Il 2015 è morto e l’annunciata nascita
della sinistra non c’è stata. L’anno buono sarà il 2016? È difficile dirlo,
anche perché al momento non è chiaro neanche chi dovrebbero essere i promotori
del nuovo soggetto politico, mentre il dibattito sulle finalità e sui contenuti
del progetto resta ben al di sotto delle necessità, e divaga su aspetti tattici
secondari. Non emergono i nodi strategici di una crisi di portata storica che
coinvolge milioni di donne e di uomini, i quali chiedono risposte intellegibili
e concrete di fronte all’incertezza della vita e al degrado dell’ambiente. Il
rischio che si corre in questa condizione è che nasca un’altra formazione
politica minoritaria, di fatto ininfluente sul corso reale delle cose
Ma il senso e la funzione storico-politica della sinistra si definiscono se si
è in grado di indicare una via d’uscita dalla crisi, e di organizzare su questa
via un movimento di lotta politica, sociale, culturale. Di cui le elezioni sono
un aspetto fondamentale, ma solo un aspetto. E il governo non è il fine da
raggiungere comunque e con ogni mezzo, bensì un mezzo per realizzare
determinati fini di avanzamento sociale e civile. Dunque, preliminare per
costruire un’alternativa alla crisi, è definire il carattere e la portata della
crisi. Se su questo punto non si fa chiarezza è difficile compiere qualche
passo avanti, incidendo sui rapporti di forza (e di proprietà) che
caratterizzano il nostro tempo.
Lo ha messo bene in chiaro Luciano Gallino, la cui perdita ci rattrista e ci
impoverisce, nel suo ultimo libro Il denaro, il debito e la doppia crisi
(Einaudi 2015), un’analisi dalla quale non si può prescindere per intravvedere
una via d’uscita e i modi di percorrerla. Analizzando il capitale finanziario
globale in profondità e in ampiezza, nel suo dominio che si identifica con la
sua crisi, Gallino ci conduce a tre approdi significativi, indispensabili per
la costruzione di un’alternativa all’ordinamento economico-sociale in cui
viviamo.
Punto primo. Questa crisi non è una “normale” crisi ciclica, e neanche una
crisi finanziaria, bancaria, del debito pubblico e dell’occupazione cui
rimediare con qualche palliativo. Questa è una crisi di sistema, ovvero di
un’intera civiltà, che il grande sociologo si ostina a chiamare
"capitalismo", anzitutto perché - precisa - "esso rimane il
termine più significante per designare la formazione economica, sociale
politica che abbraccia il mondo intero, in quanto ha nel capitale il suo
motore, la ragion d’essere, la sostanza che lo alimenta e tiene in vita".
E poi perché intende "reagire a una frode", che consiste nel
"designare la medesima formazione come ‘ sistema di mercato ’ o
simili".
Come già aveva notato John Kenneth
Galbraith nel suo saggio L’economia della truffa, "quando il capitalismo
cessò di essere accettabile, […], il sistema fu ri-denominato. Il nuovo termine
era benevolo ma privo di significato". La parola "capitalismo"
evoca infatti cattivi pensieri che è bene cancellare dal senso comune, come
ricchezza e povertà, classi sociali, lotta di classe. "Ma - osserva
Gallino - se qualcuno vi dice che le classi non esistono più, o sono un
concetto superato, lasciatelo perdere". Nel suo libro La lotta di classe
dopo la lotta di classe aveva infatti dimostrato che la globalizzazione
capitalistica porta il segno indelebile della lotta di classe dall’alto verso
il basso, dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i salariati, del
capitale contro il lavoro.
Riemerge in tutta la sua violenza e
brutalità il capitale come rapporto sociale, in cui c’è un dominante e un
dominato, uno sfruttatore e uno sfruttato, un proprietario e un espropriato.
Questa è la condizione del mondo e dell’Europa di oggi, con le diversità derivanti
dalla storia e dalla cultura di ciascun Paese. Ma con una comune motivazione di
fondo, determinata dalla ricerca del massimo profitto da parte di una minoranza
di proprietari universali, che si impadroniscono dei frutti del lavoro sociale
e della ricerca scientifica e tecnologica. Qui sta la radice più profonda della
crisi. E poiché oggi il capitale agisce senza controlli e alternative visibili,
lo sfruttamento della persona umana e la distruzione della natura sono arrivati
a un punto limite. In discussione è l’esistenza stessa del pianeta terra.
