Cari amici,
permettetemi di iniziare questo mio primo post salutando i tanti miei compagni che in queste ore stanno lottando al Nord come al Sud per difendere col diritto al lavoro e alla salute, la propria dignità, la possibilità di costruire e pensare un futuro diverso per sé e per i propri figli.
Ho accolto l'invito a scrivere sull'Huffington Post per dare la parola al mio mondo troppo spesso oscurato e scomparso insieme al Lavoro dal centro del dibattito sociale e politico del nostro paese. I media e la politica, si sono accorti di noi, solo quando salivamo sui tetti, sulle gru, o quando ci siamo spinti nelle viscere della terra, oppure ci siamo suicidati per la disperazione.
Per questo mi auguro di ricevere la giusta attenzione, perché anche la voce degli ultimi, la mia voce, possa essere percepita come un valore.
permettetemi di iniziare questo mio primo post salutando i tanti miei compagni che in queste ore stanno lottando al Nord come al Sud per difendere col diritto al lavoro e alla salute, la propria dignità, la possibilità di costruire e pensare un futuro diverso per sé e per i propri figli.
Ho accolto l'invito a scrivere sull'Huffington Post per dare la parola al mio mondo troppo spesso oscurato e scomparso insieme al Lavoro dal centro del dibattito sociale e politico del nostro paese. I media e la politica, si sono accorti di noi, solo quando salivamo sui tetti, sulle gru, o quando ci siamo spinti nelle viscere della terra, oppure ci siamo suicidati per la disperazione.
Per questo mi auguro di ricevere la giusta attenzione, perché anche la voce degli ultimi, la mia voce, possa essere percepita come un valore.
Sono, infatti, convinto che oggi la
stessa parola operaio contenga tante cose, anche le ragioni di chi
operaio non è ma si batte per dare un senso alla democrazia e al patto
Costituzionale. Il punto, a mio avviso, è questo: mai come in questo
momento c'è un rapporto molto stretto tra ciò che avviene nella fabbrica
e le trasformazioni che avvengono in modo vertiginoso nella società.
Spesso è proprio questo che non si è capito.
Non si è per esempio capito - e qui mi riferisco soprattutto al mondo dell'informazione - che certe forme di autoritarismo nell'era del liberismo più selvaggio, si sperimentano prima in fabbrica e poi nella società in ogni suo segmento umano e sociale. Così resto un po' - per usare un eufemismo - perplesso, quando il mondo dell'informazione si batte giustamente per rivendicare la piena libertà di espressione (ed io sono ovviamente d'accordo con loro) e quando quello stesso mondo storce il naso o si volta dall'altra parte quando gli stessi diritti sono negati nei luoghi di produzione. Questa, ripeto, è la questione.
Non si è capito, né si vuol capire, che c'è una tendenza violenta del Capitalismo a distruggere la civiltà del diritto ed a trasformare anche gli intellettuali in strumenti del potere al servizio del pensiero unico. Ciò che sostengo, possiamo vederlo bene in tutta la vicenda Pomigliano. Da questo punto di vista Pomigliano è una vera cartina di tornasole. Quando iniziammo la lotta tutti ci davano addosso e dicevano: "Cosa fa se cedi qualche diritto in cambio dell'occupazione?". Se avessimo ragionato così avremmo perso già in partenza, cari amici. Invece noi della Fiom dicemmo: "No, non siamo d'accordo, non possiamo svendere con la nostra storia, le conquiste fondamentali del movimento operaio italiano".
Ma eravamo soli, tremendamente soli come gli operai sulle gru, e ci comportammo alla stessa maniera dello scrivano Bartebly di Melville, che ripeteva come un mantra ai suoi capi: "Io preferirei di No!". E' spaventoso che tanti intellettuali italiani - ad eccezione naturalmente dei Rodotà, dei Tronti, dei Revelli, dei Gallino, e di qualche altra anima bella - non si siano accorti del valore fondativo per la democrazia di quel No di Pomigliano. La verità è che oggi non esistono nella sinistra italiana più veri maestri, quelli che ti indicavano una strada e vedevano più avanti di te di venti anni.
Oggi qualcuno finalmente sta capendo. Ma che fatica! Leggo in queste ore le dichiarazioni di Della Valle, di Romiti, che, bontà sua, dice che la Fiom nella vertenza Fiat è stata l'unica forza che aveva capito tutto e che si è comportata da vero sindacato. Dovrei essere contento per queste dichiarazioni e invece sono pieno di amarezza, di delusione, di tristezza. Perché, cari amici, come in una guerra napoleonica, il "generale tempo" è fondamentale. Che importa se oggi Cisl, Uil e qualche personaggio della sinistra, amico dell'uomo nero della finanza globale, fa il mea culpa. Dov'era quando ci doveva essere? Era fuggito dall'Italia? Era in viaggio premio della Regione per un paese esotico? Oppure era semplicemente un dissennato, uno che aveva tradito la sua storia, la storia dei diritti, Berlinguer, i padri della Costituzione?
Scusate questo mio sfogo, ma vedo tanta ipocrisia in giro.
Non posso più di ascoltare frasi fatte, retorica, vergognosi trasformismi, mentre sono in cassa integrazione e non so cosa mi attenderà domani. E non so, come tanti altri lavoratori, come sbarcare il lunario. No, cari amici, bisogna essere chiari. Bisogna dire che il governo, che non ha mai avuto un piano industriale per il nostro paese e sta distruggendo la vita delle persone con i tagli al Welfare, se ne deve andare. Prima se ne va meglio è.
