domenica 14 dicembre 2014

Fortini e il comunismo come autoeducazione politica


Fortini e il comunismo come autoeducazione politica


di Daniele Balicco
Continuiamo a ricordare nel ventennale della scomparsa Franco Fortini con un saggio di Daniele Balicco tratto da AA.VV. (a cura di Pier Paolo Poggio) L’Altronovecento, vol.II, Jaka Book
                                                                                                                                                                         
Tutto se non si vince ritornerà (F. Fortini)
Franco Fortini è stato uno dei più importanti intellettuali italiani della seconda metà del Novecento. Tuttavia, il suo nome dice poco, se non addirittura pochissimo, a chi oggi abbia meno di trent’anni. Del suo lavoro di scrittore, di poeta, di traduttore, di rigoroso intellettuale politico, di severo polemista, il presente non porta che rarissime tracce. Rispetto a personaggi molto diversi, ma a lui facilmente associabili, come furono Pier Paolo Pasolini o Italo Calvino, la cui fama e popolarità è oggi fuori discussione, perfino a livello internazionale, Fortini è all’opposto una figura intellettuale quasi del tutto rimossa; le sue opere, tranne alcune eccezioni, sono per lo più fuori catalogo. Solo chi si occupa professionalmente di storia letteraria sa riconoscerlo come uno dei più importanti poeti della tradizione post-montaliana, collocandolo correttamente accanto a Vittorio Sereni e Mario Luzi e ricordandone, magari, la funzione di mediatore in Italia dell’opera di Bertold Brecht. O poco altro. Per questa ragione, credo che un buon modo per iniziare a tratteggiare il profilo generale di un intellettuale politico come Fortini sia anzitutto quello di provare a ragionare sul significato storico della rimozione che il suo lavoro ha subito. Prima dunque di presentare gli elementi essenziali della sua biografia e del suo pensiero, partirò descrivendo il conflitto che per molti anni l’ha opposto a Calvino, ma soprattutto a Pasolini. Nel confronto con questi due grandi scrittori del secondo Novecento italiano, dovrebbe risaltare con una certa chiarezza la differenza specifica del suo lavoro intellettuale. Da cui mi pare discenda, come logica conseguenza di una sconfitta storica molto più vasta, l’oblio che la sua opera e il suo pensiero tutt’ora subiscono.
Attraverso Pasolini e Calvino

A differenza di Fortini, Pasolini e Calvino sono stati scrittori gravitanti, naturalmente non senza problemi e scontri, nell’orbita culturale del PCI. Qui non interessa ricostruire il progressivo evolversi di un distacco – nel caso di Calvino, dopo il ’56 – o di un complicato ed intermittente rapporto di espulsione e riavvicinamento – come nel caso Daniele Balicco di Pasolini. Quello che si può sostenere, anche se in modo necessariamente apodittico, è che entrambi appartengono alla storia della crisi della cultura comunista in Italia.
Tanto in Pasolini, quanto in Calvino, è riconoscibile, infatti, un itinerario espressivo ed intellettuale che a quella crisi cerca risposte e soluzioni nuove. E non senza originalità e successo. L’itinerario di Fortini, rispetto ad entrambi, è invece molto più lineare:  il suo anticapitalismo è stato radicale quanto il suo rifiuto politico del comunismo stalinizzato. Del resto, Fortini non fu mai iscritto al PCI; i suoi saggi, fin dalla fine degli anni Quaranta, possono all’opposto essere letti come documento storico di un’implacabile requisitoria contro le distorsioni dello stalinismo, italico e mondiale1. Se nutrì non poche speranze sulla rivoluzione cinese – nel 1955 partecipò, insieme a Norberto Bobbio, Pietro Calamandrei, Cesare Musatti, Antonello Trombadori e Carlo Cassola alla prima delegazione occidentale nella Repubblica popolare di Mao2 – l’amicizia con Edoarda Masi lo mise da subito in guardia sulle contraddizioni di quell’immensa trasformazione sociale; e, dalla fine degli anni Settanta in poi, sui fenomeni degenerativi che avrebbero trasformato la Cina in quello che è oggi: l’epicentro dell’accumulazione mondiale.
In un testo poetico del 1958, intitolato niente meno che Il comunismo3, Fortini descrive, non senza ironia, il proprio tumultuoso rapporto con «la causa» e con «i compagni». Credo valga la pena citarlo per intero:
Sempre sono stato comunista.
Ma giustamente gli altri comunisti
hanno sospettato di me. Ero comunista
troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
Giustamente non m’hanno riconosciuto.
La disciplina mia non potevano vederla.
Il mio centralismo pareva anarchia.
La mia autocritica negava la loro.
Non si può essere un comunista speciale.
Pensarlo vuol dire non esserlo.
Così giustamente non m’hanno riconosciuto
i miei compagni. Servo del capitale
io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.
E lavoravano essi; io il mio piacere cercavo.
Anche per questo sempre ero comunista.
Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi
di questo mondo sempre volevo la fine.
Ma anche la mia fine. E anche questo, più questo,
li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.
Il mio centralismo pareva anarchia.
Com’è chi per sé vuole più verità
Per essere agli altri più vero e perché gli altri
siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.
Sempre dunque sono stato comunista.
Di questo mondo sempre volevo la fine.
Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità è necessaria,
dissolta nel tempo e aria, cuori più attenti ad educare.

Anche se oggi questo termine può sembrare quasi del tutto incomprensibile, Fortini voleva essere un rivoluzionario. Il punto di partenza non negoziabile della sua riflessione critica e poetica è la fine del modo di produzione capitalistico. Per tutta la vita sceglierà di stare dalla parte del lavoro vivo contro la logica astratta ed autodistruttiva dell’accumulazione.