Oggi, precisa Gallino, il capitalismo
"sta attraversando una doppia crisi economica ed ecologica, ai cui
malefici effetti sfugge - per ora - una piccola minoranza": l’uno per
cento dei terrestri, grazie alla crisi, "si è ancora più arricchito e di
solito non lavora e non abita in ambienti inquinati". A questo risultato
si è giunti per effetto del dominio del capitale, più precisamente della sua
dittatura. Ma se, come ormai appare chiaro, la crisi è connaturata con il
capitalismo, per uscire dalla crisi occorre progettare la fuoriuscita dal
capitalismo, verso una civiltà più avanzata. È la questione ineludibile da
mettere a tema, senza ulteriori ritardi e tentennamenti. Per la sinistra questo
è il vero banco di prova della sua esistenza e della sua funzione storica.
Punto secondo. L’Unione europea, chiarisce
Gallino, rappresenta in modo compiuto, attraverso l’egemonia totalitaria della
finanza, la dittatura del capitale sul lavoro. E la sua crisi è l’espressione eclatante
della crisi di un capitalismo che per sopravvivere deve distruggere le
conquiste storiche del movimento operaio, i diritti sociali e la democrazia
politica. Se "l’assenza di qualsiasi riferimento nei Trattati alla
necessità di avere come scopo la piena occupazione è un autentico
scandalo", il Trattato di Maastricht del 1992 ha sancito definitivamente
che "l’Europa dei popoli doveva venire intesa anzitutto come l’Europa
della finanza". Al centro della costruzione comunitaria, la Bce di Mario
Draghi, che "interviene di continuo per raccomandare con durezza
interventi di tipo politico", è la vera struttura portante dell’oligarchia
finanziaria che domina vecchio continente. Banchieri e finanzieri menano le
danze, propongono e dispongono. In definitiva, la politica la fa il capitale.
Il sociologo torinese descrive con grande
lucidità "in quali modi, con quali tecniche, utilizzando quali risorse -
sono sue parole - il capitale (o la grande finanza, fate voi) è giunto nella Ue
[…] a sovvertire quasi totalmente il processo democratico". Consentendo a
una ristretta minoranza di "accumulare astronomiche plusvalenze
patrimoniali che non recano alcun vantaggio all’economia reale" e alla
stragrande maggioranza della popolazione. Già Keynes, ai tempi suoi, aveva osservato
che "il decadente capitalismo internazionale […], nelle cui mani siamo
finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è
virtuoso – e non fornisce nessun bene". Parole taglienti come lame.
Ma oggi non ha senso tornare al
capitalismo “buono”, come Keynes sosteneva. E non solo perché non è possibile
camminare in avanti con la testa rivolta all’indietro. Ma perché il cosiddetto
capitalismo “buono” ha prodotto quello “cattivo” nel quale siamo immersi.
Ammesso che sia possibile tornare indietro, che senso avrebbe riprodurre le
cause che hanno generato effetti così perversi e distruttivi? In altre parole,
nelle mutate condizioni del mondo di oggi, il ritorno al keynesismo non è
proponibile: perché non basta redistribuire in qualche misura la ricchezza
attraverso il bilancio dello Stato e la spesa pubblica. Per ottenere qualche
risultato positivo a vantaggio della collettività occorre intervenire nel
processo di accumulazione della ricchezza e redistribuire la proprietà, mettendo
sotto controllo i detentori del grande capitale e della finanza. Esattamente
come è indicato nella Costituzione della Repubblica italiana fondata sul
lavoro.
Per le stesse ragioni non è proponibile
una riedizione del riformismo socialdemocratico, che con la fornitura di
qualche pezzo di ricambio alla macchina del capitale, invece di cambiare la
macchina, ha ridotto la socialdemocrazia al ruolo di portaborse del capitale.
Dunque, non il ritorno a un’esperienza ormai bruciata dalla storia al pari di
quella del "socialismo realizzato", ma la ricerca e la progettazione
di un nuovo socialismo, fondato sui principi di uguaglianza e libertà, di
solidarietà e giustizia sociale. Incombe l’esigenza di aprire nuove vie alla
lotta dell’umanità per la libertà e l’uguaglianza.
Secondo Gallino bisognerebbe dare vita
"a un nuovo soggetto di sinistra capace di imprimere al capitalismo Ue
mutamenti radicali, magari sostituendolo con un inedito genere di socialismo
democratico, o social-ecologico (oppure conferendogli, perché no, un nome
affatto nuovo, visto il tradimento dei loro ideali costitutivi compiuto dalle
socialdemocrazie europee dopo gli anni Ottanta)". In ogni caso, il
problema della sinistra non è "salvare il capitalismo", come ha
sostenuto Alfredo Reichlin, ma salvare dal capitalismo gli esseri umani e il
pianeta terra.
