Se ne sentiva parlare da mesi, sicuramente da prima che il
nuovo Governo si insediasse. Il gioco iniziale consisteva nel decantare
di tutto un po' in materia di lavoro, proponendolo come la soluzione a
tutti i mali - dalla disoccupazione, alla mancata “crescita”
dell’Italia, passando per la morte di Lazzaro (Matteo 9:2-8.) - ma
parlandone sempre in maniera evanescente. Eppure, infine, Jobs Act fu.
Il programma di Renzi, enunciato come
unico Vangelo da seguire parla, ovviamente, anche di lavoro. Fin
dall’incipit il Decreto Legge 34/14 (per ora prima e unica parte stilata
del Jobs Act) chiarisce le proprie finalità. La più indicativa è la
prima: “semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile”.
Non c’è niente di nuovo, a dispetto del
clima di novità ostentato dal nuovo Premier: se non vogliamo risalire
alla Legge Biagi, basta guardare la “riforma” Fornero per trovare un
filo conduttore e una continuità tra i vari governi. Ma procediamo per
piccoli passi.
Cosa mette in campo questo rinomato Jobs Act?
La prima tranche, già approvata tramite il decreto legge 34/14, pone al centro “la flessibilità in entrata” e “l’occupazione giovanile”, modificando il contratto a termine e quello di apprendistato.
Nello specifico, la durata del contratto a termine
(Art. 1) viene alzata da 12 a 36 mesi, eliminando la causale, ovvero
l’obbligo di spiegare la motivazione della temporalità “anomala” del
rapporto di lavoro. Insomma, si avranno contratti a termine per lo
svolgimento di qualsiasi mansione, senza bisogno di specificare alcuna
ragione per l’assunzione “precaria”, permettendo così all’azienda di
avere diritto di vita e di morte sui lavoratori. In più, per i
lavoratori costretti a barcamenarsi tra un contratto e l’altro, viene di
fatto impedita, per la forte ricattabilità, anche la possibilità di
organizzare uno sciopero, avviare una vertenza, o magari denunciare il
proprio datore di lavoro, qualora si venisse licenziati senza ricevere
motivazioni (possibilità che in passato ha portato molti lavoratori ad
essere reintegrati).
In termini di precarizzazione, invece, con il DL si consentirà il rinnovo del contratto a termine fino ad 8 volte nell'arco di 3 anni, abolendo anche la pausa prevista (dai 10 ai 60 giorni) tra un rinnovo e l'altro. (modifica aggiunta all’ Art 4, comma 1 del dlgs 368/11) senza arrivare mai ad un'effettiva e duratura assunzione.
Capiamo così come sarà impossibile progettare il nostro futuro anche a breve termine; con le 8 proroghe potremmo essere riconfermati addirittura di 5 mesi in 5 mesi,
rinnovando il contratto ad ogni scadenza, fermo il dato che,
naturalmente, l’azienda potrà anche semplicemente decidere di smettere
di rinnovarlo senza dover spiegare niente e senza che sia possibile
protestare.
Ecco la “terra promessa” dal Mercato: la
possibilità di imporre qualsiasi ingiustizia attraverso la minaccia del
licenziamento e di non garantire straordinari pagati, ferie, malattia,
ignorando definitivamente, per le donne, la norma sul divieto di
licenziamento durante la maternità.
Anche il limite quantitativo per
l’utilizzo dei contratti a termine - il 20% sul totale dei dipendenti-
non è per niente una garanzia: nel decreto si fanno salve tutte le possibilità di derogare a questo limite se costituisce una necessità per l’impresa.
(modifica aggiunta all’ Art 1, comma 1 del dlgs 368/11) Per le aziende
sotto i 5 dipendenti non esistono limiti - pensate non solo alle piccole
fabbriche, ma anche ai pub, pizzerie, bar dove vi trovate a lavorare - e
in più esistono eccezioni1
per i lavori “stagionali”, per le aziende in fase di avvio e altre
false specificità. Per le grandi aziende, comunque, parlare di
percentuali è relativo, considerato il numero elevato di impiegati di
alto livello, quadri, personale amministrativo con “posto fisso” che
bilancerebbe i tanti lavoratori impiegati per mansioni di bassa
specializzazione e, quindi, potenzialmente assumibili con contratti a
termine.
Ma la “svolta” non finisce qui, perché ad essere modificati dal decreto legge sono anche i contratti di apprendistato (Art 2), già un efficace strumento di sfruttamento, molto spesso giovanile, a gratis o decisamente malpagato.
Se prima per assumere nuovi apprendisti bisognava stabilizzare almeno il 50%2 di quelli precedenti, adesso è possibile farne a meno; così non vi sarà nessuna speranza di stabilità dopo l’apprendistato.
