Il
centrosinistra sta preparando le primarie. Gli osservatori danno una
grande importanza alle primarie del centrosinistra che dovrebbero
scegliere – tra il giovane Renzi, il vecchio Bersani e Vendola – il
candidato premier. Dicono che dall’esito di queste primarie dipende il
futuro assetto della sinistra italiana. E però tutti sanno che quasi
certamente chi vincerà le primarie non sarà premier perché il premier –
così hanno deciso Europa e Stati Uniti – resterà Mario Monti.
In primavera poi si voterà per le elezioni generali, non sappiamo con
quale legge elettorale. Sappiamo però due cose, in aperto contrasto
tra loro: sappiamo che il centrosinistra vincerà queste elezioni, perché
i sondaggi gli assegnano tra i 10 e i 20 punti di vantaggio sul
centrodestra e sul terzo incomodo “grillino” (un vantaggio mai visto
alla vigilia di una tornata elettorale), ma sappiamo anche che il
centrodestra non perderà, perché il nuovo governo sarà un governo di
coalizione destra-sinistra, a guida – come già detto – tecnocratica
montiana.
Fin qui siamo alla nota politica, alla ricostruzione di scenari
pochissimo incerti. Da tutto ciò, però, nasce una domanda quasi
filosofica: ma votare è ancora necessario? Cioè: il voto – dunque l’atto
essenziale del processo democratico – ha ancora una sua funzione
esclusiva nel determinare la formazione governo, oppure è diventato poco
più che un rito?
Potremmo rendere ancora più drammatica la domanda: la democrazia
esiste ancora, oppure è morta, oppure è sospesa, oppure – diciamo così –
ha perso il suo ruolo centrale rispetto ai processi di formazione del
potere?
La prima ipotesi – che la democrazia esita ancora in tutta la sua
pienezza – francamente mi sembra da escludere. Ho l’impressione che
nessuno più la sostenga. Il dubbio è sulle altre tre ipotesi. Dubbio
legittimo, perché probabilmente le sorti della democrazia ancora non
sono decise, e però sono fortissimamente a rischio. Da che dipende la
possibilità che la democrazia non muoia e torni a diventare quantomeno
una speranza? Penso che dipenda, più o meno, da noi. Cioè dalla capacità
di forze democratiche, diventate ormai minoranza, di porre la questione
democratica come questione essenziale e come grande emergenza degli
anni dieci. Se invece tutte le forze “democratiche” decideranno che per
un certo periodo la questione democratica non è la questione decisiva, e
che conta di più come uscire dalla crisi, come salvare i conti
pubblici, come ridare saldezza all’establishment e alla struttura
portante del capitalismo italiano, probabilmente sarà poi troppo tardi
per riaprire i processi della democrazia. Perché se l’uscita stabile
dalla crisi, e quindi la definizione di nuovi assetti, avverrà
attraverso il passaggio decisivo della rinuncia alla democrazia
politica, è chiaro che questa rinuncia entrerà nel Dna dei nuovi assetti
politici e dunque la rinuncia alla democrazia politica diventerà
definitiva e decisiva perla stabilità dei nuovi poteri vincenti e dunque
dello Stato.
Per questo, paradossalmente, il voto non è inutile. Non è inutile
perché c’è. Non è inutile perché ancora, attraverso il voto, potremmo
influenzare, certo non la formazione del prossimo governo, ma i rapporti
di forza nel nuovo parlamento.
Il nostro problema è che la discesa lungo la quale, negli ultimi
quasi vent’anni, il concetto di democrazia si è scapicollato e rotto la
testaq, è stata voluta e realizzata dalle forze democratiche e in gran
parte dal centrosinistra. La discesa inizia esattamente nel momento nel
quale, soprattutto a sinistra, si stabilisce che la vera democrazia è la
cosiddetta democrazia governante, e una democrazia che non sia
governante è inutile, vecchia e ottocentesca (siamo all’inizio degli
anni novanta). Mi ricordo un famoso congresso dei Ds, a Lingotto
(segretario Veltroni, premier D’Alema: siamo ormai alla fine degli anni
novanta) del quale la parola d’ordine era: “democrazia di mandato”. Che
vuol dire? Semplicemente che lo scopo della democrazia non è più
garantire la rappresentanza e determinare il potere legislativo, ma è
invece quello di scegliere il potere esecutivo e di affidare poi ad esso
il compito di rappresentare il paese, di assumere ogni decisione, e la
possibilità piena e senza vincoli di governare la nazione. La
“democrazia di “ è – appunto – la fine de i vincoli e la morte del
potere rappresentativo. Da quel momento in Itaalia il Parlamento
sparisce, non è più il luogo della battaglia politica, dei progetti, del
confronto, del compromesso, della costruzione delle idee per futuro, ma
è solo – scusate se esagero appena un po’ nella citazione, ma viene
bene… – “un bivacco dei manipoli” del governo di turno.E’ per via di
questa china presa dalla nostra cultura politica che oggi ci troviamo di
fronte al rischio dell’estinzione della democrazia. Il fatto che già si
conosca il nome del premier prima delle elezioni non è la cosa più
grave (anche nella prima repubblica si sapeva, prima di votare, che
avrebbe governato la Dc: ma non si sapeva con quale Parlamento, con
quanta opposizione, e dunque su quale linea politica): la cosa più grave
e che noi siamo arrivati al “montismo” dopo la resa della politica, del
sistema dei partiti, e dopo l’eliminazione del Parlamento e del potere
rappresentativo. Questa è un’emergenza o no? Il nostro futuro, il fatto
che in Italia vinca la democrazia o il regime, dipende dalla risposta a
questa domanda
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