Il primo monito di Napolitano è certamente saggio
se, invocando l’altroieri l’“interesse nazionale”, punta a tutelare la
figura di Mario Draghi dalle pressioni tedesche, che mirano a gettargli
addosso lo scandalo Montepaschi per frenare la sua politica salva-euro.
La Banca d’Italia fu certamente l’unico soggetto
istituzionale a vigilare, con le due ispezioni a Siena, e a scoprire i
contratti segreti sui derivati tossici, anche se poi ci si contentò del
cambio della guardia Mussari-Profumo e la lentezza delle procedure e
l’inefficienza endemica della Consob impedirono che i disinvolti (a dir
poco) amministratori fossero rapidamente e adeguatamente sanzionati.
Purtroppo
non si può dire altrettanto del secondo monito, quello di ieri dinanzi
all’Ordine dei giornalisti, francamente irricevibile almeno per ciò che
resta della libera stampa in Italia. Che vuol dire “abbiamo spesso degli effetti non positivi, quasi dei corto-circuiti tra informazione e giustizia”?
E a che titolo il capo dello Stato afferma che il “ruolo della stampa
di propulsione alla ricerca della verità” nel caso Mps “confligge con la
riservatezza necessaria delle indagini giudiziarie e il rispetto del
segreto d’indagine”? La stampa ha il diritto-dovere di svelare i segreti,
anche quelli giudiziari se ci riesce, per dare ai cittadini il maggior
numero possibile di notizie. Forse Napolitano ignora che, se da dieci
giorni lo scandalo del Montepaschi è sulle prime pagine dei giornali di
tutta Italia (e non solo), è grazie a un giornale – il nostro – che ha
scoperto ciò che i banchieri nominati dal suo partito occultavano ad
azionisti, dipendenti, risparmiatori e investitori.
Se avessimo
aspettato le famose autorità, magistratura compresa, non sapremmo ancora
nulla. Nelle parole di Napolitano echeggia, dietro il paravento
dell’“interesse nazionale”, una concezione malata, autoritaria del rapporto fra il potere e i suoi controllori:
qualunque scandalo del potere diventa attentato alla Nazione perché lo
scredita agli occhi dei cittadini e dei mercati. Quindi meglio una
notizia scomoda in meno che una in più. Il dito indica la luna e tutti a
guardare il dito. Il termometro segna la febbre e tutti a dare la colpa
al termometro. Se Napolitano non vuole che il sistema bancario venga
screditato, lanci un bel monito ai banchieri perché caccino i mercanti
dal tempio, anziché mettere la volpe a guardia del pollaio, come fecero
tre anni e un anno fa con Mussari. E lanci un bel monito ai politici
perché escano dalle banche (e dalle fondazioni) con le
mani alzate e tornino a fare il loro mestiere: che, sulle banche, è
quello dell’arbitro, non del giocatore.
Già che c’è, potrebbe pure
consigliare ai compagni del Pd di darsi una calmata: anziché minacciare
di “sbranare” chi scrive dei loro rapporti con la finanza, la smettano
di amoreggiare coi banchieri e di scalare le banche. Così magari nel
prossimo scandalo finanziario non saranno coinvolti, e sarà la prima
volta. La pravdina del Pd, la fu Unità, dedica una pagina
all’appassionante interrogativo “Perché sfiorì il Garofano. Crollo del
Psi e crisi della Prima Repubblica”. Già, perché? Lo storico Pons,
recensendo un sapido saggio di due vecchi craxiani, Acquaviva e Covatta,
risponde: va evitato “un impiego estremo della memoria storica come
arma di lotta politica” in favore di “uno sguardo più meditato e più
utile”, scevro da “giudizi sbrigativi e liquidatori sulla figura di
Craxi”. Dunque il Psi e la Prima Repubblica crollarono perché “i partiti
avevano perso la capacità di generare appartenenza”, per le “tendenze
disgregative”, per “i limiti del riformismo socialista”, insomma “per un
vuoto della politica che fu riempito dal potere giudiziario e da
un’ondata di antipolitica”, ovviamente “di destra”. Di qui “la tragedia
di Craxi e del socialismo italiano”. Ma è così difficile, o magari antipatriottico, dire che Craxi rubava?
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