Nel migliore dei casi, quello più probabile, si verrà mandati a casa per lasciar spazio ad altri che lavoreranno fino a quando farà comodo all’azienda. Nel peggiore, si viene “riconfermati” nel ruolo di volta in volta, restando apprendisti a vita!
Nel migliore dei casi, quello più probabile, si verrà mandati a casa per lasciar spazio ad altri che lavoreranno fino a quando farà comodo all’azienda. Nel peggiore, si viene “riconfermati” nel ruolo di volta in volta, restando apprendisti a vita!
Come se non bastasse, per gli
apprendistati, viene abolito ogni controllo e obbligo sul ruolo
formativo del contratto. Il datore di lavoro può non garantire
all’apprendista un “passaggio di livello”, come avveniva in passato
organizzando corsi di formazione o sfruttando quelli regionali.
Ecco come si palesa la vera natura dell’apprendistato: nessuna “formazione” o “alta specializzazione” - come da anni ci raccontano, soprattutto gli organi accademici delle nostre università - ma lavoro flessibile, a basso costo, da utilizzare senza vincoli quando e come si vuole, licenziando chiunque quando oramai non serve più. Niente di più che un contratto più conveniente per l’azienda, soprattutto se si pensa alla retribuzione dell’apprendista: solo il 35% rispetto a quella ordinaria (aggiunta all’ Art 3, comma 2-ter, dlgs 167/11) e con numerose agevolazioni contributive per l’impresa. Un modo come un altro per livellare, all'ingresso del mercato del lavoro, i salari – al ribasso, of course!
Ecco come si palesa la vera natura dell’apprendistato: nessuna “formazione” o “alta specializzazione” - come da anni ci raccontano, soprattutto gli organi accademici delle nostre università - ma lavoro flessibile, a basso costo, da utilizzare senza vincoli quando e come si vuole, licenziando chiunque quando oramai non serve più. Niente di più che un contratto più conveniente per l’azienda, soprattutto se si pensa alla retribuzione dell’apprendista: solo il 35% rispetto a quella ordinaria (aggiunta all’ Art 3, comma 2-ter, dlgs 167/11) e con numerose agevolazioni contributive per l’impresa. Un modo come un altro per livellare, all'ingresso del mercato del lavoro, i salari – al ribasso, of course!
Insomma, porre al centro la tanto sbandierata “questione giovanile”
(solo nel 2013 sono stati persi 413.000 posti di lavoro e la
disoccupazione giovanile in Italia ormai raggiunge il 42,4%, 690.000
persone3)- tanto da spingere il Governo Renzi ad adottare questi provvedimenti d'urgenza – servirà
per ridefinire in peggio le modalità di accesso, uscita e permanenza
del mondo del lavoro, indipendentemente dall'età anagrafica. L’intento è quello di compiere un attacco complessivo,
anche se formalmente parcellizzato, sia nei confronti di chi sta già
dentro un mondo del lavoro fatto di sfruttamento e mancanza di tutele,
sia per chi al momento ne è fuori e vive un presente di disoccupazione e
precarietà assoluta.
Cosa aspettarci dunque?
A dispetto di quel che recita il profeta
Renzi, l'unica grande rottamazione riguarda ciò che resta delle tutele e
delle garanzie di chi è costretto o sarà costretto a lavorare per vivere. Proprio chi si ritrova a dover vendere il proprio tempo, le proprie capacità e la propria creatività, quindi riducendosi a vivere per lavorare,
dovrà inseguire un lavoro di qualsiasi genere, di qualsiasi durata,
senza possibilità di costruire minime prospettive per il proprio futuro.
Attraverso queste riforme di
liberalizzazione dei contratti non ver rà creato un solo posto di
lavoro. Anzi, in perfetta continuità con le politiche europee, possiamo
prevedere - senza invocare nessuna retorica sulla “crescita” -
un aumento generale dello sfruttamento e della competitività tra
lavoratori a cui i principi di merito e produttività, veicolati da anni
sui posti di lavoro e nei luoghi di formazione, garantiranno il sostrato
ideologico necessario e sufficiente ad essere accolto senza “traumi”
particolari da chi subisce l'attacco in prima persona.
Diminuire il costo del lavoro
differenziando i contratti, tagliando ulteriormente i salari, aumentando
i ritmi di produzione ed eliminando le già poche tutele dei lavoratori,
da un lato manifesta la volontà di chi ci governa di dividere i nostri
interessi mettendoci l'uno contro l'altro, dall’altro ci mostra
chiaramente come gli effetti di un attacco solo apparentemente
circostanziato riguardino tutti, chi ha ancora un contratto a tempo
indeterminato e chi, come i lavoratori a nero, è notoriamente senza
tutele.
Infatti, i lavoratori a tempo
indeterminato che, se per il momento possono forse gioire per la
promessa di qualche decina di euro in più in busta paga (soldi che
vengono dai tagli a sanità e pensioni enunciati dalla spending review),
vedranno purtroppo anch'essi un peggioramento complessivo dei diritti e
delle condizioni di lavoro.
