Ci sono analisti economici che già prefigurano uno scenario simile a quello del 2007-2008.
Altri che paventano una vera e propria catastrofe finanziaria, visto
che nel turbinio attuale della finanza mondiale vi è finito anche il
colosso cinese, alle prese con problemi che derivano dalla
quasi-consunzione del suo modello di sviluppo iper-produttivista. Pochi,
in ogni caso, sono quelli che minimizzano ciò che sta accedendo sotto i
nostri occhi, sbagliando.
In verità, ci vuole poco a capire che le turbolenze sulle piazze finanziarie
di mezzo mondo sono la conseguenza dell'irrisolta anarchia che regna
nel "mercato dei soldi", la cui potenza ormai sovrasta enormemente
quella delle cosiddette "economie reali". Per rendere l'idea di cosa
parliamo, basta questo semplice esempio: nel 2014 il "valore"
dell'economia finanziaria (o di carta) a livello mondiale ha toccato la
cifra astronomica di circa un trilione di dollari (un milione di miliardi)
contro un Pil globale (ricchezza materiale prodotta) di "soli" 78
bilioni (75 mila miliardi) di dollari. Un rapporto di 13 a 1. Quando si
parla di "economia di carta", per di più, ci si riferisce per oltre il
90% ad attività speculative, ovvero a "giocate" finanziarie tese al
massimo guadagno nel minor tempo possibile, che si fanno prevalentemente
"fuori borsa", al di fuori dei mercati regolamentati, senza alcun
controllo da parte delle autorità di vigilanza. Il che rende il quadro
ancora più cupo.
Fosse solo una questione di "moneta virtuale",
circolante in una sfera separata dall'economia reale e senza alcuna
influenza su di essa, potremmo anche fregarcene delle sue dinamiche. Il
problema è che oggi, la finanza, senz'altro fondamentale per l'economia,
è del tutto "governata" dalla speculazione,
che, a sua volta, "governa" i processi economici "reali" ed il mercato
di beni e servizi. Un esempio? In questi giorni si parla molto del calo
del prezzo del petrolio, sceso per la prima volta da 13 anni a questa parte sotto i 30 dollari al barile.
Trattandosi di un bene "materiale", per di più ancora indispensabile
all'economia mondiale, la caduta del suo prezzo non potrebbe spiegarsi
se non con un crollo della domanda, magari in conseguenza di particolari
cambiamenti nella struttura produttiva dei principali Paesi
importatori, ovvero con un aumento dell'offerta nel quadro degli
equilibri geo-economici a livello globale.
Invero, quest'ultima
evenienza si è pure verificata, con l'ultima decisione dell'Opec di
aumentare (di poco) l'offerta di greggio, nonostante il prezzo già molto
basso dello stesso. Una scelta pilotata essenzialmente dai sauditi, per
strozzare la concorrenza di altri Paesi produttori, come quelli
latinoamericani, che, tuttavia, ha molto poco a che fare col fenomeno
che stiamo cercando di commentare. Per capire quello che realmente sta
accadendo, infatti, non si può che partire da un dato: ogni giorno si
scambiano sul mercato circa 90 milioni di barili di petrolio (92,79
milioni la stima Opec per il 2016). Barili veri, petrolio vero. Al tempo
stesso, sempre giornalmente, si scambiano oltre un miliardo di barili
di greggio che costituiscono il "sottostante" di contratti "derivati".
Barili virtuali, petrolio virtuale. Cosa c'entra? C'entra che al giorno
d'oggi il prezzo del petrolio è legato, prevalentemente, all'andamento
del mercato dei derivati (futures), non a quello del petrolio
in quanto tale. Se a ciò si aggiunge, per completezza, che dei "soldi"
(ovviamente, il riferimento non è alla carta moneta o alle monetine che
usiamo per fare la spesa) in circolazione, solo il 2% costituisce una
"risorsa" per l'economia produttiva, si capisce come la frenesia
speculativa, ciclicamente, possa "bruciare" non solo moneta virtuale, ma
incendiare un intero sistema economico. Basta poco, è una questione di
fiducia, di aspettative, di scommesse.
