Benvenuti
nell’anno della crescita, di quella consistente e definitiva visto che
il 2015 è stato portatore di un misero +0,6% ben lontano dalle
aspettative baldanzosamente agitate dal guappo di Palazzo Chihi e dal
suo governicchio. Questa però è la volta buona, lo ha detto anche
la sagoma di cartone apparsa in televisione il 31 dicembre. Beato chi
ancora ci crede o è talmente impaurito da voler credere a qualsiasi
cosa. Perché se una cosa è certa è proprio che il terreno nel
quale questa fantomatica ripresa dovrebbe mettere radici sono
inesistenti. E non è difficile capirlo se si prende quello 0,6 per cento
e lo si analizza: gran parte dell’aumento è dovuto ai consumi (da 924 a
930 miliardi) peraltro stimolati da inediti tipi di
commercializzazione soprattutto nel settore dell’auto, che si trascina
dietro consumi di carburante, assicurazione e quant’altro. Invece le
esportazioni nette hanno subito un calo dello 3,3% e questo in un
periodo che ha visto una svalutazione dell’euro del 18% che avrebbe
dovuto creare una situazione quanto mai favorevole. Almeno nelle favole
perché essendo il nostro commercio principalmente orientato verso l’area
euro ( e quelle fuori ce le giochiamo, vedi sanzioni alla Russia) il
vantaggio competitivo si azzera o può essere ottenuto solo attraversi i
massacri sociali.
Altra dolente nota viene dal quantitative easing di Draghi che
avrebbe dovuto fare faville, ma che si è rivelato più che una misura
economica un gancio politico per agitare speranze e contenere i
malumori, procastinare in tutti i modi il riconoscimento della natura
disfunzione dell’euro. Di fatto in presenza di una crisi ormai sistemica
della domanda l’immissione di denaro non ha avuto gli effetti sperati,
non ha significativamente alzato i prezzi ( e per fortuna qualunque
cosa ne pensino gli economisti main stream), non ha davvero rimesso in
moto il credito perché le aziende hanno preso denaro a costo basso per
ripagare i vecchi debiti più onerosi e di certo non pensano a
investimenti che si scontrerebbero con una domanda stagnante. Se poi si
tiene conto che il denaro del QE è di fatto garantito dalle banche
nazionali e dalle tasse presenti e future, si ha la misura del disastro o
meglio la trappola in cui si è andati a cacciare perché le misure per
sostenere la cosiddetta moneta unica mettono le basi per il suo
disfacimento. Una contraddizione che annuncia l’artificialità di certe
logiche e la loro gestione in funzione politico sociale che ha come suo
presupposto operativo che sia un coacervo di poteri sovranazionali non
eletti a sostituire nelle decisioni quelli elettivi nazionali. Non a
caso le nuove regole bancarie porteranno direttamente alla fine
progressiva del sistema creditizio nazionale, lasciando ogni decisione,
compresa quella sulle tasse, alla troika.
Benvenuti dunque nel 2016 nel quale l’unico elemento visibile e
ipotizzabile di crescita sarà essenzialmente legato alla liberazione
della piccola evasione grazie all’aumento del limite di utilizzo del
contante. E del resto è persino ovvio, visto che ormai l’unica sovranità
realmente rimasta in economia come in politica pare essere è quella
della corruzione.
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