Siamo così giunti, in conclusione, al tema
politicamente dirimente che Luciano Gallino ci propone: "Se la politica la
fa il capitale, come si può fare politica per opporsi al capitale"? E,
aggiungo io, per metterlo sotto controllo? La risposta forse è facile a dirsi,
molto più difficile è praticarla: attraverso la costruzione di una coalizione
politica che unisca i nuovi lavoratori del XXI secolo, e che abbracci tutti
coloro che sono colpiti dalla crisi. Non è vero che le “leggi” del capitale
sono immodificabili come le leggi della natura. A maggior ragione si possono
cambiare i Trattati della Ue, a condizione però - osserva Gallino - "di
costruire in più Stati membri una forza politica all’altezza del compito".
Ciò richiede una coerente visione
alternativa al sistema oppressivo del capitale e, al tempo stesso, la massima
concretezza nelle risposte da dare all’incalzare della crisi:
"L’importante è che ciascun passo […] si collochi sulla strada di una
reale svolta dell’economia e del pensiero economico". Riconnettere il
legame tra la società e la politica, che il capitale ha pezzato materialmente e
culturalmente per assicurare a se stesso il dominio sulla società e sulla
politica, è l’altra grande operazione cui porre mano. Perché ormai sappiamo che
il sociale opposto al politico inevitabilmente ripiega nella parzialità fino
alla frantumazione corporativa. E il politico opposto al sociale
inevitabilmente oscilla tra l’autoreferenzialità e il servilismo al capitale.
Le migliaia di associazioni e di movimenti
che pullulano nella società dovrebbero darsi un’organizzazione, sporcarsi le
mani con la politica e costruire un punto di vista libero e autonomo prendendo
per base i principi costituzionali. Ma una sinistra alternativa con
caratteristiche popolari e di massa, in grado di spostare i rapporti di forza
nella società non può nascere solo dal basso, sebbene la spinta dal basso sia
decisiva. E neanche solo dall’alto, dal semplice assemblaggio delle formazioni
politiche vecchie e nuove dislocate sul versante di sinistra del Pd.
Queste formazioni possono dare tuttavia un
contributo rilevante se escono dal tatticismo elettorale e dal personalismo
esasperato, da vecchie idiosincrasie e nuove contrapposizioni, disponendosi a
fare un salto qualitativo in due direzioni: l’elaborazione di un programma di
lotte comuni; l’immersione nei conflitti sociali più acuti, dando prova con i
fatti di stare dalla parte del lavoro. Se non si trova una nuova connessione
tra il sociale il politico, esperienze come la coalizione sociale di Landini
sono destinate al fallimento. E anche un sindacato come la Cgil, con tutti i
suoi limiti, è in pericolo.
Diciamolo con franchezza: non si va
lontano nella costruzione della sinistra se non si ha la forza di fare un
repulisti dei ciarlatani, degli arrivisti, degli opportunisti e poltronisti
ovunque collocati, nei movimenti e nei partiti. Senza sconti per nessuno.
Gallino sottolinea l’esigenza di impegnarsi a fondo nella costruzione di un pensiero
critico, che colloca lungo la linea Machiavelli, Marx, Gramsci, in grado di
smontare la narrazione apologetica e falsificante finalizzata al dominio del
capitale, in larga misura diventata ormai senso comune. Ha ragione. Aggiungerei
che accanto alla forza del pensiero c’è bisogno della coerenza nei
comportamenti, di uno stile politico completamente diverso, che richiede
studio, competenza, soprattutto coerenza tra parole e fatti.
Insomma, abbiamo a che fare con un
processo difficile, molto difficile. Realisticamente, se non si vuole vendere
fumo, è poco probabile che potrà essere portato a compimento nell’anno che
viene. Ma bisogna continuare a provarci. "Se un’autentica forza di
opposizione non si sviluppa - ci avverte il nostro autorevole interlocutore -,
o tarda ancora per decenni, quello che ci attende è un ulteriore degrado
dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli esiti
imprevedibili". Non sarebbe una bella prospettiva. Auguri a tutti.