La fiducia, dunque. Come
quella degli investitori nel sistema bancario italiano, scesa ai minimi
termini nell'ultimo periodo. Si parla insistentemente di "crediti
deteriorati" (non performing loans), di "sofferenze" bancarie
per centinaia di miliardi di euro. Ciò, nonostante il soccorso arrivato
in questi anni da parte della Bce alle banche europee, mediante le ben
note operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Ltro e Tltro) e lo
stesso Quantitative easing (Qe). Se guardiamo al nostro Paese,
infatti, colpisce principalmente un aspetto: gli istituti di credito
hanno assorbito un quarto dei prestiti agevolati della Bce e stanno
beneficiando della liquidità proveniente dal Qe, ma, stando alle stime
fornite da Bankitalia, le sofferenze lorde, per l'intero sistema, hanno
toccato ormai la cifra vertiginosa di 216 miliardi di euro (senza
considerare i cosiddetti "incagli", circa 115 miliardi di euro di
esposizioni nei confronti di soggetti in situazione di difficoltà
oggettiva, sebbene temporanea, che potrebbero, da qui a poco,
aggiungersi alle "sofferenze" propriamente dette), trenta miliardi in
più rispetto a un anno prima, il 17% del Pil. Perché? Troppo facile (o
troppo comodo) spiegare tutto con la la crescita delle insolvenze per
effetto della crisi economica.
La verità è che negli ultimi
trent'anni il credito (e di converso il debito) è stato il vero motore
dell'economia, a compensazione della caduta dei redditi da lavoro e dei
profitti da capitale (utile, a tal riguardo, una rilettura del concetto
marxiano di "caduta tendenziale del saggio di profitto", soprattutto con
riferimento agli effetti della rivoluzione informatica), in ragione
della crisi del modello di accumulazione produttivista, che aveva
segnato la storia economica del capitalismo nei primi tre decenni del
dopoguerra. Credito facile, insomma, per spingere i consumi, ma anche
per creare denaro dal nulla a fini speculativi. La cartolarizzazione dei
crediti, in quest'ultimo caso, è stata, ed è, una delle fonti
principali dei problemi che oggi abbiamo sul tappeto. Un meccanismo che
ha consentito alle banche di erogare prestiti ben oltre la loro capacità
patrimoniale, mediante l'espunzione dai propri bilanci di quote sempre
maggiori di crediti concessi, aggirando, in questo modo, i vincoli
imposti dalle norme nazionali ed internazionali sulla mitigazione dei
rischi connessi a tali attività. Da un lato la moltiplicazione della
possibilità di creare denaro dal nulla mediante il credito, dall'altro
l'inondazione dei mercati di titoli obbligazionari, più o meno
strutturati, non sempre esenti da "tossicità", ovvero di altro denaro
sotto forma di strumenti finanziari. Non è secondario, quindi, che
l'Italia, nel mercato europeo delle cartolarizzazioni, si collochi al
quarto posto, dopo Regno Unito, Olanda e Spagna.
Tornando
all'attualità, potrebbe risultare contraddittorio che l'Unione Europea,
da un lato punti i suoi riflettori sul sistema bancario italiano, e
sulle scelte del governo in tema di risoluzione del nodo "sofferenze",
dall'altro lavori all'adozione di un Action Plan Package
finalizzato alla creazione dell'Unione dei mercati di capitali in ambito
comunitario, al cui centro c'è proprio il "rilancio delle
cartolarizzazioni" e un incremento delle attività finanziarie, anche ad
alto rischio. Evidentemente, le preoccupazioni delle autorità di
Bruxelles si concentrano sulle modalità di smaltimento dei titoli
spazzatura, non sulla necessità di riformare un sistema in cui gli
stessi costituiscono il prodotto "fisiologico" della creazione dal nulla
(e quasi illimitata) di denaro da parte delle banche. E le
cartolarizzazioni, come si è visto, da questo punto di vista possono
costituire un ottimo purgante per le banche, lo strumento principe per
scaricare la feccia finanziaria nel mercato degli Asset backed securities
(o ABS), con buona pace dei risparmiatori, soprattutto se ignari della
qualità del prodotto che hanno acquistato. E il governo italiano? Stesse
preoccupazioni, ricetta diversa (bad-bank). Almeno in
apparenza. Nessuno, però, ha interesse a puntare il dito contro il vero
problema: l'insostenibilità dell'attuale modello di accumulazione
finanziaria.
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