Calvino e Pasolini hanno seguito invece un itinerario più tradizionale. Hanno cercato, in un primo tempo, di interpretare, benché in forme espressive diametralmente opposte, un ruoloantico, ma in linea con la politica culturale del PCI: quello del letterato civile, del poeta impegnato, dell’artista coscienza infelice della vita offesa. In un secondo tempo, entrando in crisi quel modello di cultura di fronte alla fine del togliattismo e soprattutto alla simmetrica intensificazione delle forme espressive dell’industria culturale, hanno cercato strade nuove. E tuttavia, semplificando al massimo, si può sostenere che entrambi hanno provato a riadattare, in un contesto culturale ormai mutato, quel ruolo di intellettuale engagé a cui tutto sommato restano fedeli. Calvino modificherà il proprio profilo di scrittore civile in quello di scienziato della scrittura: si immaginerà come un osservatore distaccato dalla vita alla ricerca di un senso, circostanziato e sempre relativo.
È in fondo, la sua, la messa in scena di un soggetto malinconico, imprigionato nei confini di una convenzione, come quella del gioco letterario, vissuta, soprattutto nelle ultime opere –Lezioni americane e Palomar – come barriera di sabbia fragilissima eretta contro l’informe barbarico che avanza veloce e inesorabile come la marea. Pasolini, all’opposto, è l’autore che punta tutte le sue carte contro le barriere e i confini della convenzione letteraria, che vuole forare, aprire e oltrepassare:  se Calvino sceglie per sé il ruolo di scienziato, Pasolini preferisce quello del predicatore profetico capace di indicare, nel proprio personale moto di ribellione contro il presente, le forze e i poteri che lo devastano.
Da parte sua, invece, Fortini, non avendo mai scommesso sul PCI, e men che meno su quel modello di lavoro intellettuale, di fronte alla crisi dello stalinismo non arretra di un passo. Anzi. I saggi più famosi di quegli anni, come Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo eAstuti come colombe, entrambi pubblicati nel 1965 in Verifica dei poteri, sono proprio una diagnosi lucida, e forse definitiva, dell’errore politico nascosto in quel progetto culturale di cui il PCI è stato, in Italia, il massimo promotore: l’engagement. Ma altrettanto lucida è l’analisi della successiva metamorfosi progressista di quell’idea di un impegno civile tutto e soloculturale. Di fronte alle nuove avanguardie o ai progetti di trasformazione del ruolointellettuale alla Calvino o alla Pasolini, il suo dissenso sarà sempre radicale. Chi crede di trasformare la società facendo saltare in aria la sintassi o semplicemente azzerando il sistema delle forme estetiche non si rende davvero conto che il capitale sta facendo lo stesso, ma con ben altri mezzi e potenza; ma soprattutto ignora che l’antitesi è altrove. Contro l’insieme di questi progetti di modernizzazione del ruolo di scrittore Fortini opporrà, insieme, Brecht e Mandel’stam: prima di ogni impegno estetico, si discuta anzitutto dei rapporti di proprietà; prima di ogni sperimentalismo e fuga in avanti avanguardistica, si ricordi che la poesia classica è la poesia della rivoluzione. Perché l’idea di uomo integrale lì protetta è, insieme, anticipo di un futuro liberato e forma che illumina per antinomia la miseria che contro ogni ragionevolezza ancora incatena il nostro presente.
A partire dagli anni Sessanta, Fortini ha sempre più esacerbato il giudizio politico sulle scelte intellettuali di Pasolini e Calvino, i quali, da parte loro, nonostante le critiche ricevute, hanno invece continuato a considerarlo come uno degli interlocutori privilegiati, se non il lettore ideale, di quanto andavano scrivendo o realizzando, negli anni, con le loro opere. Molte lettere di Pasolini e di Calvino, a lui indirizzate, sembrano essere state scritte nello stesso momento e dalla stessa persona. Ne prenderò come esempio solo due. La prima è un biglietto che Pasolini invia alla fine del 1961, in risposta ad una lettera dove, almeno per una volta, Fortini sembra cedere le armi e complimentarsi con l’amico per il successo e la bellezza di Accattone («per aver fatto Accattone, ti perdono molte cose»). Vediamo come gli risponde Pasolini:
ti scrivo solo un magro biglietto, per ricordarti che esisto e che soprattutto tu esisti in me: esisti tanto da essere l’ideale destinatario di quasi tutto quello che scrivo. Spero di esserlo un poco anche io per te, anche se non possiedo la tua formidabile ed esplicita, sempre, reattività 4.
Una risposta quasi identica è quella che Calvino scrive il 3 giugno 1977 da Parigi. Dopo aver ricevuta una lettera di complimenti da Fortini per la pubblicazione del racconto laPoubelle Agréée («la tua Poubelle è un boîte à merveilles. Hai scritto un pezzo bellissimo. Credo che i più ci metteranno un bel po’ ad accorgersene perché non si presta, come molti dei tuoi scritti più recenti, alle brame dei giovinetti delle ultime piogge e mode») gli risponde con queste parole:
 Caro Fortini – la tua lettera m’ha fatto un enorme piacere. Di quelle pagine tu eri – già mentre le scrivevo – uno dei lettori ideali, e tenevo molto al tuo giudizio. Tu sei una delle poche persone con cui continuo a dialogare – anche senza parlarci né scriverci –: devo dire che più raramente di una volta mi trovo a contraddirti 5.