NASCERÀ LA SINISTRA NEL 2016 ?
di Paolo Ciofi - 31 dicembre 2015
Il
2015 è morto e l’annunciata nascita della sinistra non c’è stata.
L’anno buono sarà il 2016? È difficile dirlo, anche perché al momento
non è chiaro neanche chi dovrebbero essere i promotori del nuovo
soggetto politico, mentre il dibattito sulle finalità e sui contenuti
del progetto resta ben al di sotto delle necessità, e divaga su aspetti
tattici secondari. Non emergono i nodi strategici di una crisi di
portata storica che coinvolge milioni di donne e di uomini, i quali
chiedono risposte intellegibili e concrete di fronte all’incertezza
della vita e al degrado dell’ambiente. Il rischio che si corre in questa
condizione è che nasca un’altra formazione politica minoritaria, di
fatto ininfluente sul corso reale delle cose
Ma il senso e la funzione storico-politica della sinistra si
definiscono se si è in grado di indicare una via d’uscita dalla crisi, e
di organizzare su questa via un movimento di lotta politica, sociale,
culturale. Di cui le elezioni sono un aspetto fondamentale, ma solo un
aspetto. E il governo non è il fine da raggiungere comunque e con ogni
mezzo, bensì un mezzo per realizzare determinati fini di avanzamento
sociale e civile. Dunque, preliminare per costruire un’alternativa alla
crisi, è definire il carattere e la portata della crisi. Se su questo
punto non si fa chiarezza è difficile compiere qualche passo avanti,
incidendo sui rapporti di forza (e di proprietà) che caratterizzano il
nostro tempo.
Lo ha messo bene in chiaro Luciano Gallino, la cui perdita ci rattrista
e ci impoverisce, nel suo ultimo libro Il denaro, il debito e la doppia
crisi (Einaudi 2015), un’analisi dalla quale non si può prescindere per
intravvedere una via d’uscita e i modi di percorrerla. Analizzando il
capitale finanziario globale in profondità e in ampiezza, nel suo
dominio che si identifica con la sua crisi, Gallino ci conduce a tre
approdi significativi, indispensabili per la costruzione di
un’alternativa all’ordinamento economico-sociale in cui viviamo.
Punto primo. Questa crisi non è una “normale” crisi ciclica, e neanche
una crisi finanziaria, bancaria, del debito pubblico e dell’occupazione
cui rimediare con qualche palliativo. Questa è una crisi di sistema,
ovvero di un’intera civiltà, che il grande sociologo si ostina a
chiamare "capitalismo", anzitutto perché - precisa - "esso rimane il
termine più significante per designare la formazione economica, sociale
politica che abbraccia il mondo intero, in quanto ha nel capitale il suo
motore, la ragion d’essere, la sostanza che lo alimenta e tiene in
vita". E poi perché intende "reagire a una frode", che consiste nel
"designare la medesima formazione come ‘ sistema di mercato ’ o simili".
Come
già aveva notato John Kenneth Galbraith nel suo saggio L’economia della
truffa, "quando il capitalismo cessò di essere accettabile, […], il
sistema fu ri-denominato. Il nuovo termine era benevolo ma privo di
significato". La parola "capitalismo" evoca infatti cattivi pensieri che
è bene cancellare dal senso comune, come ricchezza e povertà, classi
sociali, lotta di classe. "Ma - osserva Gallino - se qualcuno vi dice
che le classi non esistono più, o sono un concetto superato, lasciatelo
perdere". Nel suo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe aveva
infatti dimostrato che la globalizzazione capitalistica porta il segno
indelebile della lotta di classe dall’alto verso il basso, dei ricchi
contro i poveri, dei padroni contro i salariati, del capitale contro il
lavoro.
Riemerge
in tutta la sua violenza e brutalità il capitale come rapporto sociale,
in cui c’è un dominante e un dominato, uno sfruttatore e uno sfruttato,
un proprietario e un espropriato. Questa è la condizione del mondo e
dell’Europa di oggi, con le diversità derivanti dalla storia e dalla
cultura di ciascun Paese. Ma con una comune motivazione di fondo,
determinata dalla ricerca del massimo profitto da parte di una minoranza
di proprietari universali, che si impadroniscono dei frutti del lavoro
sociale e della ricerca scientifica e tecnologica. Qui sta la radice più
profonda della crisi. E poiché oggi il capitale agisce senza controlli e
alternative visibili, lo sfruttamento della persona umana e la
distruzione della natura sono arrivati a un punto limite. In discussione
è l’esistenza stessa del pianeta terra.
