I fischi alla Fiom non sono un dramma: fa parte del ruolo dei
sindacalisti. E Landini ha avuto coraggio Il comitato può svolgere un
ruolo fondamentale per non lasciare il risanamento nelle mani degli
inquinatori L'Ilva (già Italsider) di Taranto inquina e uccide da
cinquant'anni la città e i suoi abitanti, insieme a diversi altri
impianti che ne occupano il territorio. Tuttavia, nonostante numerosi
tentativi, in corso da anni, di portare la situazione all'attenzione
dell'opinione pubblica, Taranto è diventata un caso nazionale solo ora:
innanzitutto per l'impegno di un magistrato coraggioso che ha scelto di
obbedire alla legge e non ai padroni della città; ma soprattutto per
l'iniziativa del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, che
ha rotto la cappa di omertà nei confronti delle malefatte dell'azienda
che le forze politiche - e gran parte di quelle sindacali - avevano
steso da anni sulla fabbrica e sulla città: in uno stile sovietico che
calza a pennello a un territorio cui è stato assegnato il destino di
città dell'acciaio; e null'altro. Cittadini e lavoratori liberi e
pensanti è un bellissimo nome: una risposta anticipata all'establishment
politico e massmediatico locale e nazionale, che da un mese a questa
parte cerca di contrapporre i cittadini ai lavoratori, sostenendo che i
primi, in nome della salute e dell'ambiente, vorrebbero la morte della
fabbrica; e che i secondi, in nome del lavoro e del salario, sono
disposti a condannare a morte mogli, figli e parenti, oltre che se
stessi. E questo nonostante nella maggior parte dei casi cittadino e
lavoratore coincidano nella stessa persona. Se il comitato saprà
continuare a respingere con il coraggio e l'intelligenza di cui ha dato
prova finora questo tentativo di divisione e di falsa contrapposizione,
presto, in questo autunno che si prospetta rovente, le bandiere con
l'apecar (il traballante veicolo con cui è stato interrotto il comizio
sindacale del 2 agosto e che è diventato il simbolo del movimento) si
affiancheranno a quelle del movimento No Tav, che da tempo compaiono in
tutte le manifestazioni nazionali; e la vicenda di Taranto diventerà uno
spartiacque per gli schieramenti politici e sociali nazionali come lo è
da tempo la vicenda della Valle di Susa. Apparentemente è stato il
segretario della Fiom, il sindacato che si è schierato fin dall'inizio a
fianco della Valle di Susa, a fare le spese dell'irruzione in piazza
dei cittadini e dei lavoratori liberi e pensanti con il loro apecar. Ma
questa in parte è stata una mera coincidenza temporale, perché
l'irruzione era innanzitutto diretta contro Bonanni, che se l'è data a
gambe insieme ad Angeletti e Susanna Camusso appena il corteo del
comitato è entrato in piazza, mentre Landini ha deciso di restare. In
parte la cosa non va drammatizzata. I fischi ai sindacalisti ci sono
sempre stati: fa parte del loro ruolo, spesso difficile, quasi sempre
delicato e raramente appagante; specie quando sono in gioco questioni
dirimenti. Durante l'autunno caldo e le lotte successive di quarant'anni
fa, Trentin, Carniti e Benvenuto di fischi ne avevano presi a iosa, per
non parlare di Rinaldo Scheda ed altri, pochi anni dopo (il caso di
Lama cacciato dall'Università è diverso: lui se l'era andata a cercare).
