La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a
tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse
possibile...
di Francesco Gesualdi,
Il Fondo Monetario Internazionale ha sentenziato che l'Italia avrà
bisogno di 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma ci
sta prendendo in giro perché sa bene che di lavoro questo sistema non
ne creerà più. Semplicemente perché non è il suo obiettivo, non è la sua
missione come piace dire a chi vive l'economia come una religione.
La missione di questo sistema è garantire profitto alle imprese e ai
suoi azionisti. Quanto al lavoro è solo un costo da contenere e poco
importa se dietro al così detto mercato del lavoro ci sono persone in
carne e ossa, con una dignità, una vita, dei diritti da salvaguardare.
Per il mondo degli affari il lavoro è solo una merce, è del tempo da
comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato
sancisce che il prezzo scende quando c'è più offerta che domanda , per
fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti lavoro
di quanto siano i posti disponibili.
Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si
è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente
lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c'è prima stata
l'estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione
degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in
continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in
sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro. Un progetto definito
da Papa Francesco come l"economia dello scarto", e se fino a ieri gli
scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo
sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e
dei disoccupati.
Fosse onesto, il sistema ci racconterebbe apertamente che l'esclusione
fa parte della sua natura. Invece tenta di farci credere che lui,
poverino, vorrebbe tanto dare un lavoro a tutti, ma per riuscirci ha
bisogno di crescita, perché che volete, il lavoro lo creano le aziende e
le aziende assumono solo se vendono di più. Peccato che ogni volta che
si creano nuove opportunità di lavoro le aziende preferiscano le
macchine alle persone e al tempo della globalizzazione, oltre ad
assistere alla guerra fra lavoratori da un capo all'altro del pianeta,
si assiste anche alla guerra dei robot contro gli umani. Lo stanno
sperimentando anche cinesi da che hanno osato alzare la testa per
chiedere migliori condizioni di lavoro.
Ma la bugia più grave rispetto alla crescita è che ormai non è più
compatibile con lo stato comatoso raggiunto dal pianeta. E mentre
geologi, agronomi, climatologi ci informano che le risorse si stanno
riducendo al lumicino e che i rifiuti ci stanno sommergendo facendo
cambiare equilibri millenari come il clima, succede che industriali,
politici, sindacalisti ed economisti, tutti insieme acclamino la
crescita come l'unica via per tirarci fuori dai guai. E noi ci crediamo.
Presi da quell'impellente bisogno di lavoro, anche noi corriamo dietro
alla leggenda, finendo per sdoppiare la nostra personalità: pro sobrietà
in nome dell'ambiente, pro crescita in nome del lavoro.
Prima o poi scopriremo che la schizofrenia non ci porta lontano e che la
sobrietà è l'unica strada per garantirci un futuro. Ma la buona notizia
è che sobrietà non è sinonimo di vita di stenti né di disoccupazione
dilagante. Al contrario è occasione di libertà, sovranità e inclusione.
L'importante è convincerci che il lavoro è un falso problema. Nella
storia dell'umanità, l'obiettivo non è mai stato il lavoro. L'obiettivo è
stato vivere bene nel senso di avere di che mangiare, vestirsi,
viaggiare, istruirsi, curarsi. Solo noi, figli del mercato, abbiamo
trasformato il lavoro in idolo e non perché siamo impazziti, ma perché
viviamo in un sistema che ci offre l'acquisto come unica via per
soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica
via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è
diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti
diventati partigiani della crescita. L'unico modo per uscirne è smettere
di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze.
La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a
tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse
possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno
possibile. La strada è ridurre la dipendenza dal lavoro salariato, in
modo da interrompe la schiavitù dalla crescita delle vendite. In altre
parole l'alternativa è l'autoproduzione in ambito individuale, per i
piccoli bisogni personali e familiari, e in ambito collettivo per i beni
e servizi fondamentali che richiedono strutture produttive organizzate.
Quando ciò che ci serve lo potremo ottenere senza denaro grazie al
lavoro non retribuito nostro e degli altri, in quel momento il lavoro
smetterà di essere un costo e si trasformerà in ricchezza. In quel
momento non ci sarà più interesse ad escludere, ma a ottenere la
collaborazione di tutti. E se dovesse risultare che siamo troppi,
potremo sempre dare una bella sforbiciata all'orario di lavoro con somma
soddisfazione di tutti perché con meno lavoro potremo avere lo stesso
livello di sicurezze.
Capito che l'inclusione passa attraverso il ridimensionamento del
mercato e il rafforzamento della solidarietà collettiva, la prima cosa
da fare è arrestare la demolizione di ciò che ci è rimasto di pubblico.
Basta con la politica delle privatizzazioni.
Basta con il taglio alle
spese sociali.
Basta con una politica di bilancio che dà priorità al
servizio del debito.
Sì, invece, a una seria lotta all'evasione e ai
paradisi fiscali.
Sì a una tassazione progressiva dei redditi e in
particolare delle rendite finanziarie.
Sì a una ristrutturazione del
debito. S
ì a una sovranità monetaria al servizio dell'occupazione in
ambito pubblico.
C'è bisogno di politica nuova, ma potremo trovarla solo
se saremo capaci di gettare il pensiero oltre il muro del sistema
imperante.