 Fortini, da parte sua, non smetterà mai, fino alla fine, di distinguere la propria traiettoria intellettuale e politica da quella dei due suoi amici/antagonisti. In un commento di  raccordo scritto presumibilmente nei primi anni Novanta, interno alla sezione epistolare di Attraverso Pasolini, che è il suo ultimo libro pubblicato in vita, la distanza è segnata quasi con violenza. Pasolini e Calvino, più o meno involontariamente, avrebbero infatti favorito – e non a caso proprio a partire dagli anni Sessanta – nella forma di lavoro intellettuale scelto, come nei modelli estetici praticati, un’idea di cultura e di intervento politico sul presente che lamutazione avrebbe, negli anni, integrato come opposizione trasgressiva illusoria o come nobile e distaccato disincanto:
 È forse difficile oggi rendersi conto di quanto fosse stridulo il contrasto fra il modo in cui veniva vissuto il presente fra Torino e Milano in quegli anni di trasformazione profonda e l’immagine che di quello ci veniva da Roma. Per di più quasi tutti gli intellettuali che erano stati vicini a pubblicazioni come «Quaderni rossi» e «Quaderni piacentini», fra il 1962 e il 1964 scomparivano alla vista, rinunciavano alla «presenza», sopravvivevano nelle forme più modeste e anonime. È forse difficile capire, oggi, che per costoro, non solo Pasolini ma anche Calvino erano dei «perduti», dei passati nel campo avverso 6.
 A partire dagli anni Sessanta, mentre Fortini, licenziato da Olivetti e da Einuadi, lavora come professore di scuola secondaria e si muove all’interno della galassia non istituzionale dei movimenti e della nuova sinistra, Pasolini e Calvino iniziano invece a posizionarsi, con successo, al centro del campo intellettuale ed artistico italiano; il primo come regista mauditintegrato nello star-system del cinema di ricerca europeo, il secondo come scrittore di best-seller raffinati, tradotti in moltissime lingue, e consulente di punta dell’Einaudi, la più prestigiosa casa editrice italiana. Dunque: da una parte, successo economico, prestigio, fama, riconoscimenti; dall’altra, impegno politico come lavoro di servizio invisibile e internoalle lotte dei movimenti antisistemici. Due mondi opposti, non c’è dubbio; come opposte, inevitabilmente, sono le forme pratiche di intervento e di lavoro intellettuale vissute. Non è un caso dunque se, ancora oggi, il valore politico della scrittura di Fortini, diversamente da quanto è poi accaduto con gli scritti polemici di Pasolini anzitutto, ma anche di Calvino, è riconosciuto – purtroppo – quasi esclusivamente da chi è appartenuto a quella storia di trasformazione sociale, che il presente ha con forza annientato. Come ha scritto, non senza ragioni, Rossana Rossanda:
 Fortini giace insepolto fuori dalle mura. E si spiega: ha voluto essere una voce poetica di quella parte del secolo che aveva tentato l’assalto al cielo d’un cambiamento del mondo, ha perduto ed è ricaduta fra le maledizioni del Novecento e l’inizio di un millennio che non ne sopporta il ricordo 7.
 Pasolini e Calvino, invece, hanno riscosso in vita, e proprio a partire dagli anni Sessanta, un vasto e duraturo successo di pubblico, anche internazionale; per diventare, negli anni successivi alla morte, due classici riconosciuti del secondo Novecento italiano.
Entrambi: con buona pace di Carla Benedetti. Dopo la pubblicazione dei dieci volumi nei Meridiani dell’Opera omnia di Pasolini – unico autore di tutta la tradizione letteraria italiana a godere di un riconoscimento di queste dimensioni editoriali – credo che le sarà molto difficile sostenere oggi la tesi che mosse un suo fortunato pamphlet di qualche anno fa8. Per essere chiari: quello che distingue realmente Fortini, come scrittore e poeta, da Calvino e Pasolini, è il suo posizionamento come intellettuale all’interno dei conflitti di massa. La sua convinzione profonda è che il lato politico della cultura vada studiato e praticato anzitutto nell’organizzazione del lavoro intellettuale. Se non si analizzano le condizioni di possibilità materiale del proprio lavoro, se non si attraversano, fino in fondo, le contraddizioni di classe che ne deformano l’autocoscienza e i poteri; se non si porta fino alle estreme conseguenze la critica dei propri strumenti espressivi, si può tranquillamente vivere nell’inganno di essere autori al di sopra del processo di mercificazione che invade l’esistente; si potranno perfino criticarne gli effetti devastanti sul mondo, ma senza riconoscerne le cause reali; le stesse che trasformano un autore in un’icona/merce della trasgressione o del disincanto. Quello che Pasolini e Calvino rifiutano di compiere è in sostanza una critica radicale dei mezzi di comunicazione che usano, la sola che avrebbe potuti introdurli in un universo realmente politico. È una questione centrale per capire Fortini e va approfondita.
Liberazione del lavoro

In un articolo intitolato Le firme supplici, pubblicato alla fine del 1977 e poi confluito inInsistenze, Fortini prende spunto dalla sostituzione di Piero Ottone con Francesco Di Bella alla direzione del «Corriere della Sera» per riflettere sull’uso politico che le direzioni dei quotidiani hanno fatto, negli ultimi trent’anni, dei propri collaboratori esterni.