Oggi,
precisa Gallino, il capitalismo "sta attraversando una doppia crisi
economica ed ecologica, ai cui malefici effetti sfugge - per ora - una
piccola minoranza": l’uno per cento dei terrestri, grazie alla crisi,
"si è ancora più arricchito e di solito non lavora e non abita in
ambienti inquinati". A questo risultato si è giunti per effetto del
dominio del capitale, più precisamente della sua dittatura. Ma se, come
ormai appare chiaro, la crisi è connaturata con il capitalismo, per
uscire dalla crisi occorre progettare la fuoriuscita dal capitalismo,
verso una civiltà più avanzata. È la questione ineludibile da mettere a
tema, senza ulteriori ritardi e tentennamenti. Per la sinistra questo è
il vero banco di prova della sua esistenza e della sua funzione storica.
Punto
secondo. L’Unione europea, chiarisce Gallino, rappresenta in modo
compiuto, attraverso l’egemonia totalitaria della finanza, la dittatura
del capitale sul lavoro. E la sua crisi è l’espressione eclatante della
crisi di un capitalismo che per sopravvivere deve distruggere le
conquiste storiche del movimento operaio, i diritti sociali e la
democrazia politica. Se "l’assenza di qualsiasi riferimento nei Trattati
alla necessità di avere come scopo la piena occupazione è un autentico
scandalo", il Trattato di Maastricht del 1992 ha sancito definitivamente
che "l’Europa dei popoli doveva venire intesa anzitutto come l’Europa
della finanza". Al centro della costruzione comunitaria, la Bce di Mario
Draghi, che "interviene di continuo per raccomandare con durezza
interventi di tipo politico", è la vera struttura portante
dell’oligarchia finanziaria che domina vecchio continente. Banchieri e
finanzieri menano le danze, propongono e dispongono. In definitiva, la
politica la fa il capitale.
Il
sociologo torinese descrive con grande lucidità "in quali modi, con
quali tecniche, utilizzando quali risorse - sono sue parole - il
capitale (o la grande finanza, fate voi) è giunto nella Ue […] a
sovvertire quasi totalmente il processo democratico". Consentendo a una
ristretta minoranza di "accumulare astronomiche plusvalenze patrimoniali
che non recano alcun vantaggio all’economia reale" e alla stragrande
maggioranza della popolazione. Già Keynes, ai tempi suoi, aveva
osservato che "il decadente capitalismo internazionale […], nelle cui
mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello,
non è giusto, non è virtuoso – e non fornisce nessun bene". Parole
taglienti come lame.
Ma
oggi non ha senso tornare al capitalismo “buono”, come Keynes
sosteneva. E non solo perché non è possibile camminare in avanti con la
testa rivolta all’indietro. Ma perché il cosiddetto capitalismo “buono”
ha prodotto quello “cattivo” nel quale siamo immersi. Ammesso che sia
possibile tornare indietro, che senso avrebbe riprodurre le cause che
hanno generato effetti così perversi e distruttivi? In altre parole,
nelle mutate condizioni del mondo di oggi, il ritorno al keynesismo non è
proponibile: perché non basta redistribuire in qualche misura la
ricchezza attraverso il bilancio dello Stato e la spesa pubblica. Per
ottenere qualche risultato positivo a vantaggio della collettività
occorre intervenire nel processo di accumulazione della ricchezza e
redistribuire la proprietà, mettendo sotto controllo i detentori del
grande capitale e della finanza. Esattamente come è indicato nella
Costituzione della Repubblica italiana fondata sul lavoro.
Per
le stesse ragioni non è proponibile una riedizione del riformismo
socialdemocratico, che con la fornitura di qualche pezzo di ricambio
alla macchina del capitale, invece di cambiare la macchina, ha ridotto
la socialdemocrazia al ruolo di portaborse del capitale. Dunque, non il
ritorno a un’esperienza ormai bruciata dalla storia al pari di quella
del "socialismo realizzato", ma la ricerca e la progettazione di un
nuovo socialismo, fondato sui principi di uguaglianza e libertà, di
solidarietà e giustizia sociale. Incombe l’esigenza di aprire nuove vie
alla lotta dell’umanità per la libertà e l’uguaglianza.
