Malgrado
le patetiche precisazioni del Ministro Grilli, siamo di fronte ad una
nuova manovra economica da parte del governo Monti per il valore di ben
11,6 miliardi di euro. Non proprio bruscolini in questi tempi di magra.
Il
punto essenziale del provvedimento governativo sta nella doppia
manovra: abbassamento di un punto di una o due aliquote Irpef, quella al
23% e quella al 27%, mentre, anziché scongiurare l’incremento dell’Iva,
lo si eleva di un punto. Si dice che le due cose dovrebbero stare in
equilibrio, ma è assai poco credibile che così effettivamente sia.
La
riduzione dell’Irpef dovrebbe portare a un risparmio medio di circa 187
euro a persona su una platea di 30 milioni di contribuenti. Ma questo
avverrebbe senza sostanziali differenze fra redditi alti e bassi.
Infatti, in virtù del meccanismo progressivo a scaglioni, del taglio
delle aliquote beneficeranno tanto i redditi fino a 28mila euro, quanto
quelli fino a 75mila euro. Summum ius, summa iniuria.
Assai
difficile è quantificare quale sarà l’aumento dei prezzi dovuto
all’incremento di un punto dell’aliquota Iva. Esso, però, cade proprio
nel momento in cui l’Istat rende noto che il potere d’acquisto dei
salari è diminuito di un altro 4,1%. Come si sa l’incremento dei prezzi
dovuto all’innalzamento dell’Iva riguarda l’intera platea dei
consumatori. In astratto si potrebbe dire che colpisce quelli che hanno
possibilità di consumare di più. In realtà è il contrario, specialmente
se si esce dalla nuda statistica e si guarda alla realtà delle
condizioni di vita. Per i redditi da lavoro dipendente che hanno già
perduto così tanto potere d’acquisto, per la fascia accresciuta di
poveri che popolano il paese, anche un modesto incremento dei prezzi può
rivelarsi fatale e ridurre in modo vitalmente sensibile la loro
capacità di consumo di beni essenziali.
Se
aggiungiamo a questo quadro il rifiuto, ipocritamente nascosto dietro
la foglia di fico del parere negativo espresso dalla ragioneria di
stato, della soluzione del drammatico problema degli esodati privi di
qualunque protezione e il contemporaneo rinvio di un anno della
introduzione dell’Imu sugli immobili ad uso commerciale di proprietà
della Chiesa, il carattere iniquo e persino provocatorio del
provvedimento governativo appare in tutta la sua luce.
Intanto
si annuncia una possibile conclusione del confronto sulla produttività.
Si fa strada l’idea lanciata dall’economista Tito Boeri di togliere dai
contratti collettivi nazionali di lavoro quel residuo di indicizzazione
legata all’aumento dei prezzi valutati su scala europea, al netto
dell’incremento di quelli energetici. Il che vorrebbe dire togliere ogni
valore accrescitivo delle retribuzioni al CCNL e lasciarlo solo ai
contratti aziendali, per chi riesce a ottenerli. Sarebbe questo il
risultato della brillante idea di collegare la retribuzione
all’incremento della produttività, come se questa derivasse solo dal
lavoro e non da un insieme di cose che riguardano l’organizzazione
aziendale, del sistema produttivo e del funzionamento della pubblica
amministrazione. In questo modo si capovolgerebbe l’intera storia della
contrattazione sindacale.
In
sostanza la strada del rigore porta a più recessione. Persino un
giornale in sintonia con il governo, come Repubblica non può non
notarlo, e infatti Massimo Giannini scrive che di questo passo
“l’Italia, come del resto la Spagna e in prospettiva la stessa Francia,
ha ormai imboccato un sentiero che conduce ad Atene”.
Perciò Susanna Camusso dovrebbe organizzare lo sciopero generale e non limitarsi a minacciarlo.
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