La sostituzione di Ottone nascondeva in realtà questioni politiche molti gravi, che di lì a poco sarebbero state scoperte: vale a dire il coinvolgimento diretto della famiglia Rizzoli, allora proprietaria del quotidiano, nella loggia massonica P2, di cui Di Bella era membro. Dopo questa inquietante sostituzione, un gruppo di collaboratori esterni, fra cui Fortini – che in un primo momento è incerto se firmare o meno il documento, visto che ha già deciso di andare allo scontro diretto e dimettersi – chiede l’estensione del diritto sindacale di poter discutere, con il direttore e la redazione del giornale, la linea editoriale del quotidiano. Di fronte ad un così brusco cambio di direzione, infatti, i collaboratori esterni chiedono un minimo di verifica e di controllo sulla linea del giornale di cui comunque restano firme prestigiose. La richiesta viene naturalmente respinta. Alcuni collaboratori, insieme a Fortini, daranno le dimissioni; altri continueranno a collaborare lo stesso. La storia di questo piccolo conflitto sindacale portato all’interno della direzione del più influente quotidiano nazionale da uno sparuto gruppo di firme esterne, più o meno importanti, offre a Fortini l’occasione per riflettere sull’uso ambivalente della funzione autore in questa circoscritta forma di collaborazione.
L’articolo anzitutto ricostruisce per sommi capi un problema già analizzato da Fortini in Astuti come colombe. Il problema è quello della fine del mandato sociale per gli scrittori a partire dal boom degli anni Sessanta:
 Se ben ricordiamo, nella prima metà degli anni Sessanta, lo «scrittore» aveva perduta la sua rilevanza semisecolare sulla terza pagina del quotidiano e aveva dovuto ripiegare sulle rubriche dei settimanali. Le mode della neoavanguardia prima, poi la crescita della protesta giovanile e studentesca dissolsero definitivamente l’aura del «direttore di coscienza».
 Fortini continua ricordando che l’attacco a quell’idea di scrittore come umanista generico, veniva da due direzioni antitetiche: la prima, di area tecnocratica progressista, chiedeva specializzazioni e scienza, quindi esperti. La seconda, invece, propria dei movimenti di contestazione giovanile, disprezzava la letteratura per le sue forme tradizionali di linguaggio e di illusorio engagement al di sopra delle parti, in stile anni Cinquanta: di qui il non riconoscimento, per quella generazione, della funzione politica di autori come Moravia, Morante, Pasolini e Calvino. Era un rifiuto ambivalente, ma che avrebbe portato fino ad una negazione profonda del presunto potere della cultura, tanto umanistica quanto tecnica, e alla conoscenza approfondita della sua subordinazione diretta alle forme di sfruttamento, di selezione e di produzione, dell’industria culturale.
Ma è solo a questo punto, per Fortini, che il lavoro intellettuale può entrare realmente in una dimensione politica. Dopo aver attraversato fino in fondo le falsi immagini di Sé come autore(prestigio, autonomia, libertà), dopo aver ricostruito il posizionamento reale e lo sfruttamento subito all’interno della macchina dell’industria culturale, a quel punto il livello dello scontro può alzarsi e diventare politico: gli intellettuali si riconoscono come lavoratori, si organizzano sindacalmente, chiedono potere di verifica e di controllo sulla propria attività:
 non è un caso che questa conoscenza si traducesse, in quel periodo, nei primi tentativi di organizzazione di una rappresentanza politico-sindacale di tipo fino allora sconosciuto all’interno di alcune case editrici, dove la forza-lavoro intellettuale chiedeva compartecipazione alle scelte e alla gestione culturale.
 Questo tipo di educazione politica e di organizzazione del lavoro intellettuale portava con sé richieste sindacali di settore, ma soprattutto esprimeva esigenze generali di trasformazione sociale. Era solo una parte, infatti, di un movimento più vasto, e per quasi un decennio egemonico in Italia, di conflitto sociale portato dentro la dimensione del lavoro, mettendone in discussione comando, condizioni materiali e insieme qualità. Contro questo movimento, che nei suoi punti più alti e rigorosi fu realmente capace di mutare temporaneamente i rapporti di forza all’interno di vasti settori della società italiana, lo Stato agì con tutti i mezzi, leciti ed illeciti, dalla strategia della tensione all’inflazione. Ed essendo lo scontro poderosamente giocato ad armi impari, i movimenti per un po’ resistono e poi si sfaldano; e una volta separata dal conflitto politico di cui era logica continuazione, l’esigenza di una trasformazione complessiva del costume e della cultura viene parzialmente accolta, maconformata a diritto civile. Poco più di un adeguamento necessario all’incremento di nuovi consumi in una società ormai affluente.
Ed è proprio su questo processo di modernizzazione repressiva che, come è noto, si scaglia Pasolini. Ma solo come autore, appunto; come spettatore al di sopra delle parti. Può denunciare gli effetti, può profeticamente disegnare una tendenza apocalittica generale; non può tuttavia capire l’uso che viene fatto del suo lavoro e del suo nome. Che è quello, secondo Fortini, di trasformare in generico discorso antropologico e in questione di diritti civili e libertà della persona, la forza di un ben più destabilizzante conflitto politico di massa. Non è un caso, dunque, che proprio negli stessi anni in cui lo Stato agisce brutalmente contro i movimenti, i più importanti quotidiani nazionali tornino a conferire a scrittori come Pasolini, Calvino, Moravia e la Ginzburg, un mandato sociale come generici direttori delle coscienze:
 Di qui la sorpresa di alcuni di noi quando, qualche anno più tardi, la direzione di Piero Ottone aprì spazi e conferì autorità proprio a quel tipo di intervento «etico» che pareva scomparso. (…) L’operazione che gli «scrittori» adempirono sul «Corriere» (e anche su non pochi altri giornali) fu di disinnescare quanto ancora restava di propriamente eversivo nel repertorio extra-parlamentare e di accettarne e discuterne invece le richieste di «diritti civili». (…) Per questa tematica hanno lavorato, fra terza e prima pagina, proprio gli autori ( Calvino, Pasolini, Moravia, Ginzburg, e non pochi altri) che il decennio precedente aveva allontanato dalla ribalta: essi interpretavano le esigenze di un’area che diviene importante ogni volta che sono in gioco problemi di libertà; e che perde importanza quando i conflitti sociali, espliciti o impliciti, inalveati o no nelle forme del gioco politico, si fanno più seri 9.
