mercoledì 18 settembre 2013

Strategia per una riconquista (di Serge Halimi), da http://irradiazioni.wordpress.com

Serge Halimi_smallL’inevitabile domanda sul “che fare?” continuaa risuonare in tutti i discorsi. Oramai le proposte si sprecano. Alcune ragionevoli, altre poco comprensibili, altre ancora epidermicamente pericolose, Questo articolo di Serge Halimi comparso su Le Monde Diplomatique riassume bene alcuni spunti e alcuni problemi del “che fare”. Meriterebbe una approfondita discussione, soprattuto per le linee indicate come strategia. Ma non solo anche le evidenti difficoltà del pensiero critico mettono in evidenza la confusione e la mancanza di analisi serie. Queste pecche portano le persone a credere che opporsi al capitalismo sia “un tantinello complicato” e a farle optare per qualche strategia di corto respiro o a cercare soluzioni nell’economista di passaggio che lavora per riempirsi le tasche.

Sono trascorsi cinque anni dal fallimento di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. La legittimità del capitalismo come nodo di organizzazione della società ha subito un duro colpo; le sue promesse di prosperità, di mobilità sociale, di democrazia non illudono più. Ma il grande cambiamento non si è verificato. Le messe in discussione del sistema si sono succedute senza scuoterlo. Il prezzo dei suoi insuccessi è stato pagato persino con l’annullamento di una parte delle conquiste sociali che gli erano state strappate. «I fondamentalisti del mercato si sono sbagliati su quasi tutto, e tuttavia dominano la scena politica più che mai», constatava l’economista americano Paul Krugman già quasi tre anni fa. Tutto sommato, il sistema tiene, anche con il pilota automatico. Non è un complimento per i suoi avversari. Che cosa è successo? E che fare?
 
La sinistra anticapitalista rifiuta l’idea di una fatalità economica poiché crede che ci siano delle volontà politiche a organizzarla. Ne avrebbe dovuto dedurre che il tracollo finanziario del 2007-2008 non avrebbe aperto una via trionfale ai suoi progetti. Il precedente degli anni ’30 forniva già dei suggerimenti: in funzione delle situazioni nazionali, dei patti sociali e delle strategie politiche, una stessa crisi economica può sfociare in esiti tanto diversi quanto la salita al potere di Adolf Hitler in Germania, il New Deal negli Stati Uniti, il Fronte Popolare in Francia, e niente di altrettanto rilevante nel Regno Unito. Molti anni dopo, e ogni volta con qualche mese di intervallo, Ronald Reagan fece il suo ingresso alla Casa Bianca e Mitterrand all’Eliseo; Nicolas Sarkozy fu battuto in Francia e Barack Obama rieletto negli Stati Uniti. Vale a dire che la fortuna, il talento, la strategia politica, non sono variabili accessorie in grado di sostituire la sociologia di un paese o lo stato della sua economia.
La vittoria dei neoliberisti, a partire dal 2008, deve molto al soccorso della cavalleria dei paesi emergenti, poiché il «rovesciamento del mondo» è stato anche l’ingresso nella danza capitalista dei grossi contingenti produttori e consumatori cinesi, indiani, brasiliani. Questi sono serviti da esercito di riserva del sistema nel momento in cui sembrava essere in agonia. Solo negli ultimi dieci anni, la parte della produzione mondiale dei grandi paesi emergenti è passata dal 38% al 50%. La nuova fabbrica del mondo è diventata allo stesso tempo uno dei suoi principali mercati: dal 2009 la Germania esporta più in Cina che negli Stati Uniti.
L’esistenza delle «borghesie nazionali» – e l’attuazione di soluzioni nazionali — si scontra dunque con il fatto che le classi dirigenti del mondo intero hanno ormai interessi comuni. A meno di restare mentalmente ancorati all’anti-imperialismo degli anni ’60, come prevedere ancora, per esempio, che una risoluzione progressista dei problemi attuali possa avere per artefici le élite politiche cinesi, russe o indiane, affariste e venali quanto le loro omologhe occidentali?
