si saprebbe subito, e il gioco del capitalismo sarebbe
di una semplicità sconcertante. Ma le imprese registrano ordini che
hanno la possibilità di influenzare solo marginalmente (e niente del
tutto, sulla scala aggregata, macroeconomica), perché questi dipendono
unicamente dalla capacità di spesa dei loro clienti, la quale a sua
volta dipende per l’appunto dagli ordini (7),
e così via, fino a perdersi nella grande interdipendenza che fa il
fascino del circuito economico. Con alcune variazioni, determinate dalla
concorrenza fra imprese, la formazione dei registri degli ordinativi,
che come ci ricorda – giustamente – Roubaud decide tutto, non dipende
dunque dalle imprese singolarmente, ma dal processo macroeconomico
generale. Le imprese, passive davanti a questa formazione degli ordini,
che possono solo registrare, non creano dunque nessun posto di lavoro,
ma semplicemente convertono in posti di lavoro la domanda di beni e
servizi che viene loro rivolta, o che esse anticipano. Dunque, quel che
l’ideologia padronale vorrebbe indurci a vedere come atto demiurgico che
deve tutto alla potenza sovrana (e benefica) dell’imprenditore, è
piuttosto, meno spettacolarmente, la meccanica del tutto eteronoma
dell’offerta che risponde semplicemente alla domanda esterna. Si dirà
tuttavia che le imprese sono diverse l’una dall’altra, che alcune
riducono i prezzi più di altre, innovano di più ecc. Questo è vero, ma
alla fine influenza solo la ripartizione fra le imprese della domanda
globale… la quale rimane irrimediabilmente limitata dal reddito
macroeconomico disponibile. Ma non è possibile andare a cercare
all’esterno un surplus di domanda, al di là dei limiti del reddito
interno? Sì. Ma il cuore dell’argomento rimane inalterato: con l’export
come sul mercato interno, le imprese semplicemente registrano domande
che, logicamente, non possono individualmente contribuire a formare, e
si limiteranno (eventualmente) a convertire gli ordini in posti di
lavoro. Non c’è nessun gesto «creatore», come invece vuol far credere
l’ideologia padronale. Gli imprenditori e le imprese non creano nulla in
materia di lavoro – il che non vuol dire che non facciano niente: si
fanno concorrenza per catturare come possono i flussi di
reddito-domanda, quello è il loro lavoro. Questo significa che non
dobbiamo accondiscendere a tutte le loro stravaganti richieste come se
possedessero il segreto della «creazione del lavoro». Non ce l’hanno
affatto. Ma allora, se i posti di lavoro non sono creati dalle imprese,
chi li crea? A chi dovrebbero andare le nostre cure e attenzioni? La
risposta è che il «soggetto» della creazione dei posti di lavoro non va
ricercato fra gli esseri umani; in verità, il soggetto è un
non-soggetto; per meglio dire, questa creazione è l’effetto di un
processo senza soggetto, meglio noto come congiuntura economica – certo,
che delusione per chi si aspettava l’ingresso in scena di un eroe. La
congiuntura economica in effetti è questo meccanismo sociale d’insieme
mediante il quale si formano al tempo stesso i redditi, le spese globali
e la produzione. È un effetto di composizione, la sintesi indeterminata
di miriadi di decisioni individuali, quelle delle famiglie che
consumano anziché risparmiare, quelle delle imprese che lanceranno o no
degli investimenti. È un dramma, per il pensiero liberista eroicizzante:
bisogna infatti avere la saggezza intellettuale di interessarsi a un
processo impersonale. Ma è possibile, e anche in modo molto concreto!
Infatti la congiuntura è un processo che, in una certa misura, si lascia
pilotare. E l’oggetto di quest’azione è proprio quel che si chiama
politica macroeconomica. Ma il governo «socialista», che si è piegato in
modo consenziente ai vincoli europei, ha abdicato a ogni velleità in
materia. Non gli rimane dunque che precipitarsi con tutti gli altri
lungo il pendio dell’ideologia liberista d’impresa, per plasmare il
potente ragionamento secondo cui «visto che sono le imprese a creare i
posti di lavoro, dobbiamo essere molto gentili con le imprese». Questa
corbelleria si è ormai incistata così profondamente, a giudicare dalla
velocità con la quale esce dalla bocca dell’editorialista tipo, che
sradicarla richiederà tempo. Ma la politica si comporterà meglio, cioè
in modo più razionale, quando i suoi discorsi cominceranno a essere un
po’ depurati da tutte le contro-verità manifeste, e manifestamente
legate a un punto di vista molto particolare sull’economia; e quando
saranno stati disattivati gli schemi di pensiero automatici comandati da
queste contro-verità. Le imprese non creano il lavoro: esse «operano»
il lavoro determinato dalla congiuntura. Se si vuole del lavoro, occorre
interessarsi alla congiuntura, non alle imprese. Ma è duro farlo
entrare in una testa «socialista»… È vero che, nel quadro del programma
delle conversioni simboliche necessarie, occorre anche abbandonare
l’abitudine automatica di considerare di sinistra il Partito socialista e
identificare (in modo davvero sconsiderato) la sinistra con il Partito
socialista. Quando invece il Partito socialista – che del resto,
ricordiamolo, si sforza abbastanza di smontare questo luogo comune – è
la destra, ma una destra complessata. E a proposito della destra, visto
come vanno le cose, presto ci si dovrà chiedere quali complessi le
rimangano, esattamente…