 Dietro l’uso delle collaborazioni esterne, è come se la funzione pubblica dell’autore riconquistasse proprio quel falso potere – prestigio, autonomia, libertà – contro cui le forme comuni dell’intellettuale massa, e solo qualche anno prima, avevano radicalmente combattuto. Dietro questa restaurazione del mandato sociale allo scrittore, dunque, va letta, per Fortini, la volontà di neutralizzare l’idea che un conflitto sociale, portato dentro la dimensione del lavoro, anche intellettuale, possa di nuovo arrivare fino al punto di mettere in discussione i presupposti generali (politici, culturali, antropologici) della riproduzione allargata.
Attraversare le false immagini di Sé

Con la fine degli anni Settanta, e la sconfitta politica del lavoro, naufraga sempre più anche l’idea di una necessaria trasformazione del ruolo intellettuale; e con quest’ultima viene forzatamente spostata nell’irrealtà la persuasione che sia possibile lottare per una cultura diffusa, capace di portare il senso comune fino alla comprensione politica del presente. È difficile capire oggi il senso di molti degli scritti saggistici, e perfino della poesia, di Fortini, perché sono precisamente orientati a questo fine. Lo presuppongono come un orizzonte scomparso. La sua scrittura, infatti, non si rivolge ad un pubblico generico, come invece quella di Pasolini o di Calvino e, nello stesso tempo, non è neppure organica ad un partito, ad un movimento sociale o tecnicamente accademica. Come ha più volte egli stesso ripetuto:
 non parlo a tutti. Parlo a chi ha una certa idea del mondo e della vita e un certo lavoro in esso e una certa lotta in esso e in sé10.
 Non dovrebbe essere difficile capire a questo punto che l’oblio caduto sull’opera e sulla figura intellettuale di Fortini deriva precisamente dalla scomparsa dei destinatari verso cui la sua scrittura è orientata. Non solo. È l’idea stessa di politica – come fare cosciente e possibilità comune di emancipazione – presupposta da questa forma di lavoro intellettuale ad essere, insieme alla memoria di quegli anni, rimossa dall’orizzonte d’attesa del presente. Senza una comunità politica coinvolta in un progetto di trasformazione radicale della società questi scritti, come i vecchi 33 giri, girano a vuoto. A partire dagli anni Ottanta, inizia ad essere visibile, anche per Fortini, quella mutazione di cui, qualche anno prima, l’amato/odiato Pier Paolo aveva parlato nei suoi famosi Scritti corsari. Con un’impressionante rapidità, infatti, il quadro generale della società e della cultura italianamuta. Spariscono dalla scena pubblica i destinatari verso cui la scrittura di Fortini è diretta e, nello stesso tempo, per tantissime ragioni che qui non possono essere spiegate, viene reciso il confronto con le nuove generazioni che sembrano vivere ormai in un mondo separato, impermeabile alla ricerca di un senso storico e politico del presente. Discutendo con Rossana Rossanda sui contenuti politico/culturali dell’incontro giovanile organizzato da Roberto Roversi, a Bologna, ad un anno dalla strage del 1980, così scrive:
 Perché andare a dire quel che non ci viene chiesto? (…) Debbono essere i giovani a chiedere, a cercare chi può rispondere, a domandare sempre di più, a federarsi, a controllare; altrimenti meritano di essere lasciati affogare nella panna delle proprie spiegazioni organizzate. Debbono arrivare a sentire intollerabile la loro miseria e la loro ignoranza. Debbono chiedere aiuto. Al passato; alla storia; ai libri dei morti. Debbono morire al presente. Finché non capiranno che chiunque altrimenti li lusinga è il loro nemico, non meritano che di distrarsi a Bologna e di leggersi a vicenda le loro caritatevoli poesie di bambini cresciuti. Avranno, tutt’al più il destino dei loro genitori. Che i giovani si separino, invece. Li invito ad una dissidenza meno vistosa di quella del ’68 ma più spietata e intransigente. A una clandestinità; che nulla abbia con quella terroristica. A una segretezza; che nulla abbia della P2. Una congiura in piena luce che non perdoni nessuno e non renda facondo il disprezzo; e che, con tenacia da formica, ripensi e rifondi le ragioni di una democrazia, proponendosi un «fino in fondo» che implica la più radicale condanna, quella dell’oblio, per chi li avrà ingannati 11.
 Da questa risposta emerge con chiarezza come Fortini intenda lo scopo del proprio mestiere. Per lui la riflessione ideologica non è un discorso moralistico che un soggetto esterno propone ed impone ad un altro soggetto, generico, subalterno e ancora informe. L’attività critica è piuttosto lavoro autoriflessivo di un gruppo, di una classe sociale sullaforma della propria esistenza. Il fine è quello di corrodere le false immagini di sé, di riconoscere cioè la deformazione forzata che ogni soggettività subisce sotto il dominio stregato del capitale. In una lontana pagina della fine degli anni Sessanta quest’idea, vera e propria stella polare della sua produzione intellettuale, veniva descritta così:
 il compito ideologico non è quello di dar forma ad un informe (soluzione tipica del razionalismo borghese), di venerare un informe (soluzione dell’estremismo vitalistico e avanguardistico) o di difendere un catalogo di forme (soluzione del populismo) ma di criticare l’immagine mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe oppressa ha di se stessa. Non quindi col tradizionale processo di assunzione a coscienza e a consapevolezza, ma con la proposta di attività, di prassi 12.