Tuttavia il riflusso non è stato universale. «L’America latina, faceva notare tre anni fa il sociologo Immanuel Wallerstein, durante il primo decennio del XXI secolo, è stata la succes-story della sinistra mondiale. È così per due motivi: il primo e più citato: perché i partiti di sinistra o di centro sinistra hanno vinto una successione impressionante di elezioni. E poi: perché per la prima volta i governi latinoamericani hanno preso le distanze dagli Stati Uniti in maniera collettiva. L’America latina è diventa una forza geopolitica relativamente autonoma
Certamente l’integrazione regionale, che prefigura per i più audaci il «socialismo del XXI secolo», per gli altri individua uno dei più grandi mercati mondiali. Il gioco rimane nondimeno più aperto all’interno della vecchia sfera d’influenza degli Stati Uniti che all’interno dell’ectoplasma europeo. E se l’America latina ha conosciuto sei tentativi di colpi di Stato in meno di dieci anni (Venezuela, Haiti, Bolivia, Honduras, Ecuador e Paraguay), è forse perché i cambiamenti politici cui hanno dato impulso le forze di sinistra vi hanno realmente minacciato l’ordine sociale e trasformato le condizioni di esistenza delle popolazioni. Ciò ha altresì dimostrato che esiste certamente un’alternativa, che non tutto è impossibile, ma che per creare le condizioni del successo bisogna mettere in atto delle riforme strutturali, economiche e politiche le quali rimettano in moto gli strati popolari che l’assenza di prospettiva aveva imprigionato nell’apatia, nel misticismo o nella mera sopravvivenza. È forse anche in questo modo che si combatte l’estrema destra.
Trasformazioni  strutturali,  sì, ma quali?  I  neoliberisti  hanno  radicato così bene l’idea che non ci fossero «alternative» che ne hanno convinto anche i loro avversari, al punto che questi dimenticano anche le proprie proposte… Ricordiamone alcune tenendo a mente che oggi più esse sembrano  ambiziose,  più  è  importante adottarle senza aspettare. E senza mai dimenticare che la loro eventuale drasticità deve essere messa in relazione alla violenza dell’ordine sociale che esse vogliono distruggere.
Come   contenere   quest’ordine   e come sconfiggerlo in seguito? Lo sviluppo della parte del settore pubblico, e anche quella delle gratuità, risponderebbe a questo doppio obiettivo. L’economista André Orléan ricorda che durante il XVI secolo «la terra non era un bene che si poteva barattare, ma un bene collettivo e non negoziabile e questo spiega la vigorosa resistenza contro la legge sulla recinzione dei pascoli comunali». E aggiunge: «Stessa cosa oggi con la mercificazione della vita. Un braccio o del sangue ora non ci appaiono come merci, ma che ne sarà domani?».
Per contrastare quest’offensiva, forse converrebbe definire democraticamente alcuni bisogni elementari (alloggio, cibo, cultura, comunicazioni, trasporti), farli finanziare dalla collettività e metterli a disposizione di tutti. Addirittura, il sociologo Alain Accardo raccomanda di «estendere rapidamente e continuativamente il servizio pubblico fino a farsi carico gratuitamente di tutti i bisogni fondamentali a misura della loro evoluzione storica, cosa non concepibile economicamentte se non mediante la restituzione alla collettività di tutte le risorse e ricchezze prodotte dagli sforzi di tutti e necessarie all’assistenza sociale». Così, piuttosto che mettere la domanda in condizione di far fronte all’offerta aumentando i salari, si tratterebbe di acquisire quest’ultima al socialismo e di garantire a ciascuno delle nuove prestazioni in natura.
Ma come evitare di passare da una tirannia dei mercati a un assolutismo di Stato? Cominciamo, ci dice il sociologo Bernard Friot, a generalizzare il modello delle conquiste popolari che funzionano e che sono sotto i nostri occhi: il sistema previdenziale per esempio, contro il quale si accaniscono i governi di ogni colore. Un «fattore di emancipazione già esistente» che, grazie al principio della contribuzione, mette a disposizione della società una parte importante della ricchezza, permette di finanziare le pensioni, le indennità di malattia, i sussidi dei disoccupati. Diversa dall’imposta percepita e spesa dallo stato, la contribuzione non è oggetto di accumulazione e, agli inizi, fu gestita principalmente dai salariati stessi. Perché non spingersi oltre?
