domenica 15 settembre 2013

CINQUE ANNI FA IL FALLIMENTO DELLA LEHMAN AND BROTHERS: L'INIZIO DELLA CRISI nota della REDAZIONE DI PERCHE' LA SINISTRA

Capitalismo da combattere con la stessa feroce lucidità con il quale attacca, recuperando Marx non tanto e non solo come profeta del comunismo, quanto come critico radicale di un’artificialità del modo di esistere e produrre disumano, che si vorrebbe inevitabile come un destino verso il quale deve essere, invece, affermato con forza “Ribellarsi è giusto”.
Cinque anni fa, 15 settembre 2008, la Federal Reserve, considerato che i revisori dei conti della Barclays avevano dato parere negativo all’acquisizione decise ,in concerto con i più influenti banchieri USA, il fallimento della banca d’affari newyorkese Lehman and Brothers: s’innescava così la spirale della crisi cosiddetta dei “subprime”, allargatasi poi a macchia d’olio mettendo a repentaglio l’economia reale negli USA e in Europa, invertendo la tendenza alla crescita e reclamando l’utilizzo, per ricapitalizzare il sistema bancario, l’entrata in circolazione di miliardi e miliardi di dollari erogati dallo Stato.
I media fanno rilevare oggi che nessuno dei protagonisti di quella vicenda, tra coloro che decisero per il fallimento, è uscito dalla scena o ha pagato un qualche prezzo per quella decisione evidentemente sbagliata, e anzi tutti quanti occupano posti di elevata responsabilità a partire da quel Bernenke, ancora a capo della Fed.
Tutti concordano nel ritenere quella data l’inizio della crisi.
Avanziamo una domanda: quale crisi? Siamo di fronte, infatti, a un meccanismo consueto nel ciclo capitalistico dominato da un processo, anch’esso già visto e ben noto, di finanziarizzazione dell’economia: il punto conclusivo di una lunga fase di liberismo selvaggio che, a partire dagli anni’70 con l’esperimento cileno (mix quasi inedito tra liberismo e dittatura militare) è andato avanti per raggiungere negli anni’80 la sua codificazione più evidente in quello che è stato definito il “reaganian-tachterismo” e anche nell’esasperazione dello sfruttamento fuori dal lavoro vivo con la speculazione del debito sul debito, dalla quale derivarono i mortali “derivati tossici” che hanno impestato l’economia a livello globale.
Nulla di particolarmente nuovo e soprattutto tutto in linea con la ferocia oggettiva del capitalismo in quanto tale, i cui tratti possono variare a seconda – proprio – della gestione del ciclo ma che, alla fine, rimane immutabile nella sua adorazione al Moloch del profitto e dello sfruttamento: un Moloch assiso sul piedestallo della ferocia delle diseguaglianze, intesa come puro fattore della logica di crescita del profitto.
Quindi non c’è crisi vera, rappresentata da una sorta di mistificazione ideologica, ma ristabilimento dei rapporti di forza tra le classi, mitigato nel ciclo degli anni’70 da un rapporto con la politica diverso da quello che poi, invece, si è affermato nei decenni successivi attraverso la teoria della riduzione della domanda e del restringimento nel rapporto tra politica e società.
E’ necessario mantenere i nostri canoni “storici” di capacità di ribellione, perché semplicemente del capitalismo senza aggettivi si tratta.
Capitalismo da combattere con la stessa feroce lucidità con il quale attacca, recuperando Marx non tanto e non solo come profeta del comunismo, quanto come critico radicale di un’artificialità del modo di esistere e produrre disumano, che si vorrebbe inevitabile come un destino verso il quale deve essere, invece, affermato con forza “Ribellarsi è giusto”.

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