 Il lavoro critico è anzitutto un lavoro autoriflessivo di un gruppo; implica una relazioneorientata da una comune volontà di conoscenza, di autoeducazione e quindi di lotta. Per questo, Fortini, rispondendo a Rossanda, insiste sulla necessità di una ragionevole posizione d’attesa: devono essere i più giovani a pretendere una relazione di conoscenza adulta, perché capace di trasformarli e farli crescere. Solo se è vissuta come un processo di trasformazione di sé e di emancipazione dall’incoscienza subalterna nella quale sono forzatamente costretti, la cultura critica può avere, per le nuove generazioni, un senso e un’efficacia pratica. Altrimenti è vuoto moralismo. Non siano dunque gli adulti a proporre ed imporre una narrazione politica possibile della feroce sconfitta subita, ma siano, all’opposto, i più giovani a riconoscere chi, fra gli adulti, può aiutarli a capire perché il presente nel quale sono bloccati dipenda anche da quella sconfitta.
Comunque sia, rispetto a quest’ultima, la convinzione di Fortini è pressappoco la seguente. La storia dei movimenti antisistemici italiani del decennio ’67-’77, piena di problemi, eppure straordinaria per intensità, estensione e durata, è finita molto male per una serie di contraddizioni e debolezze interne. Ma soprattutto per l’imparità dello scontro. Un insieme di fattori eterogenei, eppure convergenti – la violenza militare dello Stato, una profonda crisi economica con rapida ristrutturazione industriale, il potenziamento dell’industria culturale e una vera e propria rivoluzione tecnologica – hanno fisicamente distrutto e culturalmente annientato l’insieme eterogeneo di quel laboratorio politico e il suo progetto di trasformazione sociale. Nessun altro paese occidentale è del resto uscito dalla crisi dei lunghi anni Settanta mutando la propria fisionomia generale con un tale cumulo di violenza militare subita, di disgregazione sociale e di corruzione istituzionale:
 Qualche volta penso a tutti quelli che da più di un decennio, ascritti alla criminalità politica, sono già condannati o in attesa di giudizio oppure di qualche legge d’oblio (…); penso a inquisiti e inquisitori; ai sospettati e ai loro fratelli; alle madri degli ammazzati; ai fermati e alle loro mogli; ai rilasciati e ai loro datori di lavoro; ai licenziati e ai loro delegati sindacali. Quanti sono! Dovete aggiungere, sia chiaro, tutti i settori e i gradi della amministrazione che si affaticano per le carte e i corpi di tutti costoro; e i magistrati, i poliziotti e i carabinieri assassinati e i loro figli e famiglie. E poi le folle dei giovani senza lavoro, dei cassintegrati che perdono il proprio passato e il mestiere, dei marginali che perdono l’orizzonte, dei drogati che conversano con il demonio: mai era stata nel nostro paese così densa e oleosa la spremitura sociale, ormai color pece, crescente, stabilizzata, accettata 13.
 E tuttavia non può neppure essere dimenticato che l’eredità vera di quella stagione va cercata, anche come espressione momentanea di un mutato rapporto di forze, in una profonda democratizzazione degli apparati ideologici dello stato (scuola, università, magistratura, fisco, polizia, ospedali, manicomi). Processo che può essere ben compendiato in due straordinarie conquiste legislative: lo Statuto dei lavoratori e la legge 180. Il problema, semmai, fu che quel moto di trasformazione, per precise ragioni e vincoli internazionali, non poteva superare un certo limite. Non poteva cioè raggiungere né i centri di comando della macchina dello Stato e neppure i centri di selezione delle sue vere élite:
 nel periodo che va dal ’63 al ’73 si erano determinate nel nostro paese le condizioni perché una gran parte degli italiani politicamente attivi uscisse dai termini politici stabiliti dalle organizzazioni sindacali e politiche della sinistra storica, dominanti già nel ventennio successivo alla guerra. La classe politica dominante, quindi anche buona parte della classe politica della sinistra storica, ha combattuto quella realtà con tutti i mezzi, legali e illegali; dal terrorismo di stato allo sfruttamento di quello di altra origine, dalla provocazione ai normali metodi politici. Ciò nonostante la spinta fu così forte da determinare alcune fondamentali vittorie civili e da accettare di confluire nel ’76 in un voto di fiducia delle giovani generazioni al maggior partito della sinistra storica. La risposta è stata per un verso il terrorismo senza disegno politico, la degenerazione intellettuale e morale, la diffusione del cinismo e della droga, la politica di unità nazionale, la legislazione speciale, le stragi, i poteri occulti. A questo punto, chi condivida anche solo per sommi capi questo schema non può accettare di limitare il discorso a questa o a quella puntualizzazione storica. Capire indietro vuol dire capire avanti, avere dei reali progetti politici, avere la pazienza di spiegarli; mi rifiuto di rispondere a chi mi chieda di dare una valutazione morale di questo o di quel comportamento, perché l’esecrazione non è un giudizio né politico, né morale, è un atto di propaganda 14.