Volutamente d’attacco, un tale programma comporterebbe un triplo vantaggio. Politico innanzitutto: benché suscettibile di riunire una larghissima coalizione sociale, esso non è manipolabile da parte dei liberisti o dell’estrema destra. Ecologico: esso evita un rilancio keynesiano che, prolungando il modello esistente, finirebbe con «l’iniettare una somma di denaro nei conti in banca per essere poi riversata nel consumo di beni di mercato indotto dalla pubblicità (!)». Inoltre privilegia bisogni che non saranno soddisfatti dalla produzione di oggetti inutili in quei paesi dove i salari sono bassi, con tanto di trasporto nei container da un capo all’altro della Terra. E per finire, un vantaggio democratico: la definizione delle priorità collettive (ciò che sarà gratuito, e ciò che non lo diventerà) non sarà più riservata a eletti, ad azionisti o a mandarini intellettuali, tutti provenienti dagli stessi ambienti sociali. Un approccio di questo tipo è urgente. Allo stato attuale dei rapporti di forza sociali del mondo intero, la robotizzazione accelerata dell’impiego industriale (ma anche dei servizi) rischia infatti di creare al contempo una nuova rendita per il capitale (riduzione del «costo del lavoro») e una disoccupazione di massa sempre meno indennizzata. Ogni giorno Amazon o i motori di ricerca dimostrano che centinaia di migliaia di clienti affidano ai robot la scelta delle uscite, dei viaggi, delle letture, della musica che ascoltano. Librerie, giornali, agenzie di viaggio ne pagano già il prezzo. «Le dieci più grandi imprese di Internet, come Google, Facebook o Amazon, fa notare Dominic Barton, direttore generale di McKinsey, hanno creato appena duecentomila posti di lavoro.» Ma hanno guadagnato «centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione in borsa»
Per rimediare al problema della disoccupazione, la classe dirigente rischia dunque di dover fronteggiare gli scenari temuti dal filosofo André Gorz; ovvero l’invasione continua dei campi ancora retti dalla gratuità e dalla donazione: «Dove si fermerà la trasformazione di tutte le attività in attività retribuite, aventi come ragione la loro remunerazione e la rendita massima come scopo? Quanto tempo potranno resistere le fragili barriere che impediscono ancora la professionalizzazione della maternità e della paternità, la procreazione commerciale degli embrioni, la vendita di bambini, il commercio di organi?».
La questione del debito convince quanto quella della gratuità se si svela il suo sfondo politico e sociale. Niente di più comune nella storia di uno Stato tenuto per la gola dai suoi creditori che, in un modo o in un altro, si libera dalla loro morsa per non infliggere più al suo popolo un’austerità perpetua. Fu il caso della Repubblica dei soviet che si rifiutò di onorare i prestiti russi sottoscritti dallo zar. O di Raymond Poincaré che salvò il franco… svalutandolo dell’80%, amputando in proporzione il carico finanziario della Francia, rimborsato in moneta svalutata. O ancora il caso degli Stati Uniti e del Regno Unito durante il dopoguerra che, senza una politica di rigore ma lasciando galoppare l’inflazione, quasi dimezzarono il fardello del loro debito pubblico.
Ma in seguito, come richiede il dominio del monetarismo, la bancarotta è diventata sacrilega, l’inflazione da perseguitare (ivi compreso quando il suo tasso sfiora lo zero), la svalutazione proibita. Ma benché i debitori siano stati liberati dal rischio di default, essi continuano a esigere un «premio di credito». «In una situazione di sovraindebitamento storico, mette in evidenza l’economista Frédéric   Lordon,   le  uniche  scelte possibili  sono   tra   l’aggiustamento strutturale al servizio dei creditori e una forma o l’altra della loro rovina». Dopo aver concesso loro tutto, l’annullamento di tutto o di una parte del debito arriverebbe a spogliare finanzieri e beneficiari di rendite, quale che sia la loro nazionalità.
Il laccio emostatico imposto alla collettività si allenterà tanto più velocemente quanto più essa recupererà le ricette fiscali dilapidate da trenta anni di neoliberismo. Non soltanto quando stata rimessa in discussione la progressività dell’imposta e si è fatto il callo alla generalizzazione della frode, ma anche quando è stato creato un sistema tentacolare nel quale la metà del commercio internazionale di beni e di servizi transita per paradisi fiscali. I loro beneficiari non si limitano a qualche oligarca russo o a un vecchio ministro delle finanze francese: sono soprattutto imprese vezzeggiate dallo Stato (e anche influenti sui media) come Total, Apple, Google, Citigroup o Bnp Paribas.