In parte bisogna dire che la Fiom, che giustamente si è dissociata
dagli scioperi contro il giudice Todisco, negli anni passati aveva fatto
veramente troppo poco per differenziarsi dai sindacati padronali Fim e
Uilm, che a Taranto governano letteralmente il personale dell'Ilva per
conto della famiglia Riva. Se il comitato saprà corrispondere alle
speranze che i cittadini di Taranto stanno riponendo nella sua azione,
presto per molte di quelle organizzazioni si arriverà a una resa dei
conti; e la Fiom potrebbe ritrovarsi, come già succede da oltre due anni
alla Fiat e nella contrattazione nazionale, dalla parte opposta a
quella, sempre più padronale, in cui si sono posizionate le altre
organizzazioni sindacali. E questo in un contesto locale e nazionale
rovente, in cui difendere le ragioni del padrone sarà sempre più
difficile. Il problema è dunque «che fare?» per mantenere la rotta. Una
risposta esauriente per ora non ce l'ha, e probabilmente non ce la può
avere, nessuno. L'importante è cominciare a mettere in chiaro le poche
certezze e i molti interrogativi da cui quella risposta dipende. La
prima certezza è questa: la vita non si contratta. Di fronte alla prova
documentaria che l'Ilva-Italsider ha distrutto e continua a distruggere
la vita di migliaia di lavoratori e di cittadini - e quella dei loro
figli - qualsiasi altra considerazione deve passare in secondo piano. La
seconda è che non bisogna più mentire sulla reale portata del disastro
in corso (o nascondere le cose, il che è lo stesso), come sempre ha
permesso che si facesse l'attuale ministro Clini, già direttore generale
e vero dominus di un ministero dell'Ambiente affidato, da dodici anni, a
personaggi incompetenti, ridicoli e arraffoni. O il neopresidente
Ferrante, uomo per tutte le stagioni, approdato a difendere le ragioni
dell'Ilva dopo aver fatto lo stesso per conto dell'Impregilo, nel
tentativo di liberarla dalle responsabilità per i disastri compiuti con i
rifiuti in Campania e con il Tav in Casentino e sulla Torino-Milano (e
in attesa di quelli sulla Torino-Lione). O il sindaco Stefàno, portato
al governo della città da una autentica rivoluzione degli schieramenti
politici, e grazie anche alle cure personalmente prodigate ai bambini di
Taranto (è un pediatra), senza che questo lo abbia mai spinto a dire
una sola parola contro la causa di tanti malanni e di tanti decessi. Ma
non bisogna neanche mentire a se stessi. Chiunque dia per scontato, come
è stato fatto da tutti o quasi finora, che la salvaguardia della salute
e dell'ambiente a Taranto è compatibile con la continuità della
produzione dell'Ilva, senza una verifica della fattibilità tecnica ed
economica delle misure prescritte dai giudici e dai periti per mettere
in sicurezza l'impianto e di quelle per bonificare il sito e tutto il
territorio, cerca di ingannare innanzitutto se stesso. L'Ilva è un
impianto vecchio e obsoleto, che i Riva, consapevoli che non aveva
davanti a sé molti anni di vita, avevano deciso di sfruttare fino a
esaurimento, investendo solo lo stretto necessario per tenerlo in
funzione. Può essere quindi che le prescrizioni di giudici e periti per
rimetterlo a norma abbiano costi ingiustificabili a fronte dalla vita
residua dell'impianto; o che richiedano di fatto il suo rifacimento ex
novo - il che porrebbe il problema della convenienza e dell'opportunità
di rifarlo proprio lì - dovendosi poi anche verificare l'effettiva
possibilità di imporre alla proprietà i costi astronomici del
risanamento di sito e impianto. Facile dunque che qualcuno - anzi, molti
- cerchino fin da ora di cambiare le carte in tavola, nascondendo una
parte dei costi, riducendo la portata degli interventi, per poi far sì
che le cose continuino più o meno come prima, con un po' di belletto. A
un gioco del genere, d'ora innanzi, non si deve più prestare nessuno. La
terza considerazione è che all'interno dello stabilimento e nella città
sono stati compiuti per anni - consapevolmente, come rimarca il giudice
- dei reati gravissimi, assimilabili a quello di strage; e non solo in
campo ambientale e sanitario. Questi sono stati resi possibili da un
regime di fabbrica dispotico e illegale - quello che l'abolizione
dell'art. 18 renderà ordinario in migliaia di altri stabilimenti, anche
grazie a una sostanziale cooptazione nella gestione di quel regime delle
organizzazioni sindacali, o di una parte consistente di esse, oltre che
di partiti, Enti locali, Diocesi, Università, ecc. Basti pensare che in
fabbrica - oltre all'istituzione di un reparto confino, il Laf, già
sanzionato dalla magistratura e per questo soppresso e sostituito con
altri sistemi di persecuzione dei lavoratori non acquiescenti - sono
all'opera, a fianco della gerarchia ufficiale, numerose figure che gli
