Calpesta e derisa, ma soprattutto malmessa e divisa, la cosiddetta
"sinistra radicale" italiana si trova all'alba del 2016 nella
paradossale condizione di essere decisiva nelle prossime elezioni
amministrative di molte città.
Non tanto i suoi leader (oddio, leader...) il cui prestigio già
scarsino da tempo si è ulteriormente assottigliato con il penoso
spettacolo del "tavolo costituente" del nuovo partito (una prece).
Quanto i suoi elettori: che a dispetto delle pessime rappresentanze
esistono - per valori, ideali, interessi - e tutti insieme valgono una
cosa che sta almeno tra il 5 e il 10 per cento. E non sto parlando degli
elettori potenziali di sinistra che poi si frantumano tra
astensionismo, M5S e abbrivo piddino (quelli sono molti di più): sto
parlando proprio di quelli che si ostinano a votare e a votare qualcosa
di dichiaratamente di sinistra e a sinistra di Renzi. Per capirci, sto
parlando di quelli che all'ultimo giro hanno scelto Luca Pastorino in
Liguria o Tommaso Fattori in Toscana, rispettivamente il 9,4 e il 6,2
per cento.
Ecco, questa fetta di pervicaci che Renzi percula da un anno adesso
viene riscoperta: e da settimane il Pd sta mandando il poliziotto buono
Matteo Orfini a cercare di riportarla all'ovile.
Ultima puntata, l'intervista del presidente del Pd a "il Manifesto"
di oggi. Nella quale ci spiega che «alle amministrative si possono avere
maggioranze tra forze che nazionalmente hanno posizioni diverse», «le
condizioni per tenere vivo il centrosinistra ci sono», «spero che la
sinistra resti più unita possibile» etc etc.
La ragione di questo prodigarsi del Pd alla sua sinistra è semplice e si chiama Movimento 5 Stelle.
Il caso più eclatante è Torino: dove la candidatura di Giorgio
Airaudo potrebbe bastare per impedire a Piero Fassino la vittoria al
primo turno; e se l'ex segretario Ds sarà costretto al ballottaggio, la
probabilità di essere superato al secondo turno da Chiara Appendino è
tutt'altro che remota.
Qualcosa di simile potrebbe succedere a Roma: dove la popolarità del
fu centrosinistra, dopo la cacciata di Marino, è ai minimi storici; e il
M5S avrebbe buone probabilità di arrivare al ballottaggio anche
candidando il gatto di Casaleggio.
In questi casi si sa come fa Renzi, di volta in volta: strizza
l'occhio a chi gli è più utile. Del resto è l'uomo che ha fatto il patto
del Nazareno per cambiare la Costituzione e poche settimane dopo ha
messo Forza Italia fuori dai giochi per il Quirinale, illudendo così
tutta la sua minoranza interna. Invece, ovviamente, non c'era niente da
illudersi: c'era solo da prendere atto che il premier è uno
spregiudicato giocatore su più tavoli, a seconda della convenienza del
momento.
E la convenienza del momento ora è riportare quel 5-10 per cento
nell'alveo del centrosinistra - pur essendo questo stato seppellito dal
partito della nazione, dal Jobs Act e da tutto il resto.
Sebbene questa dinamica d'opportunismo sia evidente anche a un
bambino di cinque anni, c'è una parte della sinistra cosiddetta radicale
che ci crede
o finge di crederci: nel primo caso per un misto di ingenuità e
nostalgia del 2011, nel secondo sperando probabilmente in qualche
strapuntino - assessorati, Asl, consigli di zona e altre briciole.
Per carità, ciascuno faccia come crede, a sinistra: e capisco anche che in alcune realtà locali (tipo Milano) possa prevalere negli animi l'onda lunga del tempo che fu (il 2011, appunto) e la speranza che non ci sia risacca a destra.
Ma almeno cerchiamo di non nasconderci dietro un dito e di averne
piena contezza, nel decidere: passate le amministrative, le sirene
piddine verso sinistra cesseranno magicamente di cantare.
Anche perché poco dopo ci sarà il referendum costituzionale, sul
quale Renzi punta invece di fare il pieno di consensi al centro e
destra.
E qui a sinistra saremo ricacciati tutti nel girone mediatico dei gufi, dei frenatori e dei professoroni.
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