mercoledì 31 dicembre 2014
Riforme: vota la Balla dell’Anno di Marco Travaglio
1. Mai dire 18. “L’articolo 18 è un totem ideologico, inutile discuterne” (Matteo Renzi, 12-8). “Non serve abolire l’articolo 18. Basta il contratto di inserimento” (Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, Corriere, 17-8). “Il problema non è l’articolo 18, che riguarda 3 mila persone” (Renzi, 1-9).
2. Più Pil per tutti.
“Abbiamo abbassato le previsioni di crescita del Pil rispetto al
governo Letta. Sono prudenti, ma saranno smentite. Lo prometto” (Renzi,
8-5). “Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la
vita quotidiana delle persone” (Renzi, 24-7). Letta prevedeva un +1%
annuo, Renzi nel Def un +0,8, ora la Commissione Ue lo stima al -0,4%.
3. Ogni promessa è debito. “Nessuna preoccupazione sui conti pubblici” (Renzi, 2-8). Nel 2014, sotto il governo Renzi, il debito pubblico è cresciuto di 8 miliardi al mese toccando il record di 2.140 miliardi (pari al 131,6% del Pil).
4. Italicum factum. “Nonostante
i gufi, la legge elettorale è passata alla Camera ed entro settembre
sarà approvata: mai più larghe intese e chi vince governa cinque anni. È
una rivoluzione impressionante, chi vince governa. Politica 1 –
Disfattismo 0” (Renzi, 12-3). L’Italicum è arenato al Senato e il
governo l’ha lardellato di emendamenti: dovrà pure tornare alla Camera.
5. Antimafia come se piovesse. “…una proposta organica sulla base del lavoro fatto dalla commissione presieduta da Garofoli istituita a Palazzo Chigi, con Cantone e Gratteri,
per elaborare strumenti e contributi per rendere più incisiva la lotta
alla criminalità organizzata… Porterò questi temi anche sui tavoli del
semestre europeo che si apre tra qualche mese, perché la mafia non è più
solo un problema italiano. C’è tanto lavoro da fare” (Renzi, lettera
aperta a Roberto Saviano, Repubblica, 2-3). Nulla di fatto, men che meno sul tavolo del semestre europeo. A parte la legge che riduce le pene e rende praticamente impunibile il voto di scambio politico-mafioso.
6. Ottanta euro extralarge.
“Ho preso un impegno con partite Iva, incapienti e pensionati nel
proseguire il lavoro di abbassamento delle tasse iniziato con i
lavoratori dipendenti e lo manterrò” (Renzi, Twitter, 23-4). “Dal 2015 i
pensionati saranno dentro la stessa misura prevista nel decreto Irpef
degli 80 euro” (Renzi, 23-5). “Il bonus sarà allargato” (Renzi, 3-6).
Nessun allargamento degli 80 euro a incapienti, pensionati e partite Iva (queste ultime, anzi, si vedono triplicare l’aliquota fiscale).
7. Brum brum, che ripresa! “Lavoriamo
per una ripresa col botto a settembre” (Renzi,1-8).“La ripresa è un po’
come l’estate: magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in
ritardo, ma arriva” (Renzi, 5-8). Nessuna ripresa, anzi: stagnazione e recessione.
8. Il massimo del minimo.
“Presentazione entro otto mesi di un Codice del lavoro che racchiuda e
semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben
comprensibile anche all’estero” (Renzi, 8-1). “Nel Jobs Act
ci sarà il salario minimo” (Renzi, 12-3). Il Codice del lavoro non
esiste nemmeno dopo 12 mesi e nel Jobs Act non c’è traccia di salario
minimo.
9. Spending Dippiù. “La
spending review la faremo lo stesso anche senza Cottarelli. Dai tagli
di spesa avremo 16 miliardi e porteremo il deficit al 2,3%” (Renzi,
30-7).“I tagli saranno non per 17, ma per 20 miliardi. Il governo
valuterà tagli non lineari per ciascun ministero. Lunedì con Padoan
incontrerò tutti i ministri. Ognuno potrà e dovrà valutare le singole
spese da tagliare” (Renzi, 3-9). Licenziati Cottarelli
e la sua spending review, solo tagli lineari alle Regioni (4 miliardi) e
agli enti locali (2,2 miliardi); quelli ai ministeri ammontano a poco
più di 1 miliardo. Totale: 8 scarsi. E il deficit è al 2,9%. Forse.
10. Unioni alla tedesca.
“Sulle unioni civili ci sarà una proposta ad hoc del governo sul
modello tedesco” (Renzi, 27-7). Nessuna proposta del governo sulle
unioni civili, né tedesca né esquimese. A parte l’unione incivile con Silvio Berlusconi.
NEMICO PUBBLICO
GLI SCHIAVI “FATTI IN CASA”
Di Ciuenlai
Questa storia dell’esclusione dei dipendenti pubblici dal Job – Act non è né una dimenticanza, nè uan scelta di campo, né
un retaggio del passato, né la difesa della “politica” di un antico
privilegio. E’, invece, un altro tassello della strategia della
divisione tra lavoratori e tra poveri. Si cerca di accreditare agli
occhi dei “privati”, un privilegio per i “pubblici”, sviando il problema
della riduzione generale dei diritti, mettendo in piazza dei
“responsabili” inconsapevoli e innocenti e, aprendo le porte ad una
ulteriore azione contro i lavoratori pubblici che subiranno, tra qualche
anno, forse tra qualche mese, la stessa sorte di quelli privati. Gli
diranno “Muti che voi non siete come quelli dell’Ast o dell’Ilva”. E
invece, come dimostra la vicenda delle Province, che sono la prova
generale di questo disegno, stanno diventando come loro : esodanti,
cassintegranti, licenziandi. L’obiettivo è “il precariato per tutti”,
per alimentare insicurezza, paure e difendersi con il ricatto da
qualsiasi tipo di protesta e di ribellione. Applicano la legge della
sopravvivenza, alla quale nessuno si può sottrarre. Ma alla fine, le
nuove norme sul pubblico impiego marcheranno qualche differenza, per
poter continuare il giochino del “lui sta peggio di te”, naturalmente al
ribasso, sempre più al ribasso. Tenendo qualcuno leggermente più in
alto, si può far scivolare tutti verso il baratro dei redditi e delle
tutele per chi vende la propria forza lavoro. Vedrete, tra qualche anno,
finiranno anche le “carrette del mare”. Non serviranno più. L’Italia
avrà un mucchio di schiavi “fatti in casa”
martedì 30 dicembre 2014
A che punto è la notte? Marx come bussola nel caos capitalistico Claudio Valerio Vettraino
Il
problema drammatico del marxismo degli ultimi trent’anni riguarda il
fatto che il marxismo è stato sempre più considerato come un semplice
punto di vista, un’ideale, o peggio un’idea, una Welthanschauung
soggettiva, un’etica sociale personale avulsa dalla storia e delle
necessità della trasformazione pratica, un’opinione tra le altre mille
che affollano, anzi affossano, il dibattito pubblico; una pia volontà di
cambiamento, di benessere auspicabile per tutta l’umanità, fumosa
nostalgia di un glorioso passato di lotta.
In
questo modo, venendo meno la sistematicità scientifica del marxismo come
modello, “cassetta degli attrezzi”, universo complesso e
contraddittorio di categorie e linguaggio, di epistemologia ed
ermeneutica applicata alla realtà concreta, di grammatica strategica
delle forze in campo, della lotta tra le classi, analisi critica delle
leggi di funzionamento della formazione economico-sociale capitalistica,
riducendosi cioè a mera opinione, a mera volontà, a intelletto senza
azione, concetto senza strategia, interpretazione senza organizzazione,
esso può essere dichiarato – idealisticamente, senza un’attenta e
concreta dimostrazione scientifica – morto e sepolto da chiunque abbia
l’interesse a insudiciare e demolire una storia, una tradizione, le
conquiste sociali, politiche ed economiche che il marxismo ha permesso.
Se il
marxismo dunque viene fruito e rappresentato come un’idea tra idee,
opinione tra opinioni, pura e semplice gnoseologia astratta,
accademico-letteraria, pedante filologia, è già morto.
Se
viceversa, viene interpretato, giustamente, come sistema (sempre aperto
e critico di se stesso) scientifico in quanto produttore di senso e
sapere, unità dialettica di contraddizione e non-contraddizione, di
verifica sperimentale dell’ipotesi astratta di lavoro (come direbbe
Della Volpe) e fluida criticità dialettica, allora e solo allora potrà
difendersi dalle triviali opinioni nichilistiche e pessimistiche dei
teorici borghesi e della pigra, miope accademia. Dobbiamo riconsiderare
il marxismo come scienza critica dell’esistente, lontano anni luce da
qualsiasi forma di dogmatismo althusseriano e di scientismo
positivista. Il marxismo ha una superiorità intellettuale, scientifica,
teorica indiscutibile, una superiorità però che deve sapersi
realizzare come concreta alternativa politica, concreto progetto di
trasformazione.