Ma intanto la situazione dovunque si fa più drammatica per migliaia e migliaia di lavoratori. Per questo Marchionne deve essere inchiodato alle sue responsabilità. E la Fiat, se vogliamo salvarla davvero, deve essere nazionalizzata, o magari renderne possibile l'acquisizione da parte di altre aziende che credono nelle innovazioni di processo e di prodotto e non in mere speculazioni finanziarie di breve periodo.
Ripeto, non mi aspetto nulla da questo governo, non mi aspetto nulla da questi manager della finanza globale, ma mi aspetto un sussulto dall'intera società civile italiana, dai lavoratori in crisi, dalla disperazione dei precari; un sussulto che può trovare una sintesi vera solo in un più generale momento di indignazione e di protesta, con l'avvio deciso della campagna referendaria e la proclamazione dello sciopero generale, ormai non più rinviabile.
Non si è per esempio capito - e qui mi riferisco soprattutto al mondo dell'informazione - che certe forme di autoritarismo nell'era del liberismo più selvaggio, si sperimentano prima in fabbrica e poi nella società in ogni suo segmento umano e sociale. Così resto un po' - per usare un eufemismo - perplesso, quando il mondo dell'informazione si batte giustamente per rivendicare la piena libertà di espressione (ed io sono ovviamente d'accordo con loro) e quando quello stesso mondo storce il naso o si volta dall'altra parte quando gli stessi diritti sono negati nei luoghi di produzione. Questa, ripeto, è la questione.
Non si è capito, né si vuol capire, che c'è una tendenza violenta del Capitalismo a distruggere la civiltà del diritto ed a trasformare anche gli intellettuali in strumenti del potere al servizio del pensiero unico. Ciò che sostengo, possiamo vederlo bene in tutta la vicenda Pomigliano. Da questo punto di vista Pomigliano è una vera cartina di tornasole. Quando iniziammo la lotta tutti ci davano addosso e dicevano: "Cosa fa se cedi qualche diritto in cambio dell'occupazione?". Se avessimo ragionato così avremmo perso già in partenza, cari amici. Invece noi della Fiom dicemmo: "No, non siamo d'accordo, non possiamo svendere con la nostra storia, le conquiste fondamentali del movimento operaio italiano".
Ma eravamo soli, tremendamente soli come gli operai sulle gru, e ci comportammo alla stessa maniera dello scrivano Bartebly di Melville, che ripeteva come un mantra ai suoi capi: "Io preferirei di No!". E' spaventoso che tanti intellettuali italiani - ad eccezione naturalmente dei Rodotà, dei Tronti, dei Revelli, dei Gallino, e di qualche altra anima bella - non si siano accorti del valore fondativo per la democrazia di quel No di Pomigliano. La verità è che oggi non esistono nella sinistra italiana più veri maestri, quelli che ti indicavano una strada e vedevano più avanti di te di venti anni.
Oggi qualcuno finalmente sta capendo. Ma che fatica! Leggo in queste ore le dichiarazioni di Della Valle, di Romiti, che, bontà sua, dice che la Fiom nella vertenza Fiat è stata l'unica forza che aveva capito tutto e che si è comportata da vero sindacato. Dovrei essere contento per queste dichiarazioni e invece sono pieno di amarezza, di delusione, di tristezza. Perché, cari amici, come in una guerra napoleonica, il "generale tempo" è fondamentale. Che importa se oggi Cisl, Uil e qualche personaggio della sinistra, amico dell'uomo nero della finanza globale, fa il mea culpa. Dov'era quando ci doveva essere? Era fuggito dall'Italia? Era in viaggio premio della Regione per un paese esotico? Oppure era semplicemente un dissennato, uno che aveva tradito la sua storia, la storia dei diritti, Berlinguer, i padri della Costituzione?
Scusate questo mio sfogo, ma vedo tanta ipocrisia in giro.
Non posso più di ascoltare frasi fatte, retorica, vergognosi trasformismi, mentre sono in cassa integrazione e non so cosa mi attenderà domani. E non so, come tanti altri lavoratori, come sbarcare il lunario. No, cari amici, bisogna essere chiari. Bisogna dire che il governo, che non ha mai avuto un piano industriale per il nostro paese e sta distruggendo la vita delle persone con i tagli al Welfare, se ne deve andare. Prima se ne va meglio è.
Ma intanto la situazione dovunque si fa più drammatica per migliaia e migliaia di lavoratori. Per questo Marchionne deve essere inchiodato alle sue responsabilità. E la Fiat, se vogliamo salvarla davvero, deve essere nazionalizzata, o magari renderne possibile l'acquisizione da parte di altre aziende che credono nelle innovazioni di processo e di prodotto e non in mere speculazioni finanziarie di breve periodo.
Ripeto, non mi aspetto nulla da questo governo, non mi aspetto nulla da questi manager della finanza globale, ma mi aspetto un sussulto dall'intera società civile italiana, dai lavoratori in crisi, dalla disperazione dei precari; un sussulto che può trovare una sintesi vera solo in un più generale momento di indignazione e di protesta, con l'avvio deciso della campagna referendaria e la proclamazione dello sciopero generale, ormai non più rinviabile.
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