operai chiamano «i rappresentanti di Riva»: che non sono dipendenti
dell'azienda, ma che di fatto comandano: sono loro a ingiungere
comportamenti da cui dipende buona parte delle emissioni nocive dello
stabilimento, nella certezza che, non figurando nell'organico
dell'azienda, a una loro responsabilità non si potrà mai risalire; e al
massimo questa ricadrà sugli operai a cui hanno dato quegli ordini. La
quarta considerazione è questa: anche se con la privatizzazione il clima
di fabbrica è ulteriormente peggiorato, l'inquinamento selvaggio della
città ad opera dello stabilimento siderurgico è stato realizzato,
nell'impunità più assoluta, fin dall'inizio; anzi, fin dalla decisione
di collocare uno stabilimento del genere a ridosso di una città di
200mila abitanti; quando ancora l'Italsider era di Stato. Il che
dimostra che di per sé la proprietà pubblica o privata di uno
stabilimento non fa la differenza che conta (anche se per molte
produzioni e, sicuramente, quando sono in gioco grandi dimensioni, la
prima è decisamente preferibile). La differenza la può fare soltanto un
controllo dal basso, effettivo e consapevole, ad opera dei lavoratori e
dei cittadini coinvolti nel processo lavorativo o nei suoi impatti
ambientali e sociali. Che è appunto quanto si ripropone il comitato: ciò
che può segnare l'inizio di una svolta teorica e pratica nelle
dinamiche politiche dei prossimi anni. Per questo Taranto deve restare
un caso di portata nazionale. La quinta considerazione è che l'acciaio è
un materiale indispensabile. In una prospettiva di progressiva
riterritorializzazione delle produzioni, che è l'unica forma praticabile
di contrasto agli effetti della globalizzazione liberista, sarebbe
sbagliato in linea di principio delegare ai paesi emergenti o a quelli
del terzo e del quarto mondo le produzioni che hanno impatti pesanti sul
territorio, in nome di una visione bucolica dello sviluppo - o della
decrescita - fatta solo di una sacrosanta valorizzazione dei beni
ambientali, dei beni culturali, delle opere dell'ingegno e delle
produzioni soft (di agricoltura, purtroppo, a Taranto, non si parlerà
più per anni). Questo non significa accettare lo stato di cose esistente
- e meno che mai i progetti devastanti del ministro Passera - ma
mettere lo sviluppo tecnologico al servizio non del profitto, non del
gigantismo industriale, ma di una graduale e progressiva conciliazione
tra produzioni e ambiente: innanzitutto ridimensionando, ovunque
possibile, il gigantismo delle prime, causa prioritaria di impatti
ambientali insostenibili. Che la produzione dell'Ilva di Taranto, se si
verificheranno le condizioni per la sua continuazione, vada comunque
progressivamente ridimensionata, fino allo spegnimento finale
dell'impianto (come peraltro devono aver messo in conto anche i Riva,
visto il modo in cui lo hanno gestito finora) non può essere messo in
discussione. Ma certamente una soluzione del genere, che permetterebbe
di affiancare a una produzione ridimensionata le attività e
l'occupazione necessarie alla bonifica del sito e del territorio e una
politica di creazione, scaglionata nel tempo, di nuove opportunità
occupazionali nel campo delle produzioni sostenibili (energie,
efficienza, mobilità, eco-edilizia, ecc.) è senz'altro preferibile alla
chiusura immediata e definitiva dell'impianto. Perché questa lascerebbe
senza lavoro e senza prospettive di reimpiego quasi ventimila
lavoratori, e un sito inquinato e abbandonato alla cui bonifica nessuno
avrebbe più alcun interesse né possibilità di controllo. Ce lo insegnano
le vicende di tante aree dismesse, come Crotone o Bagnoli (dove pure,
in quest'ultimo caso, il valore dei suoli ha scatenato una corsa
all'accaparramento). Che fare allora? Il comitato deve mettersi in grado
di definire, promuovere, rivendicare e seguire direttamente questi
processi, diventando il punto di riferimento di tutti coloro che
intendono lavorare a una autentica conversione ecologica, che faccia i
conti con i vincoli imposti dallo stato di cose esistente. Facendosi
innanzitutto garante della verità sulle cose che possono e che non
possono essere fatte. Per questo a Taranto ho proposto di lanciare a
livello nazionale un manifesto che metta in luce la centralità dei
problemi dell'Ilva e della città e che chiami tutte le persone di buona
volontà che hanno competenze in materia a partecipare e contribuire con
le loro conoscenze al sostegno del Comitato cittadini e lavoratori
liberi e pensanti; per non lasciare il processo di risanamento o di
riconversione dello stabilimento nelle mani di chi fino a oggi ha
lavorato all'occultamento della verità su questa autentica tragedia
nazionale, spartendosi qualche briciola degli ingenti guadagni ricavati
dalle disgrazie di un'intera popolazione.
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