 Gli ultimi scritti di Fortini, quelli saggistici, ma – con i dovuti giochi di rifrazione propri del genere – in parte anche quelli poetici, possono essere interpretati come tentativi di trovare una ragione a questa sconfitta e al suo conseguente collasso sociale. Letti oggi molti dei suoi saggi appaiono come referti di un paesaggio devastato. Potrebbero anche essere pensati e studiati come una continuazione, ben più calibrata, delle scritture corsare pasoliniane. Perché se ostinatamente invitano «ad un buon uso delle rovine»15 sottendono sempre uno sguardo tragico sul presente. Sono testi che ragionano a fondo su una sconfitta violenta. Ma ragionare a fondo su una sconfitta violenta significa anche assumersi la responsabilità politica degli errori commessi. E Fortini non era certo un ingenuo, né tanto meno un velleitario. Sapeva cos’erano i rapporti di forza e che una politica incapace di calibrarli era destinata, nella migliore delle ipotesi,  all’irrilevanza. Per questo non era un minoritario per scelta, ma un militante che sapeva stare in minoranza. Ed è una cosa ben diversa. Se cercò negli ultimi anni di capire le ragioni della sconfitta dei movimenti italiani, sapeva che una politica all’altezza del presente andava ripensata da capo, fin dalle radici.
Un itinerario antiriformista

Fortini aveva vissuto, non ancora trentenne, la catastrofe della guerra. Sopravvissuto ai bombardamenti di Milano, nell’agosto del 1943, era stato esule in Svizzera e poi partigiano nella repubblica liberata di Valdossola. Nel 1945 tornò a Milano e di lì a poco Vittorini lo volle con sé nella redazione del «Politecnico» di cui divenne rapidamente una delle firme più note. L’esperienza della guerra lo aveva costretto alla politica, che non era stata davvero la sua passione di gioventù, impossibile del resto per una generazione come la sua cresciuta sotto il fascismo: «non fui io ad impegnarmi nella politica attiva, fu la guerra che mi impegnò»16. Di fronte alla catastrofe, fare politica significava almeno tre cose: anzitutto lottare per sopravvivere, quindi capire le ragioni della guerra e dei fascismi, infine organizzarsi per renderli irripetibili. Ancora in Svizzera, tramite Ignazio Silone, Fortini si era così iscritto al PSI, ma la sua successiva militanza nel partito fu poco serena, se non tumultuosa. Basta leggere Dieci Inverni per rendersi conto degli ostacoli e delle incomprensioni radicali che la sua ricerca di una verità politica – tanto sulle condizioni reali della vita nell’Unione Sovietica; quanto sul nicodemismo imposto al lavoro intellettuale dalle burocrazie dei partiti di sinistra – incontrava all’interno del Fronte popolare.
Riconsegnò a Nenni la tessera del PSI nel 1957 perché l’ipotesi di autonomia socialista, su cui aveva puntato insieme ai compagni di «Ragionamenti», si rivelava essere poco più di un’illusione: il partito, infatti, stava sì virando verso l’autonomia dal PCI, ma interpretandola ora esclusivamente come ipotesi socialdemocratica di coesistenza e sviluppo. E di lì a qualche anno, infatti, il partito di Nenni darà vita insieme alla Democrazia cristiana al primo governo di centro-sinistra della storia repubblicana. Ormai fuori da ogni istituzione e casa politica, Fortini si avvicina, in quei primi anni Sessanta, a Raniero Panzieri, altro esule socialista come lui, e al suo strano gruppo di giovani lettori del Capitale e attivisti politici senza mandato: sono gli anni di «Quaderni Rossi». Quasi contemporaneamente però stringe anche un altro legame profondo, da persuasore permanente o, forse meglio, da vero e proprio mentore. Questa volta con alcuni giovani intellettuali piacentini, politicamente appartati e culturalmente radicali. Diventeranno di lì a breve la redazione della più importante rivista della Nuova sinistra italiana: «Quaderni Piacentini». Sono questi probabilmente gli anni migliori di Fortini. Sui suoi scritti più famosi, poi confluiti nel 1965 inVerifica dei poteri, si formarono, in quegli anni, molti dei quadri politici intellettuali di quello che sarà, nel decennio ’67-’77, il movimento antisistemico italiano. Sono saggi ricchissimi, densi e stratificati; ancora oggi sono capaci di aggredire il lettore per un versocostringendolo ad attraversare le false immagini, le  auto rappresentazioni deformate del nostro paese a cui costrinsero, insieme, boom economico e togliattismo; e per un altro, sprigionano ancora un residuo di quell’energia di trasformazione che avrebbe abitato l’Italia negli anni successivi.