Ottimizzazione fiscale, «premi di trasferimento» (che permettono di localizzare i profitti delle filiali là dove le imposte sono basse), delocalizzazione delle sedi sociali: l’ammontare di denaro cosi sottratto alla collettività in completa legalità si avvicinerebbe a 1.000 miliardi di euro, solo per parlare dell’Unione Europea. Cioè, in numerosi paesi, una perdita in redditi imponibili superiore alla totalità del carico del loro debito nazionale. In Francia, come evidenziano diversi economisti, «anche recuperando soltanto la metà delle somme in gioco, la parità di bilancio potrebbe essere ristabilita senza sacrificare le pensioni, gli impieghi pubblici o gli investimenti ecologici per il futuro». Annunciato cento volte, annullato altrettante (e cento volte più lucrativo della perenne «evasione sui sussidi sociali»), il «recupero» in questione sarebbe tanto più popolare ed egualitario in quanto i contribuenti ordinari, da parte loro, non possono, ridurre il proprio reddito imponibile versando delle royalties fittizie alle filiali delle isole Cayman.
Alla lista delle priorità potremmo aggiungere il congelamento dei salari più elevati, la chiusura della Borsa, la nazionalizzazione delle banche, la rimessa in discussione del libero scambio, l’uscita dall’euro, il controllo dei capitali… Tutte idee già presentate su queste colonne. Perché allora favorire la gratuità, l’annullamento dei debito pubblico e il recupero fiscale? Semplicemente perché, per elaborare una strategia, per immaginare il suo fondamento sociale e le sue condizioni politiche di realizzazione, conviene scegliere un piccolo numero di priorità piuttosto che comporre un catalogo destinato a richiamare in strada una folla eteroclita di indignati che si dileguerà al primo temporale. L’uscita dall’euro meriterebbe di figurare a colpo sicuro tra le urgenze. Tutti comprendono ormai che la moneta unica e la chincaglieria istituzionale e giuridica che la sostiene (Banca centrale indipendente, patto di stabilità) impediscono ogni politica che si accanisca contro l’aumento delle diseguaglianze e contro la confisca della sovranità di una classe dominante subordinata alle esigenze della finanza. Tuttavia, per quanto necessaria, la rimessa in questione della moneta unica non garantisce nessuna riconquista su questo doppio fronte, come dimostrano gli orientamenti economici e sociali del Regno unito o della Svizzera. L’uscita dall’euro, un po’ come il protezionismo, si fonderebbe peraltro su una coalizione politica che mischia il peggiore e il migliore, e all’interno della quale il primo termine prevale sul secondo, almeno per il momento. Il salario universale, l’amputazione del debito e il recupero fiscale permettono di attrarre altrettanto consenso, e anche di più, a patto di tenere in disparte convitati non desiderati
È   inutile   pretendere   che   questo «programma» disponga di una maggioranza in un qualunque parlamento del mondo.  Le trasgressioni che esso  prevede   comprendono   diverse regole  considerate   inviolabili.   Tuttavia, quando si è trattato di salvare il loro sistema in crisi, i liberisti, loro, non hanno mancato di audacia. Non hanno indietreggiato né davanti all’aumento   sensibile   dell’indebitamento   (eppure   avevano   assicurato che avrebbe fatto gonfiare i tassi di interesse). Né davanti a un forte rilancio del bilancio statale (eppure avrebbe scatenato l’inflazione). Né davanti   all’aumento   delle   imposte, alla nazionalizzazione delle banche in fallimento, o a un prelievo forzato dai depositi bancari, o al ripristino del controllo dei capitali (Cipro). Insomma, «quando i raccolti sono sotto la grandine, è folle chi fa il delicato». E ciò che vale per loro vale anche per noi, che soffriamo troppo di modestia… Tuttavia non è fantasticando un ritorno al passato né sperando solo di ridurre l’ampiezza delle catastrofi che si ridarà fiducia, che si combatterà la rassegnazione di non avere in definitiva altra scelta possibile che l’alternanza di una sinistra e di una destra che applicano più o meno lo stesso programma.