Il
problema dell’attualità del marxismo si delinea su un doppio binario: il
primo è quello comunicativo, della capacità di ricreare un linguaggio e
una grammatica aderente alla fase storica attuale: quella famosa
“analisi concreta della situazione concreta” di cui parlava Lenin.
Connesso dialetticamente a questo, vi è il problema della capacità
organizzativa e politica nel costituirsi come reale alternativa di
potere e d’egemonia, per dirla con Gramsci. Due questioni,
intrinsecamente connesse l’una all’altra: il deficit linguistico e
d’analisi scientifica del capitale finanziario globale, con la proposta
alternativa di gestione sociale, economica e politica che propone. Ed è
precisamente questa la sfida che il marxismo ha oggi di fronte. Quella
cioè di dimostrare di essere una vera ed autentica alternativa
utopica, strategico-organizzativa alla crisi radicale e sempre più
strutturale del mercato mondiale, nel suo endemico sviluppo ineguale.
Se la ripresa del marxismo
è fin dall’inizio una stagnante ripresa nostalgica, meramente
intellettuale, romantica ed accademica, è una battaglia di retroguardia
persa in partenza. Se viceversa, si presenta come un’inedita
attualizzazione storico-materiale delle sue necessità politiche, delle
sue indiscutibili spinte rivoluzionarie, della sua visione totalizzante,
nel cogliere le contraddizioni e gli sviluppi, le tendenze della
nostra società, i ruoli e le funzioni che gli uomini storici hanno
all’interno del suo divenire concreto, allora diventa una lotta
d’avanguardia, una battaglia non solo scientifica o prettamente
politica (di presa e di gestione del potere politico), ma morale,
civile, potremmo dire parafrasando Agnes Heller, valoriale.
Ordinare
la nostra azione speculativa e politica all’interno dell’orizzonte
concreto del marxismo, non significa ossificarlo, istituzionalizzarlo
come scienza panlogistica dell’esistente, una sorta di scientismo
assoluto. Al contrario, tutti i nostri sforzi sono indirizzati a
recuperare – per quanto possibile – tutta la sua inesauribile fluidità
dialettica, le sue potenzialità dinamiche e d’analisi mai chiusa, capace
di evolversi, progredire nell’autocritica in quanto riformulazione,
ricostruzione, rieducazione integrale del presente, con lo sguardo
rivolto alle tendenze future.
Ed è precisamente in questa direzione che diviene sempre più necessario un processo di centralizzazione della ricerca e dell’”intellettualità”marxista,
per combattere la spinta (ormai in atto da tre decenni) all’isolamento
e alla parcellizzazione individualista degli studiosi, di chi coglie
nel pensiero e nei testi di Marx, preziose indicazioni per analizzare,
sviscerare, riportare alla luce, l’intricata complessità della fase
attuale.
L’obiettivo
è quello di istituire una sorta di osservatorio marxista sulla realtà
odierna, un centro studi perennemente attivo in grado di connettere
e rafforzare, diffondere e criticare, le attuali interpretazioni del
pensiero marxiano; un laboratorio aperto a tutte le tendenze e le scuole
di pensiero.
E’
urgente oggi capire a che punto sia la ricerca e lo studio del marxismo,
proprio in relazione all’urgenza di elaborare quella che Lenin
chiamava “una scienza all’altezza dei tempi”. Parafrasando Gramsci, il
nostro compito è duplice: da una parte tentare di ricostruire
quell’intellettuale collettivo, una coscienza marxista comune (seppur
con tante differenze e contrasti) venuto meno con la fine del partito
comunista (che ha caratterizzato e forgiato non solo la cultura politica
ma sociale e culturale italiana degli ultimi sessant’anni),
ricostruire quella egemonia cultural-pedagogica che sembrava obsoleta
ed inattuale, a partire dagli anni Ottanta, e che invece è sempre più
urgente ripristinare. Dall’altra, tentare di connettere questa
operazione di risanamento e di centralizzazione teorica, con le lotte
economiche e politiche d’emancipazione e di difesa dei lavoratori, del
movimento operaio. A mio avviso, non può esserci marxismo senza
movimento operaio. Il marxismo è e deve continuare ad essere la bussola
teorica dell’agire pratico, quotidiano dei lavoratori, l’unica
possibilità per dargli un’autonomia intellettuale e politica, contro
ogni visione interclassi sita e di collaborazione con le forze
padronali e le istituzioni borghesi.
Ha perfettamente ragione Lucio Colletti, quando disse nella sua famosa Intervista politico-filosofica del 1974, che se il marxismo non fosse stato più in grado di produrre opere come Il capitale finanziario di Hilferding o L’accumulazione capitalistica
di Rosa Luxemburg, si sarebbe avvitato su se stesso, schiavo della sua
gnoseologia accademica e di un miope filologismo; avrebbe con ciò
svenduto la sua epistemologia critica all’ermeneutica astratta e
a-storica dei testi “sacri”, senza riuscire più a produrre materiali
d’analisi economica e storica degni di questo nome, con un vero e
concreto valore scientifico. Mai profezia fu più vera. Se il pensiero di
Marx, come quello dei “maestri del socialismo”, vuole avere ancora un
ruolo e una funzione storica generalizzante, di rapporto diretto e proficuo con le masse (soprattutto giovanili), deve sapersi ricostruire come scienza complessiva della società,
sguardo totalizzante sul mondo (per dirla con G. Lukàcs), come ebbe a
dire Asor Rosa, “punto di vista operaio sulla realtà”, centralizzazione
politica di una strategia avvenire dinamica e creativa,
altrimenti è vuota retorica, archiviazione nostalgica di un passato che
non passa mai.
La sostanza della verità* di Anselm Jappe
Voglio
cominciare con un ricordo personale. Sono cresciuto sul confine fra due
epoche: la modernità classica e la postmodernità, o tarda modernità.
Infatti, ho trascorso la mia adolescenza negli anni '70. Allora, il
potere utilizzava un linguaggio chiaro: la famiglia, la scuola, la
chiesa, l'esercito, le istituzioni dello Stato. Parlavano con linguaggio
altezzoso e autoritario. Domandavano rispetto e sottomissione in quanto
pretendevano di detenere la verità. Non cercavano di darci
soddisfazioni immediate, ma di garantire il nostro futuro insegnandoci, o
imponendoci, quello che non eravamo capaci di apprezzare e scegliere
spontaneamente. Volevano anche obbligarci a fare sacrifici in nome di
una verità superiore all'individuo, come la patria. In realtà, nei
settori più importanti della vita, era già tutto stabilito, erano gli
individui che dovevano adattarsi. Invece, quelli che non si volevano
adattare parlavano di "rivoluzione", di "sovversione", e proponevano
soprattutto di minare le certezze comuni. Spargere dubbi, mettere in
discussione le verità ufficiali, sottolineare la relatività di ogni
sapere, sembravano attività sovversive. Mentre il potere, molto tempo
dopo la secolarizzazione ufficiale della società, parlava ancora in nome
di un dogma che doveva essere accettato e non discusso; la
contestazione, al contrario, si poneva dalla parte degli scettici, dei
relativisti. Non è forse meglio, per le religioni, perseguitare gli
scettici, piuttosto che i detentori di presunte contro-verità? La
libertà politica e sociale dovrebbe andare di pari passo, agli occhi dei
nemici dell'autoritarismo esistente, con la denuncia di ogni dogmatismo
nel pensiero: l'"anarchismo epistemologico" del filosofo Paul
Feyerabend ne è stato forse l'esempio più noto.
Poi, si è assistito ad un cambiamento sorprendente, una vera e
propria giravolta (e non mi riferisco al fatto, assai curioso, per cui
l'attuale Papa citi Feyrabend del 1990 per giustificare il rifiuto che
la Chiesa dell'epoca oppose a Galileo, mettendo il relativismo più
estremo al servizio del dogmatismo più estremo). Il relativismo è
diventato il dogma ufficiale, a tal punto che ogni affermazione
minimamente categorica passa per essere "totalitaria". Allo stesso
tempo, il concetto di "rivoluzione" sembra essere passato
definitivamente nel campo della pubblicità e del consumo. Se prima si
cercava di mettere a tacere il pensiero critico, dichiarando che era in
disaccordo con la verità stabilita, ora, al contrario, si cerca di
zittirlo accusandolo di pretendere di esprimere una qualche verità. Il
relativismo ha assunto una funzione di censura analoga a quella
esercitata prima dal dogma. L'idiosincrasia e l'angoscia che le
generazioni precedenti provavano nei confronti del prete che scuoteva
l'aspersorio, verso il militare che marciava al passo o verso il maestro
di scuola che batteva gli alunni, io, che ho conosciuto queste figure
quando erano già al declino, provo la stessa angoscia davanti al
pensiero postmoderno, davanti all'idea che tutto è permesso, che tutto è
ugualmente possibile e legittimo, e pertanto ugualmente privo di valore
e di senso - che è inutile discutere, argomentare, cercare di
convincere o di combattere per qualcosa. Ogni critica sociale, che non
si limiti a criticare alcuni dettagli, ma che intenda denunciare la
società capitalista e insieme aspiri a questo cambiamento radicale che
riassumiamo sotto il nome di "rivoluzione", viene denunciata da alcune
decadi come "totalitaria", ed ogni aspirazione alla coerenza nel
pensiero passa per essere "autoritaria" o arcaica. Così, la rinuncia
alla verità finisce per essere presentata come una pratica di
emancipazione.
