martedì 7 luglio 2015

7 luglio 1960 – 7 luglio 2015. Storia di una canzone


amodeiDi Nando Mainardi -

Raramente, nella storia italiana del secondo dopoguerra, una canzone è stata in grado di narrare ed evocare – anche a distanza di decenni – un fatto pubblico come Per i morti di Reggio Emilia.
C’è un filo rosso tra i moti genovesi del 30 giugno 1960 e la canzone scritta da Fausto Amodei: la manifestazione del 7 luglio proclamata nella città emiliana dalla Cgil, contro cui si scatena la repressione della polizia e dei carabinieri che provoca i “morti di Reggio Emilia”, nasce proprio sull’onda della grande sollevazione popolare e operaia avvenuta a Genova per impedire la celebrazione del congresso nazionale del Msi.
La protesta monta in tutta Italia, e va al di là della specifica vicenda del congresso neo-fascista: il sostegno dei parlamentari missini, infatti, è indispensabile per l’esistenza del governo democristiano presieduto da Tambroni. Per la prima volta, in Italia, ci sono una maggioranza e un governo distanti anni luce senza se e senza ma dalla Costituzione e desiderosi di utilizzare ogni mezzo per fermare il movimento operaio e il partito comunista. La possibilità di deviazione verso soluzioni autoritarie e fascistoidi è concreta e realistica.
Fausto Amodei canta il dolore e l’indignazione per i manifestanti colpiti dal piombo di stato a Reggio Emilia, ed è evidente il richiamo del giovane cantautore alla necessità di una nuova Resistenza.
Anche se legata ad un fatto di cronaca, Per i morti di Reggio Emilia ha una scrittura colta e complessa, che la rende diversa da numerose altre canzoni politiche e di lotta: è, per alcuni aspetti, una canzone composta da altre canzoni.
Nel testo viene citata in ben due passaggi Fischia il vento (“sopra l’Italia intera/fischia il vento e infuria la bufera”, “uguale è la canzone/che abbiamo da cantare/scarpe rotte eppur bisogna andare”), a ribadire il forte richiamo al patrimonio politico e morale della lotta partigiana, e nel conosciutissimo finale arriva l’esortazione perché i compagni uccisi dal governo Tambroni risorgano e cantino Bandiera rossa (“Morti di Reggio Emilia/uscite dalla fossa/fuori a cantar con noi/Bandiera rossa”).
Amodei riconosce e legittima, anche in questo modo, la canzone di lotta come componente della storia più complessiva del Paese; come richiamo la cui evocazione consente di raffigurare in modo diretto eventi ed esperienze collettive del passato. Il cantautore esprime in musica la sua convinzione, ovvero che la canzone sia uno strumento di narrazione popolare al servizio delle masse. E, a sua volta, Per i morti di Reggio Emilia si pone proprio in questa direzione. In questo, è una meta-canzone.
C’è un’altra ragione che fa sì che il riferimento ai canti del movimento operaio e partigiano abbia un ruolo centrale nell’impianto di questo brano: cosa stanno facendo i lavoratori delle Officine Meccaniche Reggiane che si trovano davanti al monumento dei Caduti, quando la polizia comincia a sparare? Stanno cantando. Usano il canto per onorare i caduti della Resistenza e per rinnovare il proprio legame ideale e politico con i partigiani. Un legame a maggior ragione importante proprio perché il 7 luglio del 1960 quei lavoratori lottavano e si opponevano ad un governo di destra sostenuto dai fascisti. Questo dà un senso preciso allo stesso finale della canzone, quell’invito ai morti a tornare per unirsi attraverso il canto ai vivi.

Inoltre nel testo Amodei, parlando dei caduti del 7 luglio, fa un chiaro riferimento alla questione generazionale: “son morti sui vent’anni/per il nostro domani/son morti come vecchi partigiani”. E’ un passaggio importante, perché tanto a Genova quanto a Reggio Emilia si trovano dalla stessa parte della barricata i partigiani e quelli che sono “sui vent’anni”, ovvero giovani proletari cresciuti nella difficile stagione del centrismo. Si affaccia quindi alla lotta e al conflitto sociale una nuova generazione: sono i teddy boys, o i ragazzi con la maglietta a strisce.
Va detto che l’autore di Per i morti di Reggio Emilia, allora ventiseienne, non aveva un rapporto “individuale” con la musica, ma faceva parte del gruppo Cantacronache. I Cantacronache, anche se avevano un pubblico molto ristretto e di nicchia, hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia della canzone italiana. Sono stati coloro che con maggiore radicalità – tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta (la loro attività va dal 1958 al 1962) – hanno caratterizzato la canzone come strumento di critica morale, sociale e politica, ponendosi all’opposizione dell’Italia democristiana. Proprio nello stesso periodo nascono nuove tendenze nel campo della canzone più commerciale: Modugno vince il Festival di Sanremo nel 1958 con Nel blu dipinto di blu, brano che rompe con la tradizione del melodramma fino ad allora imperante anche nella musica leggera. Arriva da oltreoceano il rock and roll, che diventa uno dei punti di riferimento anche dei teddy boys nostrani. Si aprono così nuovi spazi, indispensabili per la nascita dei primi cantautori. Ma il gruppo dei Cantacronache – composto da musicisti politicizzati ed intellettuali – considerava tali tendenze totalmente interne alla logica del capitalismo e della difesa dell’esistente.
In fondo i Cantacronache facevano con le canzoni ciò che i ragazzi con le magliette a strisce facevano con gli scioperi, le rivolte e le pietre.

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