Sì, serve audacia. Parlando dell’ambiente, nel 1974 Gorz sosteneva che «un attacco politico, lanciato a tutti i livelli, strappa [al capitalismo] la gestione delle operazioni e gli oppone un progetto di società e di civiltà tutto diverso». Poiché, secondo lui, quello che importava era evitare che una riforma sul fronte ambientale si pagasse subito con un deterioramento della situazione sociale: «La lotta ecologica può creare difficoltà al capitalismo e obbligarlo a cambiare; ma quando, dopo aver resistito a lungo con la forza e con l’astuzia, finalmente cederà perché l’impasse ecologica sarà divenuta ineluttabile, farà propri questi obblighi come ha fatto propri gli altri. (…) Il potere di acquisto del popolo sarà contenuto, e tutto accadrà come se il costo del disinquinamento fosse prelevato dalle risorse di cui dispongono le persone per l’acquisto di beni di consumo». Da allora, la resilienza del sistema è stata dimostrata quando il disinquinamento è diventato i sua volta un mercato; per esempio a Shenzhen, dove alcune imprese poco inquinanti vendono ad altre il diritto di accedere la loro quota regolamentare mentre l’aria viziata uccide già più di in milione di cinesi l’anno. Se non mancano le idee per rimettere il mondo al verso giusto, come impedire che entrino nel museo delle virtuose misure incompiute? Negli ultimi tempi, l’ordine sociale ha suscitato numerose contestazioni, dalle rivolte arabe ai movimenti degli «indignati». Dal 2003, con le folle immense riunite contro la guerra in Iraq, decine di milioni di manifestanti hanno invaso le strade, dalla Spagna a Israele, passando per gli Stati uniti, la Turchia o il Brasile. Hanno attirato l’attenzione, ma non hanno ottenuto grandi cose. Il loro fallimento strategico aiuta a segnalare il cammino da seguire. La caratteristica delle grandi coalizioni contestatarie sta nel cercar di consolidare il loro numero evitando le questioni che dividono. Tutti intuiscono quali temi farebbero andare in frantumi un’alleanza che a volte ha per fondamento solo degli obiettivi generosi ma imprecisi: una migliore ripartizione dei redditi, una democrazia meno mutilata, il rifiuto delle discriminazioni e dell’autoritarismo. Via via che la base sociale delle politiche neoliberiste si restringe, che le classi medie pagano a loro volta il prezzo della precarietà, del libero scambio, del rincaro degli studi, diventa d’altronde più facile sperare di formare una coalizione maggioritaria. Formarla sì, ma per fare cosa? Le rivendicazioni troppo generiche o troppo numerose fanno fatica a trovare una traduzione politica e a iscriversi nella lunga durata. «Per una riunione di tutti i responsabili dei movimenti sociali», ci spiegava recentemente Arthur Enrique, già presidente della Centrale unitaria dei lavoratori (Cut), il principale sindacato brasiliano, «ho messo insieme i diversi testi. Il programma delle federazioni sindacali prevedeva 230 punti; quello dei contadini, 77; etc. Li ho sommati tutti; faceva più di 900 priorità. E ho chiesto: “Che cosa ci facciamo, concretamente, con tutto ciò?”» In Egitto la risposta è stata data… dai militari. Una maggioranza del popolo si è opposta per tutta una serie di eccellenti motivi al presidente Mohamed Morsi, ma per mancanza di altri obiettivi rispetto a quello di assicurarne la caduta, essa ha abbandonato il potere all’esercito; con il rischio di divenirne oggi l’ostaggio, e domani la vittima. Non avere dei programmi di viaggio porta spesso a dipendere da quelli che ne hanno uno. La spontaneità e l’improvvisazione possono favorire un momento rivoluzionario ma non garantiscono una rivoluzione. I social network hanno incoraggiato   l’organizzazione   delle manifestazioni; l’assenza di un’organizzazione formale ha permesso di sfuggire – almeno per un po’ di tempo – alla sorveglianza della polizia. Ma il potere si conquista ancora con strutture piramidali, soldi, militanti, macchine elettorali e una strategia: quale blocco sociale, quale alleanza, per quale progetto? In questi casi possiamo applicare la metafora di Accardo: «La presenza su un tavolo di tutti gli ingranaggi di un orologio da polso non permette a qualcuno che non ha le istruzioni per il montaggio di farlo funzionare. Un piano per l’assemblaggio è una strategia. In politica, si può far nascere una serie di crisi in successione oppure si può riflettere sull’assemblaggio delle parti». Definire alcune grandi priorità, ricostruire la lotta intorno a esse, smetterla   di   complicare   tutto   tanto   per mettere alla prova le proprie virtuosità: questo significa giocare la parte dell’orologiaio, poiché una «rivoluzione alla Wikipedia dove ognuno aggiunge il proprio contenuto» non riuscirà ad aggiustare l’orologio. Negli ultimi anni alcune azioni localizzate, disorganizzate e febbrili hanno partorito una contestazione innamorata di se stessa, una galassia di impotenti e di impazienti, una successione di scoraggiamenti. Nella misura in cui le classi medie solitamente costituiscono la colonna vertebrale di questi movimenti, una tale incostanza non può sorprendere: esse si alleano con le categorie popolari solo in un contesto di pericolo estremo – e a condizione di assumere molto rapidamente la direzione delle operazioni. Tuttavia, si pone anche e sempre di più la questione del rapporto con il potere. Dato che nessuno immagina ancora che i principali partiti e le attuali istituzioni modifichino per poco che sia l’ordine neoliberista, cresce la tentazione di privilegiare il cambiamento delle mentalità su quello delle strutture e delle leggi, di trascurare il terreno nazionale, di reinvestire sul piano locale o comunitario con la speranza di crearvi alcuni laboratori per le vittorie future. «Un gruppo scommette sui movimenti, sulle diversità senza un’organizzazione centrale, riassume Wallerstein, un altro avanza che se non si ha il potere politico, non si può cambiare nulla. Tutti i governi dell’America Latina vivono questo dibattito».