Senza dubbio, il nominalismo, sotto forma di empirismo e di
positivismo, è stato il fondamento del pensiero moderno a partire
dall'Illuminismo. Ogni generazione di nominalisti ha trovato che la
generazione precedente era stata ancora troppo poco nominalista - è la
"dialettica dell'Illuminismo" della quale parlavano Adorno e Horkheimer.
Nietzsche ed altri vanno a dare a questo nominalismo un aspetto più
sovversivo. Con la teoria della relatività che la teoria quantica, la
scienza stessa sembrava aver abbandonato un concetto univoco di verità.
Ciò nonostante, è solo dopo il 1968, in quello che è stato chiamato
"nuovo spirito del capitalismo", che questo relativismo arriva nella
vita quotidiana e nella mentalità media, nei metodi educativi e nelle
relazioni familiari. "Niente è vero, tutto è permesso" era, secondo
Nietzsche, il principio supremo del "Vecchio della montagna", il capo
della setta medievale degli "assassini". Guy Debord citava questa
massima come la regola di chi, come lui, non ammetteva niente di ciò che
era socialmente stabilito. Adesso è diventato il principio ufficiale
del mondo. Questo sì che merita di essere chiamato cambiamento!
Infatti, la rappresentazione sociale di questo lavoro astratto è il
denaro e, pertanto, infine, il prezzo: seppure le merci siano
differenti, in quanto oggetti d'uso, in quanto prezzo non conoscono
differenza qualitativa. La merce è quindi relativista per natura, mette
tutto sullo stesso piano, ogni merce può sostituire qualsivoglia altra
merce nello scambio di valore, una bomba equivale ad un sacco di
frumento. Per la merce non c'è niente di sacro da rispettare, nessuna
trascendenza, ed è questa la ragione per cui la critica reazionaria ne
accompagna spesso gli inizi. Si conosce il ruolo avuto dalla logica
mercantile nella dissoluzione delle gerarchie tradizionali, le quali
affermavano sempre di essere i rappresentanti terreni di una verità
trascendente. Storicamente, la mercificazione non si impone nel mondo
tutta in una volta, ma si estende poco a poco a quegli ambiti
considerati fino a prima come aventi un valore "assoluto",
"inviolabile", intraducibile in denaro: nel XVIII secolo, la terra e la
forza lavoro, oggi il genoma, l'acqua potabile o il cervello dei
neonati. Ogni "progresso" della mercificazione del mondo diventa perciò
un passo in avanti nella relativizzazione. Ciò nonostante, le strutture e
le mentalità ereditate dalle formazioni sociali antecedenti, dalla
religione alla famiglia e dall'austerità ai privilegi di classe, hanno
continuato - e continuano a volte ancora oggi - a mescolarsi alla logica
"pura" della merce. Al punto che la critica sociale le considera un
punto centrale del dominio e si impegna fermamente a combattere la loro
pretesa di esprimere certe "verità" indiscutibili. Oggi, la logica pura
della merce, che conosce solamente l'imperativo di aumentare il valore,
regna sempre più sola, anche se questo compromette le sue capacità di
sopravvivenza, oltre a quella degli esseri umani e della natura. Quando
l'unica legge dell'esistenza è la legge di vendere e comprare, qualsiasi
preoccupazione per qualsivoglia verità non è altro che un ostacolo.
Spesso si elogia questa relativizzazione generalizzata perché si
accompagnerebbe al pluralismo, alla tolleranza, alla libertà e
all'individualismo. Nonostante questo, la possibilità apparente di
scegliere pragmaticamente fra diverse opzioni, senza che la legittimità
di tali opzioni possa essere dedotta da una verità trascendente
previamente stabilita, può riferirsi solamente - anche nel migliore dei
casi - alle opzioni che esistono all'interno di un campo che, in quanto
tale, viene messo in discussione meno che mai. Questo campo è, senza
dubbio, quello dell'economia stessa della merce, basata sul lavoro e
sulla sua trasformazione in valore: l'eternità del vendere e comprare,
del denaro e le merci, del mercato e la concorrenza, passa per essere
una verità così ontologica, con un'enorme maiuscola, che non c'è nemmeno
quasi mai bisogno di pronunciarla, o di evocarla, né per difenderla, né
per criticarla apertamente. Passa per essere così evidente, che il
fatto stesso di negarla pone lo scettico fuori da ogni discussione
possibile - come se fosse un eretico, nel Medioevo, che metteva in
discussione, non la natura di Dio, ma la sua esistenza stessa.
Diversamente da quello che è successo negli anni '60 dello scorso
secolo, si discute solamente del modo migliore di gestire il
capitalismo, mai della sua abolizione, ed il ritorno al keynesismo e
alla piena occupazione, condito con un po' di commercio equo e solidale,
qualche tassa ambientale ed una maggior partecipazione del Sud del
pianeta, costituisce l'ipotesi più audace.
Perciò, nessuna rivoluzione! Almeno, se si intende la rivoluzione
come la intendeva Debord alla fine de "La Società dello Spettacolo",
definendola, detournando il giovane Marx, come l'auto-emancipazione della nostra epoca con la "missione storica di instaurare la verità nel mondo".
Il pensiero postmoderno - nelle sue forme decostruttiviste,
post-strutturaliste, ecc. - ha esorcizzato esplicitamente qualsiasi
ricerca di un forte collegamento fra i molteplici fenomeni sociali; tale
ricerca non sarebbe, ai loro occhi, altro che un "essenzialismo",
dunque un "sostanzialismo" o un "naturalismo". Pertanto, il pensiero
postmoderno si presenta come una continuazione dell'Illuminismo e del
suo rifiuto della metafisica in nome del nominalismo. Ma come è già
accaduto per l'Illuminismo originario, anche tutto il pensiero
postmoderno - che si ritiene del tutto disilluso e "laico" - abbandona
solo la metafisica classica a beneficio di una "metafisica reale", cioè a
dire la metafisica del lavoro e del capitale, che domina questo mondo
sublunare. Nella società di mercato, la separazione fra un mondo
sensibile ed un mondo sovrasensibile è scesa dal cielo in terra: secondo
la formula di Marx, la merce, unità di valore d'uso e valore astratto, è
nel contempo sensibile e sovrasensibile. E come nella metafisica, è
questo lato astratto, "sovrasensibile", ad essere essenziale, mentre il
lato concreto, sensibile, ne è solo la forma esterna, il solo substrato
materiale e visibile. Per il platonismo, come per il cristianesimo,
l'uomo di carne ed ossa non è altro che una copia del suo modello
depositato in cielo; per la merce, l'utilità reale della merce ed il
lavoro esistono solo come "forma di rappresentazione" del valore e del
lavoro astratto. Marx riassume questa situazione nel termine di
"feticismo della merce", il quale indica altresì il carattere
surrettiziamente religioso della società moderna. Il feticismo della
merce non è una mistificazione, ma una realtà nella quale l'essere umano
viene governato dagli idoli che egli stesso ha creato. Così, una forma
di verità metafisica, perfino religiosa, costituisce, ancora e sempre,
il tessuto della società. Ma, paradossalmente, la denuncia di questa
metafisica abusiva, oggi viene accusata di essere un "grande racconto"
metafisico. Dunque, un relativismo che è uno pseudo-relativismo che non
mantiene la sua promessa principale, quella di difendere il particolare
contro la totalità, il dettaglio contro l'universale. Difatti, trasforma
questa difesa in qualcosa di estremamente difficoltoso, dal momento che
la totalità non può essere né nominata né criticata e passa per essere
un'invenzione di coloro che la criticano.
La capacità di comprendere la verità potrebbe essere definita come la
capacità di andare oltre le apparenze ed i fenomeni, e di arrivare
all'essenza delle cose. La scomparsa del concetto di "verità" ha preso
la forma di un culto della "finzione", del "discorso", del "simulacro" e
del "virtuale". Tutto si riduce alle costruzioni e alle definizioni e
si nega la differenza fra fenomeno ed essenza. La polemica contro il
concetto di essenza ha sempre caratterizzato il pensiero positivista,
empirista. Il trionfo postmoderno, in questa polemica, è legato
solamente ad un'evoluzione del pensiero? Oppure, al contrario, possiamo
indicare che in realtà c'era una "essenza", che ha cominciato a sparire?
La risposta può essere "sì", se per "essenza" intendiamo "sostanza":
quello che rimane inalterabile dopo le modifiche di superficie, quelle
che riguardano solo ciò che in termini filosofici vengono chiamati
"accidenti". Quale potrebbe essere questa sostanza che è venuta meno?
