martedì 16 dicembre 2014

Cosa racconta la voce di Fassina di Alessandro Gilioli


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Qualcuno si aspettava barricate, rivolte e scissioni: invece dall’assemblea nazionale del Pd è arrivata solo la voce tremebonda di Stefano Fassina, a testimoniare non solo la rabbia repressa, ma soprattutto l’impotenza e la frustrazione di quella nebulosa chiamata minoranza interna.
Lo capisco, Fassina: che ho conosciuto come persona verticale, riflessiva, intelligente eppure scarsamente capace di capire non poche delle dinamiche contemporanee della politica, incluse quelle mediatiche. Uno convinto quindi ancor oggi che il suo partito avrebbe dovuto votare Franco Marini per il Quirinale perché era «l’uomo adatto a ricostruire una connessione sentimentale con il Paese», «lo conoscono anche mia cognata che lavora alla posta e mio cognato che fa l’elettrauto, invece non sanno chi è Rodotà»; uno che si porta il peso di essere stato responsabile economico nel Pd che appoggiava l’austerità di Monti, votava il fiscal compact, il pareggio di bilancio, e le riforme Fornero; e che quando è entrato nel governo Letta insieme ai berlusconiani è cascato nella trappola di far coppia in posa con Brunetta per una testata del Cavaliere.
Con ciò, non ce l’ho affatto in particolare con Fassina, ripeto.
Credo tuttavia che nella nebulosa di cui sopra sia comprensibile se non inevitabile l’attuale frustrazione: lui – così come D’Alema, Bindi e altri del vecchio establishment – prima sono finiti fuori dalla stanza dei bottoni a furor di popolo e per eccesso di errori; adesso –  ironia della sorte – si ritrovano a contestare alleanze e politiche economiche che sono in piena continuità proprio con quelle che implementavano quando erano in maggioranza.
Lo stesso Jobs Act, del resto, non è che la prosecuzione con altri mezzi dei tutti i provvedimenti sul lavoro firmati dal vecchio centrosinistra. Certo, questa legge ha un nome in inglese, è verniciata di modernità e viene presentata con battute sorridenti anziché con volti obitoriali, ma – con poche eccezioni – è assai difficile per chi oggi la critica da dentro il Pd rivendicare un’alterità politica profonda.
Per questo oggi Renzi maramaldeggia. Perché sa bene che quella che ha nel partito è un’opposizione quasi tutta di paglia. Fatta in buona parte dagli stessi che un anno e mezzo fa avevano suicidato il vecchio Pd. E finché la “sinistra” sono loro, o in prevalenza loro, lui se la ride.
Ieri il segretario-premier non ha avuto nemmeno bisogno di andare alla conta, per “asfaltarli” come di consueto. È bastata la voce tremebonda di Fassina, per chiarire a tutti i rapporti di forza.

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