Secondo
Gallino bisognerebbe dare vita "a un nuovo soggetto di sinistra capace
di imprimere al capitalismo Ue mutamenti radicali, magari sostituendolo
con un inedito genere di socialismo democratico, o social-ecologico
(oppure conferendogli, perché no, un nome affatto nuovo, visto il
tradimento dei loro ideali costitutivi compiuto dalle socialdemocrazie
europee dopo gli anni Ottanta)". In ogni caso, il problema della
sinistra non è "salvare il capitalismo", come ha sostenuto Alfredo
Reichlin, ma salvare dal capitalismo gli esseri umani e il pianeta
terra.
Siamo
così giunti, in conclusione, al tema politicamente dirimente che
Luciano Gallino ci propone: "Se la politica la fa il capitale, come si
può fare politica per opporsi al capitale"? E, aggiungo io, per metterlo
sotto controllo? La risposta forse è facile a dirsi, molto più
difficile è praticarla: attraverso la costruzione di una coalizione
politica che unisca i nuovi lavoratori del XXI secolo, e che abbracci
tutti coloro che sono colpiti dalla crisi. Non è vero che le “leggi” del
capitale sono immodificabili come le leggi della natura. A maggior
ragione si possono cambiare i Trattati della Ue, a condizione però -
osserva Gallino - "di costruire in più Stati membri una forza politica
all’altezza del compito".
Ciò
richiede una coerente visione alternativa al sistema oppressivo del
capitale e, al tempo stesso, la massima concretezza nelle risposte da
dare all’incalzare della crisi: "L’importante è che ciascun passo […] si
collochi sulla strada di una reale svolta dell’economia e del pensiero
economico". Riconnettere il legame tra la società e la politica, che il
capitale ha pezzato materialmente e culturalmente per assicurare a se
stesso il dominio sulla società e sulla politica, è l’altra grande
operazione cui porre mano. Perché ormai sappiamo che il sociale opposto
al politico inevitabilmente ripiega nella parzialità fino alla
frantumazione corporativa. E il politico opposto al sociale
inevitabilmente oscilla tra l’autoreferenzialità e il servilismo al
capitale.
Le
migliaia di associazioni e di movimenti che pullulano nella società
dovrebbero darsi un’organizzazione, sporcarsi le mani con la politica e
costruire un punto di vista libero e autonomo prendendo per base i
principi costituzionali. Ma una sinistra alternativa con caratteristiche
popolari e di massa, in grado di spostare i rapporti di forza nella
società non può nascere solo dal basso, sebbene la spinta dal basso sia
decisiva. E neanche solo dall’alto, dal semplice assemblaggio delle
formazioni politiche vecchie e nuove dislocate sul versante di sinistra
del Pd.
Queste
formazioni possono dare tuttavia un contributo rilevante se escono dal
tatticismo elettorale e dal personalismo esasperato, da vecchie
idiosincrasie e nuove contrapposizioni, disponendosi a fare un salto
qualitativo in due direzioni: l’elaborazione di un programma di lotte
comuni; l’immersione nei conflitti sociali più acuti, dando prova con i
fatti di stare dalla parte del lavoro. Se non si trova una nuova
connessione tra il sociale il politico, esperienze come la coalizione
sociale di Landini sono destinate al fallimento. E anche un sindacato
come la Cgil, con tutti i suoi limiti, è in pericolo.
Diciamolo
con franchezza: non si va lontano nella costruzione della sinistra se
non si ha la forza di fare un repulisti dei ciarlatani, degli arrivisti,
degli opportunisti e poltronisti ovunque collocati, nei movimenti e nei
partiti. Senza sconti per nessuno. Gallino sottolinea l’esigenza di
impegnarsi a fondo nella costruzione di un pensiero critico, che colloca
lungo la linea Machiavelli, Marx, Gramsci, in grado di smontare la
narrazione apologetica e falsificante finalizzata al dominio del
capitale, in larga misura diventata ormai senso comune. Ha ragione.
Aggiungerei che accanto alla forza del pensiero c’è bisogno della
coerenza nei comportamenti, di uno stile politico completamente diverso,
che richiede studio, competenza, soprattutto coerenza tra parole e
fatti.
Insomma,
abbiamo a che fare con un processo difficile, molto difficile.
Realisticamente, se non si vuole vendere fumo, è poco probabile che
potrà essere portato a compimento nell’anno che viene. Ma bisogna
continuare a provarci. "Se un’autentica forza di opposizione non si
sviluppa - ci avverte il nostro autorevole interlocutore -, o tarda
ancora per decenni, quello che ci attende è un ulteriore degrado
dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli
esiti imprevedibili". Non sarebbe una bella prospettiva. Auguri a tutti.
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