Possiamo dire che la vita sociale è una "sostanza"? Una sostanza che non
sarebbe il riflesso di una sostanza trascendente, ma che avrebbe la sua
origine nella vita umana stessa? Ogni società deve organizzare la sua
sopravvivenza materiale per mezzo del suo "interscambio organico" con la
natura; ma solo nella società capitalista moderna le attività che
garantiscono questo interscambio con la natura, prendono la forma di
"lavoro": questo non è più rivolto alla soddisfazione delle necessità,
ma, in quanto lavoro astratto, è solo un dispendio di energia umana
indifferente a qualsiasi contenuto. Il suo unico obiettivo è quello di
far crescere la sua quantità, trasformare cento euro in centodue euro.
La produzione di valore d'uso non è altro che una mediazione, la parte
sporca, ma indispensabile, per questo aumento tautologico del valore e,
quindi, del denaro. La "sostanza" del valore e, perciò, quella del
capitale in quanto valore accumulato, è il lavoro astratto che ho prima
menzionato. Il valore d'uso ed il valore concreto che essi hanno creato
non sono altro che "accidenti" multipli e differenziati di quella
sostanza unica ed omologa che è il valore astratto. (Ripeto, non si
tratta di due tipi distinti di lavoro, ma dello stesso lavoro
considerato ora come un risultato concreto, ora in quanto dispendio
indifferenziato di tempo, che ne forma il lato astratto). Non si tratta
di un'operazione mentale, di una maniera di vedere le cose, ma di
un'astrazione ben reale che domina il concreto. Lo vediamo, nella vita
quotidiana, nella supremazia del denaro su tutto il resto. Tuttavia,
questa situazione non è naturale, ontologica o eterna, ma è
caratteristica della società capitalista, e solo di essa. Questa società
in cui continuiamo a vivere, dunque, ha una sostanza, anche se essa non
è altro che la proiezione della potenza sociale sulle creazioni umane
erettesi ad esseri indipendenti: le merci. Questa sostanza costituisce
il feticcio della società moderna, alla stessa maniera in cui gli dei, o
i totem, o la terra, costituivano dei feticci in altre epoche.
Il concetto marxiano di sostanza come proiezione feticista e come
astrazione reale si situa al di là della distinzione tradizionale fra
essere ed apparenza, tra la concezione metafisica della sostanza, come
realtà ontologica e insuperabile, e la sua negazione nominalista che ci
vede solamente un inganno dello spirito, che basterebbe solo riconoscere
come tale per farla scomparire. Questa sostanza viene creata
costantemente dall'attività umana, però sotto una forma spettrale che la
fa sfuggire al controllo umano, facendola apparire come un
auto-movimento delle cose. Ciò nonostante, tale sostanza, proprio perché
è creazione degli uomini, dipende da loro ed ha la particolarità di
poter diminuire. Il sistema capitalista vuole solo l'aumento di questa
sostanza, il valore, e lo fa facendo lavorare il più possibile. Ed anche
così, il sistema capitalista è andato sostituendo, fin dai suoi inizi
ed in maniera crescente, questa "sostanza" che lo fa vivere, con la
tecnologia che non crea valore. La concorrenza spinge ciascun
proprietario di capitale a dotare la forza lavoro che ha comprato, di un
massimo di tecnologia, per produrre il più possibile; sostituendo così
il lavoro vivo con la tecnologia. Ma così facendo, contribuisce a
ridurre l'uso globale del lavoro vivo, che è l'unica fonte di valore (e,
perciò, di plusvalore, cioè a dire, di profitti). Tutta la storia del
capitalismo è la storia di questa caduta della massa di valore (e non
solo del famoso saggio di profitto) e dei conseguenti tentativi di
compensare la diminuzione del valore in ciascuna merce particolare,
mediante l'aumento della massa di merci prodotte. La sostanza del
capitale, il risultato della trasformazione di energia umana nella
categoria sociale del valore, si espone, quindi, ad un esaurimento ad
ogni avanzamento tecnologico. Questo limite interno che il capitale
porta in sé fin dai suoi inizi sembra sia stato raggiunto negli anni
1970. L'abbandono della conversione in oro, da parte del dollaro,
annuncia la fine della "sostanza": a partire da allora, il denaro smette
di essere una rappresentazione della sostanza-lavoro, frutto della
trasformazione riuscita, di lavoro vivo in lavoro morto, cioè a dire in
capitale. Da allora in poi, il denaro si basa esclusivamente sulla
garanzia data dallo Stato. Lo si può aumentare anche in assenza di una
valorizzazione riuscita del lavoro, quindi in assenza di un beneficio
reale; e se questo aumento miracoloso del denaro, sotto forma di una
stampa eccessiva di biglietti di banca, è la causa dell'inflazione, in
quell'epoca, il suo aumento ancora più considerevole sotto forma di
valori borsistici ed immobiliari non sembra aver conosciuto limiti. Fu
l'inizio della famosa finanziarizzazione: il trionfo del credito - dal
momento che non esiste - su una scala mai vista nella storia, la
moltiplicazione del denaro senza che fosse coperto da un'accumulazione
reale del capitale. Quello che Marx chiama "capitale fittizio".
Da alcuni anni, è di gran moda attribuire la responsabilità della
crisi globale del capitalismo alla gigantesca torre di Babele delle
finanze globali, o direttamente ai finanzieri. In realtà, è stato
l'aumento esponenziale delle finanze che ha permesso di differire di
varie decadi, la crisi del sistema del lavoro e del capitale,
nascondendo per mezzo dei crediti, e del denaro fittizio, la sua
mancanza reale di redditività. Se all'inizio degli anni 1970, ad ogni
dollaro "sostanziale" - che rappresenta lavoro realmente effettuato -
corrispondeva più o meno un dollaro fittizio, nel senso di un credito
estratto dal dollaro sostanziale, oggi, secondo varie stime, ad ogni
dollaro sostanziale corrispondono cinque, perfino dieci, dollari
fittizi. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria
"desustanzializzazione" del denaro, diventato una finzione sociale. E
nessuno dice che questo sia un problema unicamente economico: in una
società nella quale, da almeno due secoli, il denaro è diventato il
legame sociale principale, nella quale la soddisfazione di ogni ogni
minimo desiderio passa per il denaro, la sua desustanzializzazione
comporta una sorta di desustanzializzazione di tutta la vita.
La
relativizzazione e la virtualizzazione, la simulazione e la finzione,
tanto deplorate e tanto esaltate nel corso di questi ultimi decenni, non
hanno prodotto un background troppo immaginario, qualcosa che possa
essere ridotto a mero "discorso", o a "rappresentazione". La simulazione
ha funzionato così bene per tutto questo tempo perché tutti gli attori
si tranquillizzavano a vicenda, assicurando che non c'era "verità", che
non c'era "sostanza" e che le simulazioni avevano lo stesso gradi di
realtà delle vecchie realtà. Ora, sembra che la sveglia abbia suonato
... Ma le mentalità, i comportamenti e gli atteggiamenti individuali e
collettivi sono profondamente impregnati della simulazione. Se il
capitalismo nella sua lunga fase ascendente, ha imposto il principio di
realtà contro il principio di piacere, creando così la nevrosi classica
frutto della repressione del desiderio, nella sua fase attuale si è
liberato dei riferimenti alla realtà e alla verità, per soccombere ad un
narcisismo generalizzato, in senso psicoanalitico, che effettivamente
può ancora stimolare un qualche consumo, ma che però renderà ancora più
difficile qualsiasi uscita dal disastro. Tuttavia, la scomparsa della
nozione di verità, anche nella vita quotidiana, facilita di molto quei
comportamenti necessari per adattarsi ad un mondo in mutazione
permanente. Come dice lo psicanalista francese Jean-Claude Liaudet, nel
suo libro "L'impasse narcisista del liberalismo": "Il perverso instaura
uno statuto specifico di fede: io so che non è vero, ma ha tutta l'aria
di esserlo. Una credenza, propria della nevrosi liberale, che si
distingue per la fede in un grande Altro. E che dà alla verità un nuovo
statuto: in un sistema simbolico, la verità è un ideale, ha un carattere
trascendente; nel sistema di negazione della nevrosi liberale, la
verità è sempre relativa, circostanziale, parziale, rivedibile,
addirittura opportunista; e qualsiasi fermo posizionamento a favore di
una verità che si impone su di noi, viene considerato come totalitario.
Di qui, la mentalità postmoderna, imbevuta di un'incertezza fondamentale
che permette ogni cinismo - fino al punto che si potrebbe pensare che è
proprio questo l'obiettivo". Effettivamente, l'indebolimento del
Super-io, di Edipo e dell'ordine simbolico tradizionale, che dovevano
essere tutti vettori di emancipazione, alla fine hanno avuto conseguenze
abbastanza inattese per il progetto di emancipazione.
Ho appena menzionato il concetto di emancipazione. Questo concetto ha
sostituito, in effetti, quasi dovunque, la vecchia idea di rivoluzione.
E' vero che l'emancipazione è un termine così vago che ciascuno può
trovarci quello che vuole. Cosa ne è stato, dunque, nell'epoca della
desustanzializzazione, della rivoluzione nel senso forte, della rottura
violenta dell'ordine esistente, presente dalla Grande Rivoluzione
francese fino alla rivoluzione iraniana del 1979? Attribuire la sua
assenza unicamente al "tradimento degli intellettuali" sarebbe un
spiegazione troppo banale. La rivoluzione moderna è sempre stata
concepita come una rivoluzione di lavoratori, come una liberazione del
lavoro dai suoi sfruttatori. Quelle rivoluzioni non erano contro il
capitalismo, ma lo aiutavano, sovente contro la volontà dei suoi attori,
ad installarsi e ad evolversi nelle diverse regioni del mondo.
L'obiettivo principale del movimento operaio era quello di far lavorare
tutti. Adesso, il lavoro è un elemento secondario dentro l'apparato
produttivo mondiale, ed il suo mantenimento come legame sociale incontra
sempre più difficoltà. "La società del lavoro non lavora più" diceva
Hannah Arendt già nel 1958. Da allora, le possibilità di accedere in
maniera autonoma al mercato mondiale - che era l'obiettivo nascosto
delle rivoluzioni nei paesi arretrati - si è definitivamente dissipato.
Oggi, una rivoluzione in nome del lavoro non è più possibile. Ma,
chiamiamola come più desideriamo, la necessità di una rottura con un
mondo mancante di verità e di sostanza, non è scomparsa. Anche se va
intesa come quel "freno di emergenza" di cui parlava Walter Benjamin.
* Intervento contenuto in "QUÈ SE N’HA FET DE LA VERITAT ? QUÈ SE N’HA FET DE LA REVOLUCIÓ ?" Giornate filosofiche - Barcellona 2010
Renzi: pensavo fosse il premier invece era un calesse di Andrea Scanzi, Il Fatto
Non era Crozza, anche se sembrava. Era quello vero, quello originale. Matteo Renzi in persona. La conferenza di fine anno è stata l’occasione giusta per esaltare la prossemica d’ordinanza: faccette caricaturali, sguardo all’insù tipo Verdone e risatine di chi si crede Lenny Bruce ma pare piuttosto un Panariello
in diesis assai minore. Protetto da domande quasi sempre accomodanti
(mancava solo “Preferisce pandoro o panettone?”), Renzi ha dispensato
una volta di più ottimismo, che come noto è il profumo della vita.
Per l’occasione aveva i capelli scompigliati, quasi a lasciare
intendere che lui di notte non organizza cene eleganti ma si occupa di
massimi sistemi e Norman Atlantic. L’effetto scenico è stato un po’
diverso, al punto che un satirico come Luca Bottura ha
twittato: “Vorrei fare a Renzi la critica politica che lo infastidirà di
più: ha un sacco di capelli bianchi nuovi e non li lava da qualche
giorno”. L’apice politico è stato riassunto in una frase che ha saputo
inebriare le masse: “Voglio cambiare l’umore degli italiani. La parola
del 2015 sarà ritmo”. E tutti, subito, a chiedersi se
ci attenda un anno di merengue, rumba o meneito: è da questi particolari
che si giudica uno statista.
Da questi e dalle supercazzole regalate come fossero grandine
d’estate sulle vigne: “Dobbiamo cambiare il paradigma economico
dell’Europa” (tapioca a destra), “Punire chi sbaglia” (prematurata a
sinistra), “I prossimi 12 mesi saranno decisivi” (come fosse Antani),
“Meglio arroganti che disertori” (con scappellamento tarapìa tapiòco) e
il misericordioso “Se ce la facciamo ha vinto l’Italia, se non ce la
facciamo ho perso io”. Frase, quest’ultima, che ha ispirato su Twitter
la replica greve del comico Pinuccio: “Renzi: ‘Se non
ce la facciamo ho perso io’. Ma ce la prendiamo in culo noi”.
Particolarmente entusiasmante la fenomenologia sui gufi: “Non penso che
l’Italia sia spacciata, come pensano gufi e non solo”. Renzi si è qui
doviziosamente dilungato, con capacità analitica assai puntuta: “Non
voglio lasciare l’Italia a chi parla male dell’Italia”. Renzi ha alfine
risolto il più annoso dei quesiti: sì, ma chi sono esattamente i “gufi”?
Marmorea la risposta: “Gufo è chi parla male dell’Italia, non del
governo”. Amen.
Qua e là, avvincenti Sticazzi-Moments, per esempio quando Renzi ha fatto sapere che adora la serie tivù Newsrooom.
Il Presidente del Consiglio, disgraziatamente, a un certo punto ha
detto la verità: “Mi vanto di avere fatto meno leggi di tutti”. Gli è
uscita come un rigurgito, come un riflusso esofageo mal
trattenuto. Resosi conto dell’inciampo, Renzi ha prontamente
stigmatizzato l’oltraggioso atteggiamento dei siti da lui compunsati
ogni minuto, forse per rubacchiare idee o forse per vedere se il suo
nome era diventato Trending Topic: avevano appena osato
rilanciare che “Renzi si vanta di avere fatto poche leggi”, anche se
lui ovviamente intendeva tutt’altro. Proprio come capitava quando c’era
(e c’è) Silvio. Esortando la plebe ad avere fuducia nel futuro, come lui
stesso ripeteva al predecessore Letta, Renzi ha parlato tanto per dire pochissimo. Quando – per disgrazia – arrivava una domanda appena insidiosa, lui sparacchiava la palla in tribuna.
Fortunatamente le amate citazioni non sono mancate. Nei primi libri
citava i Righeira, nei primi discorsi a Camera e Senato i Jalisse e
Gigliola Cinquetti. Ieri, non potendo scomodare alcuni dei suoi
capisaldi culturali – Jerry Calà, Minnie e Jimmy Il Fenomeno – ha riesumato “Indovina chi”. Roba forte, mai però come l’ardito riferimento filmico: “Mi sento come Al Pacino in Ogni maledetta domenica”.
Una citazione appena consunta e scontata, ma retorica e banalità sono
cifre che il renzismo applica pure al citazionismo. Accadde anche quando
la nota statista Boschi scomodò Fanfani per citare una frase – “Le
bugie non servono in politica” – così debole che sarebbe venuta in mente
anche alla Picierno (forse). E’ stata comunque una conferenza stampa
bellissima. Per certi versi ha ricordato Pensavo fosse amore invece era un calesse. Massimo Troisi, nel film, viene lasciato da Francesca Neri.
Gli amici gli dicono che lei adesso sta con un uomo coraggioso e
bellissimo, dunque non c’è speranza. Troisi non si arrende e scopre che
il rivale è Marco Messeri, non proprio un adone, e di
professione fa il giudice di sedia in gare tra barbieri: non esattamente
un eroe. Quando però Troisi lo fa notare, tutti lo trattano come un
invidioso. Come un rosicone, come un gufo. Ecco: ieri si è nuovamente vissuta questa sensazione di tragicomica sbornia collettiva. E purtroppo Troisi non c’era.
Liguria 2014: Scajola batte Pertini di Ferruccio Sansa, Il fatto quotidiano
Stella’, indica la freccia che punta a sinistra. ‘Palazzo dello sport di Albisola’, quella a destra. È questa che devi seguire, devi andare all’appuntamento elettorale per Raffaella Paita candidata alle primarie liguri per le elezioni regionali Pd. Poche centinaia di metri e ti trovi davanti i manifesti, gli striscioni, i simpatizzanti mezzi congelati. Quell’atmosfera di attesa di tanti incontri elettorali. Eppure tu, con il taccuino e la matita in tasca, senti che stai per assistere a un appuntamento particolare: stasera sarà ufficialmente sdoganata l’alleanza tra il Partito Democratico e il centrodestra scajoliano.
Un’unione di fatto che si conosceva da anni, eppure ti fa un certo effetto vedertela davanti alla luce del sole. Anzi, dei riflettori: eccola Raffaella Paita, con quell’energia un po’ elettrica di chi arriva esausto all’ultimo appuntamento elettorale. Con i toni sicuri, però, di chi sente la vittoria a portata di mano. Accanto a lei c’è Franco Orsi, prima dc, quindi Forza Italia, infine Pdl. A lungo sostenitore doc di Claudio Scajola, ma impegnato anche nelle campagne elettorali di Luigi Grillo (entrambi i leader liguri del centrodestra sono stati arrestati quest’anno). Il curriculum perfetto. Ma non è solo Orsi. C’è mezzo centrodestra savonese sugli spalti, consiglieri comunali Pdl seduti accanto a vecchi militanti Pci. C’è il capogruppo del Pd indagato per lo scandalo dei rimborsi di soldi pubblici a pochi passi dall’ex esponente di centrodestra diventato assessore regionale di centrosinistra.
Tutti a sostenere Paita. Certo, sono mesi che il centrodestra scajoliano sta salendo sul carro Pd. Prima Pierluigi Vinai, già candidato sindaco di Genova con il Pdl e il sostegno della Curia di Bagnasco. Poi ecco Roberto Avogadro, ex sindaco di Alassio (centrodestra) che sostiene Paita. Ma erano solo i primi frammenti di una valanga. Pochi giorni fa arriva un sostenitore che suscita clamore. Quell’Alessio Saso, oggi Ncd, così definito dagli stessi vertici Pd: “Oltre a essere un ex esponente di An, Saso è indagato (voto di scambio, ndr) nell’inchiesta Maglio 3 sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel ponente ligure”.
Ma oggi è diverso. Orsi è un pezzo grosso in grado di spostare centinaia di voti. Perché con sé porta i suoi uomini. Soprattutto, però, tutto avviene ufficialmente. È una vera e propria alleanza. Orsi lo sa che l’occasione è importante e delicata, dovrà pesare le parole, dovrà convincere: “Sono qui senza imbarazzi”, esordisce, “gli schieramenti si stanno rivoluzionando. Ormai è difficile pensare in termini di appartenenza. La politica e gli schieramenti non sono un fine”. Poi tocca al sindaco di Varazze (Pd), che aiuta a capire che cosa abbia cementato la Santa Alleanza: “La politica deve uscire dai partiti, sentire persone fuori dai partiti… con questa maggioranza di centrosinistra abbiamo avuto rapporti ottimi, ci hanno ascoltato, hanno risolto i nostri problemi, ci hanno dato tanti soldi”. Più chiaro di così…
Infine ecco la candidata con il tono di chi si sente vicina al traguardo. Gli scajoliani imbarcati nella sua compagine? “Ridicolo”, preferisce parlare di “alleanza tra centrosinistra e centro moderato”. Poi aggiunge: “Criticano me per questo, e non ricordano che Scajola ha pubblicamente dichiarato che preferirebbe il mio avversario Sergio Cofferati”. Di male in peggio, verrebbe da dire. Chissà se l’affermazione di Scajola era sincera o se rispondeva, come pensa qualcuno, a una sottile strategia.
Poco importa. Dopo oltre mezzo secolo è successo: un patto di Albisola, dopo quello del Nazareno. A Roma Renzi e Berlusconi. In Liguria burlandiani ed ex scajoliani (pidiellini, leghisti, duri e non sempre puri di destra). Dopo decenni una rivoluzione copernicana nella politica ligure. Sì, nella terra dei partigiani, delle Medaglie d’Oro alla Resistenza. Nella Liguria operaia e comunista.
Tutto finito. Te ne accorgi perché nel Palazzetto dello Sport una buona parte della folla numerosa applaude e amen se le primarie (e quindi l’esito finale delle elezioni) saranno decise dagli ex luogotenenti di Scajola. Te ne accorgi dal silenzio del Pd ligure. Molti tacciono, sembrano spariti nel nulla per riemergere a giochi fatti. Altri, che in privato scagliano invettive di fuoco contro Paita e i suoi nuovi amici scajoliani, in pubblico si fanno timidi come pulcini.
Allora esci dal Palazzetto dello Sport e ritorni a quel bivio: ‘Stella’, indica la freccia a sinistra. Proprio a sinistra. E dopo una manciata di chilometri arrivi in un paese mezzo deserto, davanti a una casa grigia, squadrata. Qui visse Sandro Pertini, il presidente della Repubblica partigiano. Chissà che cosa ne direbbe.
Ma stasera, 29 dicembre 2014, forse è meglio che non ci sia.
Papadimoulis: «Un voto per cambiare tutta l’Europa»
Intervista. Il vicepresidente del Parlamento europeo, capogruppo degli europarlamentari di Syriza: nella Ue vogliamo essere uno Stato membro paritario con pieni diritti, come gli altri
Syriza vincerà le elezioni per cambiare la Grecia e l’Europa, sostiene convinto il vicepresidente del Parlamento Europeo Dimitris Papadimoulis, che si prepara per dare battaglia elettorale e rompere il cerchio dell’austerità in Europa. Papadimoulis crede che la vittoria di Syriza offrirà una grande possibilità alla Grecia e ai paesi della Ue colpiti dalla crisi per cambiare gli equilibri in Europa. Dimitris Papadimoulis, è vicepresidente del Parlamento europeo, capogruppo degli europarlamentari di Syriza, con una lunga esperienza anche nel parlamento greco, dove è stato portavoce di Syriza. Proviene dai giovani dei comunisti democratici del Partito Comunista Greco e ha rappresentato per anni Synaspismos nel parlamento greco e nel Parlamento Europeo fino alla nascita di Syriza, di cui è diventato uno dei suoi più noti esponenti.
Come valutate il risultato della terza votazione?
Era quanto avevamo previsto. La sfida ora è di andare alle elezioni con una vera contrapposizione politica tra i programmi e i progetti per il futuro del paese. Senza il mercatino della paura e l’allarmismo, senza un clima politico da guerra civile, perché tutto questa provoca danni al paese e la sua economia. Noi abbiamo lavorato sempre per unire le forze democratiche e il nostro popolo. Non vogliamo divisioni. Il governo è stato costretto ad accelerare per l’elezione del presidente della repubblica perché altrimenti doveva far votare un altro pacchetto di misure di austerità. Sapevano molto bene che dopo le tre votazioni in parlamento dovevamo andare alle urne. E loro sanno bene che perderanno le elezioni. Per Syriza si presenta una vera sfida per cambiare il nostro Paese e non solo. Per questo serve una grande alleanza elettorale con un programma realistico, efficiente e pragmatico. Syriza è coerente con tutto quanto ha detto e fatto. Non fa alleanze occasionali. Gli ultimi anni abbiamo visto di tutto, Nuova Democrazia e Pasok governare insieme, un primo ministro venuto dalle banche senza nessuna legittimità e una pioggia di Memorandum e decreti fuori da ogni legittimità democratica e parlamentare.
Syriza rappresenta un pericolo per l’Europa?
L’obiettivo principale del nostro programma è far diventare la Grecia uno stato membro paritario con pieni diritti dentro l’Unione Europea e dentro l’eurozona. Un paese dove ci sarà in vigore lo stato di diritto e la giustizia sociale, con una crescita economica senza questa atroce disoccupazione e la galoppante recessione. Il programma di Syriza è pieno di proposte per cambiare la situazione, pieno di proposte per vere riforme. Il governo uscente ricorre ad un allarmismo pericoloso. È inevitabile che perderanno le elezioni. Le potevano perdere con dignità e senza cercare di fare ulteriore danno al nostro paese.
Le nostre proposte potranno aiutare l’Europa a rialzarsi in piedi, perché dobbiamo risolvere la questione del debito. Ora in tanti ammettono che la sola proposta possibile è la Conferenza Europea per il debito. Quando l’avevamo presentata sembrava che avevamo proposto la fine del mondo. L’unica proposta credibile per salvare l’Europa dal baratro è la nostra. Il voto dei greci sarà anche un voto per salvare l’Europa e risolverà parte dei problemi di tutti i paesi del Sud Europa compresa l’Italia.
Le nostre proposte potranno aiutare l’Europa a rialzarsi in piedi, perché dobbiamo risolvere la questione del debito. Ora in tanti ammettono che la sola proposta possibile è la Conferenza Europea per il debito. Quando l’avevamo presentata sembrava che avevamo proposto la fine del mondo. L’unica proposta credibile per salvare l’Europa dal baratro è la nostra. Il voto dei greci sarà anche un voto per salvare l’Europa e risolverà parte dei problemi di tutti i paesi del Sud Europa compresa l’Italia.
I
sondaggi dicono che Syriza vincerà le elezioni. Che dirà il giorno dopo all’Unione Europea?
Il governo che avrà come asse principale Syriza si muoverà per cercare risposte efficienti e realistiche a livello europeo, lato debito e politica fiscale. Vogliamo mettere ordine nelle nostre finanze e vedere la nostra economia tornare a crescere. Obbiettivi impossibili da raggiungere quando il debito pubblico vola al 180% del Pil. In tutti i paesi europei che si sono applicate le misure di austerità sono aumentati i debiti e si è distrutta l’economia. Abbiamo bisogno di far ripartire la nostra economia e per questo servono investimenti pubblici. Per questo il patto di stabilità rappresenta un cappio al collo dei popolo europei.
Il precedente governo era impegnato ad avere un surplus che doveva arrivare al 4,5% in media per i prossimi anni. Ma per avere un surplus di queste dimensioni in questa drammatica situazione significherebbe di distruggere completamente la nostra società. Dobbiamo liberarci da queste imposizioni e trovare il modo di creare lavoro vero e ben remunerato, ridistribuire la ricchezza e lavorare per la coesione sociale della nostra società. Anche questi non sono solo problemi della Grecia ma di tanti altri paesi europei.
Il precedente governo era impegnato ad avere un surplus che doveva arrivare al 4,5% in media per i prossimi anni. Ma per avere un surplus di queste dimensioni in questa drammatica situazione significherebbe di distruggere completamente la nostra società. Dobbiamo liberarci da queste imposizioni e trovare il modo di creare lavoro vero e ben remunerato, ridistribuire la ricchezza e lavorare per la coesione sociale della nostra società. Anche questi non sono solo problemi della Grecia ma di tanti altri paesi europei.
Lei è anche vicepresidente del Parlamento europeo. Crede che una vittoria di Syriza può avviare un cambiamento in Europa tanto nei singoli paesi quando nelle istituzioni europee?
Durante la campagna per le elezioni europee abbiamo visto un grandissimo interesse da parte dell’opinione progressista europea per la situazione in Grecia e la vittoria di Syriza nelle elezioni europee. Con Syriza à nata una grande speranza e noi abbiamo il compito di far diventare questa speranza una concreta realtà per cambiare le condizioni di vita dei nostri cittadini.
Come valutate la mobilitazione di tanti italiani a favore di Syriza o perlomeno del diritto del popolo greco di scegliere liberamente il suo governo senza le pressioni e i ricatti?
Durante la campagna per le elezioni europee abbiamo visto un grandissimo interesse da parte dell’opinione progressista europea per la situazione in Grecia e la vittoria di Syriza nelle elezioni europee. Con Syriza à nata una grande speranza e noi abbiamo il compito di far diventare questa speranza una concreta realtà per cambiare le condizioni di vita dei nostri cittadini.
Come valutate la mobilitazione di tanti italiani a favore di Syriza o perlomeno del diritto del popolo greco di scegliere liberamente il suo governo senza le pressioni e i ricatti?
Hanno visto giusto tutti quelli che hanno firmato l’appello «Cambiar la Grecia — Cambiare l’Europa», perché hanno una concezione globale per la dinamica della crisi e una visione solidale per risolvere i problemi dentro l’Unione Europea. Rappresentano tra l’altro una gran parte delle forze migliori dell’Italia. A molti di noi ha onorato il sostegno dei cittadini italiani, di scrittori come Andrea Camileri o medici come Gino Strada. Questo ha molto significato per un paese in piena crisi umanitaria e con una parte della sua popolazione senza nessuna assistenza sanitaria grazie alle politiche di austerità. Siamo contenti che tante persone che lavorano al manifesto, come la sua direttrice, Norma Rangeri, abbiano firmato l’appello.
In Syriza, dall’inizio, abbiamo detto che non lasceremo nessuno solo nella crisi. Noi abbiamo il compito di unire tutto quanto viene diviso da queste drammatiche politiche di austerità. E cerchiamo di farlo nel modo migliore, con la solidarietà a livello nazionale e a livello internazionale. Solo così potremo ricostruire l’Europa con i suoi popoli. ll leader di Podemos Pablo Iglesias ha detto recentemente, e ha ragione, che le elezioni in Spagna alla fine dell’anno partiranno dalla Grecia.
In Syriza, dall’inizio, abbiamo detto che non lasceremo nessuno solo nella crisi. Noi abbiamo il compito di unire tutto quanto viene diviso da queste drammatiche politiche di austerità. E cerchiamo di farlo nel modo migliore, con la solidarietà a livello nazionale e a livello internazionale. Solo così potremo ricostruire l’Europa con i suoi popoli. ll leader di Podemos Pablo Iglesias ha detto recentemente, e ha ragione, che le elezioni in Spagna alla fine dell’anno partiranno dalla Grecia.
lunedì 29 dicembre 2014
Geostrategia, petrolio, economia a pezzi di Alessandro Fugnoli
Sapere come vedono le cose i finanzieri, in un mondo
finanziarizzato, ha la sua dannata importanza. Questa ricostruzione
della recente "guerra del prezzo del petrolio", dell'intreccio tra
ambizioni statunitensi, resistenza russa, mosse saudite è decisamente
fuori tono rispetto alla propaganda dei quotidiani mainstream, ormai
ridotti al ruolo di "fabbricanti di nemici".
Non sorprendentemente, secondo noi, nella visione del mondo dei
finanzieri non ci sono "demoni", "mali assoluti" e mostri d'ogni tipo.
Ma solo agenti economico-politici con interessi razionali, consapevoli
dei reciproci rapporti di forza e delle finestre di opportunità che ogni
piccola crisi - all'interno di quella generale del modo di produzione
capitalistico, per cui non hanno nessuna ricetta vera - inevitabilmente
apre.
Interessante quindi anche per chi, a sinistra, non ne può più di
ragionare per "complotti" e sente il bisogno di fondare le proprie
personali considerazioni su basi un po' più realistiche.
*****
Mercati: la geopolitica ritorna prepotente sulla scena
di Alessandro Fugnoli, Il Rosso e il Nero, Settimanale di strategia (Kairos Partner)
È andata così, forse. Il petrolio era da
tempo strutturalmente debole. Stava a 100 dollari perché il mercato
spot, quello delle transazioni fisiche per consegna immediata, era
ancora in equilibrio. Non c’erano, e non ci sono nemmeno adesso,
quantità rilevanti di offerta invenduta. Non c’era, cioè, un accumulo
abnorme di greggio nei magazzini di Singapore, Rotterdam o Houston.
Quello che c’era, e ora c’è un po’ meno, era una quantità
eccezionalmente elevata di petrolio che si preannunciava in arrivo per i
prossimi mesi e anni. Lo shale oil americano e canadese in continua
accelerazione, il Kurdistan diventato padrone delle sue risorse, la
Libia che riprende a produrre, l’Iraq che galleggia sul greggio
(nonostante l’Isis, che in ogni caso si finanzia con il petrolio delle
zone che controlla e quindi produce più che può). Di poco più distanti,
il petrolio e il gas delle acque profonde del Golfo di Guinea e al largo
del Brasile e della costa orientale africana, una produzione potenziale
molto ampia. E poi il Messico che riapre ai privati ed è pronto ad
aumentare la sua produzione. E l’Argentina. E l’Iran a un passo dalla
revoca delle sanzioni. E, sullo sfondo, l’Artico russo e la Groenlandia.
E in più la concorrenza crescente del carbone, talmente abbondante che
molti paesi, l’America tra questi, ne boicottano in tutti i modi la
crescita. Quella del gas naturale, sempre più disponibile non solo negli
Stati Uniti ma anche in Russia e in Australia. Quella delle
rinnovabili, passate di moda ideologicamente ma comunque in espansione. E
perfino quella del nucleare dalle nove vite, in via di clamoroso
rilancio in Giappone e in forte espansione in Cina, in India e nella
stessa Arabia Saudita. I teorici del Peak Oil, che ebbero il loro ultimo
momento di gloria nel 2008, non avevano sbagliato anno nella loro
previsione di una crisi energetica incombente e fatale per la nostra
civiltà. Avevano probabilmente sbagliato secolo.
Per non parlare della domanda. Sempre in
crescita nei paesi emergenti, certo, ma stabilizzata e in strutturale
declino in Europa e in America.
Meglio agire subito, deve avere pensato
l’Arabia Saudita. Meglio buttare giù violentemente il prezzo adesso,
prima che sia troppo tardi. Meglio convincere tutti che buona parte
degli investimenti programmati nell’energia per i prossimi anni si
riveleranno fallimentari o comunque antieconomici. Tagliate i vostri
programmi finché siete in tempo. Liquidate le vostre società che
estraggono gas o petrolio, restituite il capitale agli azionisti o
dedicatevi ad altre attività. Questo shock, accolto all’inizio con
incredulità e sufficienza da molti produttori, ha dovuto essere violento
e dovrà essere prolungato per risultare convincente. Finché ci sarà,
come c’è ancora, l’idea che i prezzi del greggio si riprenderanno
presto, nessuno cancellerà i suoi progetti (e la ripresa dei prezzi sarà
solo temporanea).
Ad accelerare la decisione saudita ci
sono state anche considerazioni strategiche di natura geopolitica. La
casa di Saud è consapevole della sua fragilità e vive nel costante
terrore di essere estromessa dal potere da un militare nasserista,
qaidista o legato alla Fratellanza Musulmana o all’Isis. Teme anche
rivolte fomentate dall’Iran dei suoi cittadini sciiti. Il caos yemenita è
del resto un monito costante per Riyadh. L’idea di un’America troppo
autosufficiente nell’energia e quindi sempre più indifferente ai destini
del Medio Oriente (e sempre più vicina all’Iran) proprio nel momento in
cui l’Isis consolida il suo potere e pianifica di espanderlo verso sud è
ancora più preoccupante della debolezza strutturale del greggio. Visti
dalla Casa Bianca, il panico saudita e il crollo del greggio sono stati
vissuti come un’opportunità da sfruttare. Da una parte la possibilità di
infliggere un colpo durissimo alla Russia, di tenersi definitivamente
l’Ucraina, di eliminare il chavismo dal Venezuela e dall’America Latina,
di ammorbidire ulteriormente l’Iran, di confermarsi iperpotenza, di
chiudere la presidenza Obama con la benzina a metà prezzo e una ripresa
dei consumi e della fiducia. Dall’altra, come prezzo da pagare, un
rallentamento dell’espansione nell’estrazione di gas e petrolio non
convenzionali (e un altro colpo al carbone) negli Stati Uniti.
Rallentamento che va a colpire solo stati repubblicani e avvantaggia,
con il gasolio da riscaldamento a basso prezzo, soprattutto stati
democratici. Rallentamento che comunque non compromette l’espansione
inarrestabile del settore energetico americano.
La Russia è la grande vittima di quello
che sta accadendo. L’America, nei giorni scorsi, ha accarezzato l’idea
di fare saltare Putin e di fare tornare la Russia ai tempi di Eltsin,
quando era inoffensiva e in bancarotta. Putin ha agito in modo
razionale, arretrando significativamente ma tracciando una linea da non
superare. Senza troppo clamore ha congelato la situazione militare in
Ucraina e fatto arretrare le forze filorusse. Sul piano più importante,
quello politico, ha cercato di presentare la Russia non come un
antagonista dell’Occidente ma come un mediatore. Non vogliamo, ha detto
Lavrov a Kerry, essere per forza un alleato della Siria, dell’Iran, di
Hizbullah e del Venezuela, vogliamo solo essere un mediatore tra questi e
gli Stati Uniti. Anche sull’Ucraina ci proponiamo in questo ruolo e,
dopo la Crimea, non vogliamo annettere più niente. Chiediamo solo che la
Nato non entri nel paese e un po’ di autonomia per i russofoni.
D’incanto la pressione occidentale si è
arrestata. La campagna sul default russo imminente e sulla disperata e
controproducente difesa del rublo è cessata. Putin si lecca le ferite ma
è ancora in piedi. Spingere la Russia nel precipizio, per l’Occidente,
avrebbe significato un’onda d’urto di ritorno fatta di vero default
russo e recessione europea. Ancora peggio, al posto di Putin sarebbe
potuto arrivare un nazionalista o un militare pronto a sfoggiare, nella
disperazione, il suo arsenale nucleare. Natale tranquillo, dunque, con
l’ulteriore conforto, per i mercati, di un buffo e aggrovigliato
comunicato del Fomc che si sforza di non dire nulla di nuovo ma lo fa
con un tono gentile e premuroso. Terremo le mani libere, è il senso, ma
sappiate che siamo sempre con voi. Ci si stava cominciando a preoccupare
per la Grecia, ma l’arrivo della crisi russa ha ridimensionato, agli
occhi dei mercati, il previsto flop di Samaras nella prima votazione per
il presidente della repubblica.
Per ora si fa festa. Il 29 dicembre, il
giorno dell’ultima e decisiva votazione greca, appare lontano. L’Europa
sta scendendo in campo con grande pesantezza per spaventare gli elettori
greci. Non vi faremo nessuno sconto, lasceremo fallire le vostre
banche, perderete i vostri depositi come è successo a Cipro. E sarete
anche isolati, nessuno piangerà per voi, Italia e Francia non faranno
asse con Tsipras. L’Europa ha rinunciato a farsi amare e punta al farsi
temere, cosa che spesso funziona di più.
Sul Qe europeo, l’opposizione di
Weidmann si fa sempre più stizzita e sfiora l’isteria. Non va presa alla
lettera, ma rende più probabile, in gennaio, un Qe composto da
corporate bond che rinvii a marzo la parte sui governativi. Il 2015 si
preannuncia movimentato, ma non così tanto da rovinare ulteriormente
l’atmosfera di fine anno.
In difesa si perde sempre di Alessandro Gilioli
In un’intervista a Federico Fubini di ‘Repubblica’, l’economista
renziano Yoram Gutgeld anticipa la fase due: «Per ora non potevamo, ma
l’anno prossimo vogliamo affrontare una legge di rappresentanza
sindacale che permetta alle aziende di facilitare i negoziati di secondo
livello. È fondamentale che un’azienda in crescita possa offrire di più
ai suoi lavoratori». E – chiede Fubini – che una in crisi possa
offrire di meno? «Anche, se serve a evitare i licenziamenti», risponde
Gutgeld.
Et voila: questo accade, quando si gioca solo in difesa,
quindi si prendono gol. Appena ne ha segnato uno, la squadra avversaria
vuole farne subito un altro. Sicché, ottenuto il licenziamento facile,
si parte verso lo svuotamento dei contratti nazionali: agli imprenditori
più furbetti o avidi – non pochi, purtroppo, in Italia – non costerà
fatica dirottare liquidità in qualche altra azienda o semplicemente
altrove, piangere miseria e ottenere stipendi più bassi.
Il tutto in un Paese, uno dei pochi in Occidente, dove non esiste una
legge che stabilisca la paga minima oraria: quindi l’asticella del
salario potrà nel caso essere abbassata indefinitamente verso il
pochissimo, sempre con l’alibi del “sennò dobbiamo licenziare”.
Questo accade, dicevo, quando si gioca solo in difesa. Quando ci si
trincera a difendere pezzetti e pezzettini, “abbiamo evitato danni
peggiori”, “abbiamo fatto passare un buon emendamento”, “abbiamo votato
la legge altrimenti arrivava la Troika”.
Chissà se sono balle in cattiva fede o è stupidità congenita, antica attitudine alla mediazione al ribasso.
Di fronte al Jobs Act – lo capisce anche un ragazzino – la battaglia
non andava condotta per “migliorarlo”, per “temperarlo”, ma spostando
tutto il dibattito (politico, mediatico, parlamentare) su un altro
piano: reddito minimo garantito universale, diritto alla
riqualificazione professionale gratuita, salario orario minimo,
introduzione del reato di molestie morali e di pressioni psicologiche di
qualunque dirigente verso un sottoposto in qualsiasi organizzazione
aziendale (unico deterrente al nuovo clima che da domani respireranno i
dipendenti assunti con i nuovi contratti), norme severe contro i falsi
tirocini e i falsi stage (lo sapete che il giorno di Natale, nella
profumeria della stazione Termini, lavorava una ragazza con il
cartellino con il nome di battesimo e la qualifica “stagista”? il giorno
di Natale?). E molto altro, naturalmente: per esempio tasse di
successione, che le nostre sono tra le più basse del mondo, e pure se da
una riforma di tipo vagamente scandinavo si incassassero solo poche
decine di milioni l’anno sarebbe comunque un bel segnale in
controtendenza.
Ciccia.
Abbiamo la destra economica più vorace d’Europa: Sacconi, Ichino,
Gutgeld. E la sinistra più incapace di risponderle. Sul piano culturale e
politico, quindi anche su quello di mobilitazione delle persone, qua
fuori. Persone che su temi come garanzie universali, salario orario
minimo, diritto al rispetto dei subalterni nei rapporti di lavoro e
proibizione delle forme più estreme di sfruttamento si sentirebbero con
ogni probabilità molto più coinvolte rispetto al triste e perdente gioco
in difesa per rendere un po’ meno violento il Jobs Act.
L’anno del Cazzaro di Alessandra Daniele, Carmillaonline
Matteo Renzi è davvero come uno smartphone: dopo neanche un anno la batteria è già bollita.
Il reale bilancio del suo governo è identico a quelli dei precedenti governi Monti e Letta: meno lavoro, più tasse.
Tutto il resto è solo facciata.
Solo una pericolante catasta di promesse sempre più assurde e scadenze sempre più distanti, come le Olimpiadi del 2024 (!), una penosa sceneggiata fatta di slogan da televendita di frullaminchiate, pose ridicole da capoclasse, e battute da terza elementare su gufi, gattopardi, coccodrilli, canguri, sciacalli, liocorni, e facce da serpente.
Matteo Renzi è un cazzaro, e neanche uno dei migliori.
È il mago Casanova della politica italiana, ed è arrivato alla sconocchiata poltrona che occupa solo perché in tempi di crisi a chi gestisce davvero il potere politico-economico non interessa più occuparla direttamente, e preferisce piazzarci un prestanome, o meglio un prestaculo che ci si bruci le chiappe al suo posto.
Gli italiani si sono stancati presto della sobrietà, per tenerli buoni l’esangue Letta andava sostituito con qualcuno che ricominciasse a raccontargli le loro balle preferite: meno tasse per tutti, il Senato è un doppione, l’Italia è un grande paese, possiamo farcela se solo diamo agli imprenditori la possibilità di cacciare i fannulloni e assumere TE.
Contrapposte dai media alle quartine millenariste di Casaleggio, le slide renziane sono sembrate a molti italiani persino moderne.
Napolitano ha gestito da Camerlengo il turnover Letta – Renzi come aveva fatto coi due precedenti.
Questa è la funzione rimasta al presidente della repubblica nell’Italia post-democratica commissariata dall’UE: garantire che a prescindere dal risultato delle elezioni, e dei congressi dei partiti, il governo conseguente continui comunque a seguire le direttive BCE.
Infatti per il successore di Napolitano si fa il nome di Padoan, ministro dell’Economia, e resta in ballo anche quello di Prodi, nonostante ai berlusconiani faccia lo stesso effetto che fa il nome di Frau Blücher ai cavalli.
Il dopo-Napolitano potrebbe però diventare il dopo-Renzi.
Il Piccolo Cazzaro Fiorentino non s’è arrampicato in cima da solo come narra la leggenda, c’è stato installato come una batteria di ricambio, che dopo neanche un anno è già bollita.
L’anno del Cazzaro è agli sgoccioli. La mezzanotte s’avvicina.
Cosa succederà ai renziani quando il carro del vincitore sul quale sono saltati si ri-trasformerà in una zucca?
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