In prospettiva, infatti, c’è il disegno di legge sulla “flessibilità in uscita”, dove non si esclude un nuovo intervento sull’articolo 18, la soppressione della Cassa Integrazione - che rappresenta per le aziende un elemento di “rigidità”, ma per i lavoratori è ancora uno strumento che obbliga i datori di lavoro a riassumerli a crisi aziendale finita.. - con l’introduzione di una nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego che elimina ogni garanzia di riassunzione per riuscire quindi a precarizzare non solo i giovani, ma l’intera forza-lavoro.
In prospettiva, infatti, c’è il disegno di legge sulla “flessibilità in uscita”, dove non si esclude un nuovo intervento sull’articolo 18, la soppressione della Cassa Integrazione - che rappresenta per le aziende un elemento di “rigidità”, ma per i lavoratori è ancora uno strumento che obbliga i datori di lavoro a riassumerli a crisi aziendale finita.. - con l’introduzione di una nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego che elimina ogni garanzia di riassunzione per riuscire quindi a precarizzare non solo i giovani, ma l’intera forza-lavoro.
E’ la fine? Cosa possiamo fare noi?
Dopo questo piccolo quadro sicuramente
non esaustivo, il fronte è quindi quanto mai chiaro. L’attacco sferrato
risulta più che complessivo, resta solo da capire cosa possiamo fare
noi, a partire da una comune consapevolezza che la retorica sul lavoro che non c’è, sui sacrifici da fare ad ogni costo ormai non regge più.
Se ci guardiamo intorno, infatti, nelle nostre città, per le strade, rispetto ai nostri bisogni, il lavoro da fare c’è eccome,
ci sono nuovi ospedali da costruire e migliorare, scuole da
ristrutturare, strutture sportive da implementare, strade da rendere
vivibili insieme ai quartieri che le circondano e si potrebbe continuare
all’infinito, così come ci sono milioni di case sfitte da dare ai
senzatetto. Ciò che ci impedisce, però, di sviluppare le nostre forze in
questa direzione, di liberare il nostro tempo, di liberare il nostro
lavoro dallo sfruttamente di qualcun altro e metterlo al servizio delle
esigenze reali dell'intera società è un’organizzazione del lavoro
precisa, che mira solo a conservare e implementare i profitti di pochi
che, in questi anni di crisi, hanno continuato ad arricchirsi sulle
spalle degli sfruttati che vorrebbero sempre più sfruttabili.
Il succo del vangelo di Renzi, che è il
vangelo dei gruppi industriali e finanziari che lo spalleggiano, è
questo, per quanto si travesta con riforme nominate “epocali” e cerchi
un look molto giovane e apparentemente attento alle questioni sociali.
Ma non dobbiamo demordere,
perché noi una risposta reale e organizzata non l’abbiamo ancora messa
in campo e dobbiamo cominciare a costruire insieme una contro ricetta a
quest’attacco firmato Jobs Act.Riprendiamo parola,
facciamolo volgendo la sguardo a chi, ancora oggi, nonostante tutto,
continua a lottare, a scendere in piazza come avvenuto nelle strade di
Roma il 19 Ottobre con più di 100.000 persone, come in Grecia, in
Portogallo e come di recente in Spagna, ponendo in maniera forte e
chiara che non vogliamo né la disoccupazione, né l’esilio, né la precarietà.
Siamo pronti a riprenderci la dignità, lavorando tutti, lavorando meno
ore, aumentando i salari, girando la frittata verso chi quella ricchezza
la crea quotidianamente lavorando, senza aspettare nuovi tecnocrati
risolutori.
Una prima occasione sarà il 12 Aprile, prima data nazionale contro il governo Renzi
fondamentale per costruire in prospettiva una risposta sempre più forte
nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università e nei territori,
in vista del vertice contro la disoccupazione giovanile a luglio che
vedrà anche l’inaugurazione del Semestre di presidenza italiano del
consiglio dei ministri europeo dove il nostro governo sarà
protagonista nel cercare di armonizzare queste politiche del lavoro a
livello internazionale. Il nostro momento è adesso: adesso perchè
abbiamo l’occasione e la responsabilità di provare a costruire
un’alternativa dal basso alla miseria che viviamo quotidianamente,
mettendo in connessione le numerose lotte e vertenze che ogni giorno
vengono portate avanti in questo paese, costruendo un'opposizione
incisiva alle politiche di una società che vuole dirsi democratica, ma
che in realtà, con misure autoritarie, chiude sempre più qualsiasi
spazio di azione e di parola ai soggetti collettivi che la compongono.
Resistiamo a quest’attacco, prepariamo l’offensiva!
Uniti ed inflessibili…
SMASH JOBS ACT!
SMASH JOBS ACT!
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