I saggi di Fortini sono spesso complicati. Se in uno scritto famoso apparso in tre puntate su «il Manifesto», proverà a spiegare le ragioni che lo spingono ad una scrittura non immediatamente chiara («dicono che scrivo difficile. Peggio: non chiaro. È vero. Non  sempre. In parte è colpa mia e dunque mi riguarda. In parte, e maggiore, non riguarda solo me. Proviamo a parlarne»)17 è altresì vero che il suo stile non è mai oscuro. La difficoltà della sua scrittura sta piuttosto nella costruzione del ragionamento: sono i tagli metonimici, le allusioni, la stratificazione sovrabbondante dei riferimenti a rendere la lettura dei suoi testi impegnativa. L’idea di Fortini è che la comprensione politica richieda sempre uno sforzo diestraneamento. Per questa ragione il suo stile lavora sui tagli, sulle accelerazioni, sulle distorsioni sarcastiche, sui cortocircuiti teorici: perché vuole obbligare il lettore a fermarsi, ad approfondire, a ricredersi. Lo sfida mostrando di continuo come non sempre convinzioni e presupposti che possono anche apparire semplici, chiari e distinti, portino necessariamente con sé idee giuste:
 le idee chiare non sono la stessa cosa delle idee giuste, di cui ci parlò Mao. La giustezza di una idea si verifica (in modo piuttosto complicato) nella pratica. La sua chiarezza è invece una questione di legalità interna; stipulato un codice comune, chiaro è il messaggio che passa da chi lo emette a chi lo riceve col minimo di distorsioni. Ma qual è il codice comune della comunicazione politica? 18
 Questo è il problema centrale degli scritti di Fortini nella stagione dei movimenti antisistemici. Come fare a costruire un linguaggio e un pensiero politico comune all’altezza del presente. Per Fortini il nodo si può sciogliere solo capendo che il linguaggio politico è una mediazione fra discorso comune e scienza  specialistica. Perché, come insegna Brecht, da lui in quegli anni meravigliosamente tradotto, per sconfiggere il re bisogna parlare anche la lingua dei re. Non si può dunque seguire né la strada del PCI, che dà ai suoi intellettuali organici relativa libertà scientifica, purché la direzione politica di fondo del discorso non venga mai discussa; né tantomeno il politicismo gergale che infesta la mente e gli scritti dei gruppi extraparlamentari. Bisogna saper parlare la lingua dei re: bisogna cercare e selezionareovunque sia il massimo di sapere critico esistente e poi armarlo in una forma adeguata alla trasformazione politica per cui si lotta.
La verità e la tenerezza

Per concludere, riporterò uno stralcio di una breve autopresentazione destinata ad un programma radiofonico di Cesare Zavattini e mandata in onda su radio uno, registrata con la voce di Fortini stesso, i primi giorni di gennaio del 1978. In queste poche righe il poeta diTraducendo Brecht, il traduttore di Goethe e di Proust, il polemista dell’«Avanti!» e del «Manifesto», l’attivista politico dei «Quaderni Rossi», mostra con chiarezza quale modello unitario di intellettuale politico abbia cercato di praticare nella sua attività di poeta, di scrittore e di polemista, per tutta la vita.
 Non so chi sono ma cerco di sapere chi sono stato, ossia quale rete di storia e di società mi sono trovato a vivere. L’angolo di mondo, che si chiama Italia, i rapporti fra la gente, fra gli analfabeti, gli studiati, la gente colta, le sinistre borghesi, i borghesi di sinistra, i nuovi veri irraggiungibili privilegiati, i mangiatori di uomini, diciamo, che incontro ogni giorno, ai quali sorrido affabilmente ed ai quali spero piaccia il mio lavoro… tutto questo cerco sì, di capirlo come posso. Non è vero che non sono stato felice. La felicità è stata nei momenti di accordo fra l’esperienza e la parola mentale. Nei momenti di novità, anche, quando la promessa di cambiamento diventava decisione. (…). Mi viene in mente il poscritto che un grande uomo, uno scrittore e combattente della libertà del suo paese, il cubano José Martí, quasi ottant’anni fa vergò in una lettera a sua madre. Le annunciava che era sul punto di partire per una spedizione, uno sbarco nell’isola, contro gli occupanti spagnoli, come il nostro Pisacane; che sapeva del rischio (fu ucciso, infatti, dopo lo sbarco e una lunga guerriglia). Scriveva quell’uomo che aveva più di quarant’anni, alla madre, come tanti di noi hanno scritto, chiedendo perdono di mettersi nei pericoli ma riconoscendo che, se lo fanno, è anche per l’insegnamento che le madri gli hanno dato. E dopo aver firmato («tuo figlio José»), aggiunge: «la verità e la tenerezza non passeranno». La verità e la tenerezza, contrapposte e unite 19.

NOTE:
1 F. Fortini, Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista, Feltrinelli, Milano 1957.
2 Un diario di questo viaggio, che attraversò anche l’Unione Sovietica, si può leggere in: Id., Asia Maggiore [1956], Manifestolibri, Roma 2007.
3 Id., Il comunismo, in Una volta per sempre, ora in Versi scelti, Einaudi, Torino 1989, p. 136.
4 Id., Uno scambio di lettere in Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993, p. 121.
5 G. Nava, E. Nencini (a cura di), Italo Calvino – Franco Fortini. Lettere scelte 1951-1977, «L’ospite Ingrato», I, 1998, pp. 116, 118.
6 F. Fortini, Uno scambio di lettere, in Attraverso Pasolini, cit., p. 122.
7 R. Rossanda, Uno sperato tutto di ragione, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p.XIII.
8 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
9 F. Fortini, Le firme supplici, in Id., Insistenze, pp. 105-107.
10 Id., Scrivere chiaro, in Questioni di Frontiera, Einaudi, Torino 1977, p. 125.
11 Id., Per una congiura in piena luce, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1054.
12 Id., Prefazione alla seconda edizione, in Verifica dei poteri [1965], Einaudi, Torino 1989, p. 311.
13 Id., Insistenze, cit., pp. 263-264.
14 Id., Violenza e non violenza, in Non solo oggi. Cinquantanove voci, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 302-303.
15 Come ironicamente indica il sottotitolo della sua ultima raccolta di saggi politici: Id.,Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990.
16 Id., Un dialogo ininterrotto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 30
17 Id., Scrivere chiaro (I), in Disobbedienze, I, Gli anni dei movimenti. Scritti sul Manifesto 1972-1985, Manifestolibri,Roma 1997, p. 55.
18 Ibid., p. 58.
19 Id., Ultimo dell’anno, in Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 513-514.

Nessun commento: