È probabile che Berlusconi venga unanimemente considerato dal ceto politico l’unico patrimonio nazionale inalienabile, che bisogna tutelare e tenersi stretto a tutti i costi, pena la perdita della “governabilità” , quella di coalizioni in grado di garantire l’auspicata conservazione, la cessione di sovranità ai padroni, la cancellazione di regole sostituite da accomodamenti ad personam (che nemmeno quelli sanno fare), lo smantellamento della sicurezza, della giustizia, della legalità, della costituzione dei diritti in modo da stabilire un regime di arbitrarietà, discrezionalità, precarietà
Per tutto il resto c’è Masterletta, che ieri nella ridente – beata lei - cornice di Cernobbio, ormai più istituzionale delle aule parlamentari, ha annunciato ufficialmente che il Governo sta lavorando alacremente al Piano destinazione Italia, che reca al suo interno un grande pacchetto di dismissioni e incentivi per l’attrazione degli investimenti”, soprattutto quelli essenziali che arrivano dall’estero. L’obiettivo del piano – più volte annunciato dall’Esecutivo nel corso degli ultimi mesi e tornato ora in primo piano – è sempre quello di “alleggerire” il debito pubblico, mettendo in vendita una parte inutilizzata del grande patrimonio immobiliare pubblico dello Stato italiano, che sulla carta vale oltre 300 miliardi di euro. Viste le difficoltà del mercato immobiliare, non è escluso il ricorso a forme di valorizzazione diverse dalla vendita o dalla cartolarizzazione, come il diritto di superficie o la proprietà non piena. Ad occuparsi della cessione sarà una Sgr legata al Tesoro – già istituita a maggia ma che dovrebbe essere pienamente operativa entro l’anno – con all’attivo una prima dote di 350 beni per un valore di 1,2 miliardi, pronti per essere conferiti dall’Agenzia del demanio. Nel portafoglio della società di gestione del risparmio potrebbero confluire anche immobili provenienti da altri due canali: quello di Valore Paese e quello di Valore Paese dimore che puntano su asset che potrebbero essere trasformati per uso ricettivo-turistico. Nel dossier dismissioni non è escluso il capitolo delle cessioni “mobiliari”, dove si parla delle partecipazioni pubbliche in Ferrovie dello Stato, Poste italiane, ma anche della Rai.
Non ci stancheremo mai di dire che questa crisi venuta dagli Usa, come certe guerre, è stata nutrita e alimentata anche proprio per portare a questo, alla trasformazione di popoli in eserciti di forrza lavoro mobile e privi di diritti, per annientare l’economia produttiva in favore di quella impalpabile della finanza, per espropriare di sovranità gli stati, per ridurre la politica a un servizio amministrativo secondario.
E grazie alla crisi chi l’ha provocata detta le soluzioni, tutte indirizzate al danno della collettività per il profitto di pochi. È già accaduto che l’Italia si sia stata gravata da un considerevole debito pubblico a cominciare dalla sua nascita come Stato nel 1861, oppressa dai debiti contratti per sostenere le guerre d’indipendenza. Allora come adesso, si pensò di trovare una soluzione mettendo in vendita il vasto complesso dei demani ereditati dai vari Stati regionali, quell’ immenso complesso di terreni ed annessi che si pensò di cedere ai privati per risanare le esauste casse del pubblico erario. Ma la nuova nazione era più fortunata di noi, che siamo affidati a Saccomanni. c’era Quintino Sella che pare avesse più dimestichezza coi conti e che valutò l’inefficacia delle privatizzazioni realizzate in un decennio, dimostrando alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire, lo Stato aveva incassato solo 277 milioni. E senza andare così a ritroso basta ricordare come dalle due operazioni di cartolarizzazione di Tremonti, nel 2003, a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo 2.
Quando vendi non è più tuo recita un saggio proverbio. E il rischio che lo Stato corre è di privarsi di un immenso patrimonio, con manufatti anche di grande valore, ricavando alla fine somme irrisorie: tutte le esperienze di vendita di beni, sia statali che ecclesiastici, lungo l’intera la storia nazionale, oltre a scarsi guadagni, producono un generale rafforzamento dell’attitudine redditiera dei privati e deprimono imprenditorialità e investimenti.
Se non basta ad aprirci gli occhi il trailer della disfatta greca, se non bastano le esperienze negative condotte in tutti i Paesi soggiogati dal thatcherismo, dovremmo trarre insegnamento dall’iniziativa ad esempio della Finlandia che anziché vendere i beni dello Stato, li ha impiegati come pegno per l’ emissione di nuovi titoli pubblici, riducendo gli interessi sul debito, con un risparmio pari al 10% del PIL in un breve periodo di tempo.
Ma i finlandesi evidentemente si vogliono bene, non voterebbero governi scriteriati e cialtroni, autoreferenziali ed inetti, nelle cui compagini sopravvivono gli sponsor delle rendite e del privilegio, gente ignorante e miope che disprezza la considerazione che i beni comuni della nostra nazione rientrano nei confini di un Paese che, secondo l’Unesco, racchiude il 60% del patrimonio artistico dell’umanità: case del rinascimento, chiese sconsacrate, castelli, monasteri, ville, palazzi signorili, destinate a finire in mani private.
E c’è da dire che la strategia di svendita del nostro patrimonio nazionale, viene condotta anche su altri frinti che non sono solo quelli della trasformazione oscena della nostra geografia in un outlet. Ben peggio di compri du al prezzo di uno, c’è la pratica straversale a tutti provvedimenti, chiamata, con pudico eufemismo, semplificazione, snellimento, lotta alla burocrazia e che consiste nell’abbattimento del sistema di controlli e sorveglianza, per costruire un edificio di autorizzazioni posticce, di dare corso a un via libera a licenze e condoni che danno legittimità a abusi e trasgressioni, alla cessione di suoli, risorse, paesaggi, al “fitto” perverso tramite concessioni e esclusive a sponsor travestiti da mecenati autorizzati a formidabili profitti e molta propaganda con poca spesa.
Ha molto a che fare con privatizzazioni e alienazione dei beni comuni, l’ennesimo e forse definitivo tentativo grazie al cosiddetto decreto Fare, di sopprimere le conquiste ottenute alla fine degli anni ’60 in tema di spazi pubblici minimi e distanze tra gli edifici dopo i guasti della stagione liberista degli anni ’50, quella delle mani sulla città, conclusa con il massacro di molte delle nostre città da parte della speculazione edilizia, anche in virtù delle nuove deregolazioni nelle ristrutturazioni degli edifici esistenti anche in zone di pregio storico-artistico, consentendo alterazioni alla loro sagoma, in precedenza vietate.
Non è anche questa una cessione del patrimonio collettivo a interessi privati? Non è anche questa una forma indiretta di svendita dell’ambiente, della cultura, del patrimonio artistico a speculatori più o meno eleganti e griffati? Non vogliono imporci anche così la rinuncia ai diritti, “risarcendoci” con la perversa promessa di consumi più copiosi (più ore da passare in automobile, più centri commerciali, più cibo spazzatura e merci usa e getta)? Non è ora di riprenderci quello che è nostro?
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