Ciononostante si può misurare la difficoltà   della   prima   scommessa. Da un lato, una classe dirigente solidale, consapevole dei propri interessi, mobilitata e padrona del terreno e della forza pubblica; dall’altro, innumerevoli associazioni, sindacati e partiti, tanto più tentati di difendere il proprio orticello, la propria singolarità, la propria autonomia quanto più temono di essere riassorbiti dal potere politico. Forse essi si ritrovano anche a essere inebriati dall’illusione di Internet che fa loro immaginare di contare perché dispongono di un sito sul web. La loro «organizzazione reticolare» diviene allora la maschera teorica di un’assenza di organizzazione e di riflessione strategica, avendo la rete come sola realtà la diffusione circolare  i  comunicati  digitali  che ciascuno condivide in rete e che nessuno legge.
Il legame tra movimenti sociali e ricambio istituzionale, tra contropoteri e partiti, è sempre stato problematico. Dato che non esiste più un obiettivo principale, una «linea generale» – e meno che mai una linea o un cartello a incarnarla – bisogna «chiedersi come creare il globale a partire dal particolare». La definizione di alcune priorità capaci di mettere direttamente in causa il potere del capitale permetterebbe di rafforzare i buoni sentimenti, di attaccare il sistema centrale e di individuare le forze politiche disposte.
Sarà importante esigere subito da queste forze politiche che gli elettori possano, attraverso un referendum, revocare i loro eletti prima della fine del mandato, la Costituzione venezuelana prevede una disposizione di questo tipo dal 1999. Infatti, numerosi capi di governo hanno preso decisioni importanti (età del pensionamento, impegni militari, trattati costituzionali) senza averne precedentemente ricevuto mandato dal loro popolo. Quest’ultimo otterrebbe così il diritto di prendersi la rivincita in maniera diversa dal rimandare al potere i fratelli gemelli di chi ha appena tradito la sua fiducia.
Basterà poi attendere l’ora? «A inizio 2011, non eravamo più di sei persone ad aderire al Congresso per la Repubblica [Cpr], ricorda il presidente tunisino Moncef Marzouki. Ciò non ha impedito al Cpr di ottenere il secondo posto alle prime elezioni democratiche organizzate in Tunisia alcuni mesi più tardi…». Nel contesto attuale, il rischio di un’attesa troppo passiva, troppo poetica  significherebbe vedere altri da sé – meno pazienti, meno esitanti e più temibili – cogliere il momento per sfruttare a loro vantaggio una collera disperata alla ricerca di bersagli, non necessariamente i migliori. E siccome il lavoro di demolizione sociale non s’interrompe mai senza che lo si aiuti, dei punti di riferimento o dei focolai di resistenza da cui partirebbe una riconquista eventuale (attività non mercificate, servizi pubblici, diritti democratici) rischierebbero di essere annientati. E ciò renderebbe ancora più difficile una nuova vittoria.
La partita non è persa. L’utopia liberista ha distrutto la sua parte di sogno, di assoluto, di ideale, senza la quale i progetti sociali appassiscono e poi muoiono. Produce solo più privilegi, esistenze fredde e morte. Dunque un rovesciamento ci sarà. Ciascuno di noi può farlo arrivare un po’ più presto.

Nessun commento: