Il mio Utopie letali
(Jaca Book) è un libro contro i post (postmoderno, postindustriale,
postfordismo, postcoloniale, postmarxista, postmateriale, postoperaista,
eccetera). È possibile essere contro i post senza essere nostalgici?
Un’accusa che piove immediatamente su chiunque torni a utilizzare le
categorie “classiche” del marxismo, come socialismo, comunismo, lotta e
coscienza di classe, eccetera. Quello che cerco di fare è smontare la
logica del post “dall’interno”, operazione che mi viene naturale forse
perché appartengo alla terza generazione operaista (la prima era quella
dei Panzieri, dei Tronti e dei Negri, che fondarono “Quaderni rossi” fra
la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, la seconda quella
dei loro allievi fra la seconda metà dei sessanta e l’inizio dei
settanta, della terza facevamo parte Cristian Marazzi, Bifo, io e molti
altri, maturati intellettualmente e politicamente nei settanta). Il
rapporto al tempo stesso di continuità e di rottura con questa
tradizione (ne ho vissuto in prima persona la tragica fine, sancita dal
disastroso passaggio d’epoca fra fine anni settanta e inizio ottanta) mi
ha permesso di prendere distanza da un pensiero che, nato come
innovazione teorica rivoluzionaria, si è maliconamente degradato in
quella esangue italian theory che manda oggi in visibilio gli accademici francesi e americani.
Il primo operaismo seppe rompere con il marxismo dogmatico, fondato
su un’interpretazione nazional popolare del pensiero di Gramsci,
sostituendolo con uno sguardo attuale e penetrante sul corpo vivo della
classe operaia.
Era gente capace di sviluppare un rapporto diretto, immediato con le
nuove generazioni di operai che in quegli anni arrivavano da Sud e
andavano a ingrossare le fila dell’operaio massa, postfordista, che fu
protagonista di un ciclo di lotte durato vent’anni, un ciclo che aveva
assunto natura antagonistica: aumenti uguali per tutti, riduzione di
orari e ritmi di lavoro senza tenere conto delle compatibilità
economiche. Era un atteggiamento di rottura totale, benché non
teorizzato (non era associato a un progetto politico rivoluzionario
consapevole). Gli operaisti si vivevano come intellettuali organici ai
quali spettava il compito di stare dentro questa rottura per favorirne
uno sviluppo ulteriore, un salto di qualità verso un’alternativa
sistemica che andasse aldilà dei miglioramenti delle condizioni
immediate di lavoro e di vita. Questa spinta è durata, fra alti e bassi,
fin quasi alla fine dei settanta. Ma nel frattempo l’originale
intuizione teorico-politica dell’operaismo andava perdendosi.
All’ispirazione di Panzieri, fermamente ancorato al corpo e alle
pratiche della classe, subentravano le filosofie politiche di Tronti e
Negri, una coppia che, pur marciando in direzioni opposte (il primo
rientrerà nel Pci mentre l’altro fonderà l’Autonomia Operaia)
condivideva una vocazione “metafisica”: l’apologia negriana
dell’immanenza (sempre più vicina a Spinoza, Deleuze e Foucault) contro
l’apologia trontiana della trascendenza (con radici in Machiavelli e
Schmitt) entrambe in allontamento dal monismo materialista di Marx.
In Utopie letali
cerco di oppormi a questa duplice torsione metafisica: tanto
l’immanenza che attribuisce alla spontaneità della classe l’autonoma
capacità di rovesciare il dominio del capitale, quanto la trascendenza,
che affida tale compito all’autonomia del politico, si fondavano sulla
ipostatizzazione di un momento storico, condividevano cioè la convizione
che fosse la classe operaia a determinare lo sviluppo del capitale, il
lavoro vivo a determinare il lavoro morto, e non viceversa. L’idea
comune è che il capitale si sviluppa solo per rispondere all’attacco
operaio, altrimenti morirebbe di morte naturale. Così le lotte operaie
spingono il capitale verso l’innovazione e le riforme, ma, al tempo
stesso, incarnano la sua fine.
La storia ha dimostrato l’inconsistenza di questo paradigma. Il
contrattacco capitalistico degli ultimi trent’anni è stato in grado di
produrre una nuova soggettività operaia totalmente subordinata al
capitale. La frammentazione del corpo di classe attraverso la
ristrutturazione tecnologica, la distruzione del welfare,
l’atomizzazione dei soggetti sociali, la colonizzazione della società e
delle forme di vita a opera del rapporto di produzione capitalistico
sono lì a dimostrarlo. Questo vuol dire che non bisogna più parlare di
classe bensì di moltitudini, di vita messa al lavoro, come sostiene Toni
Negri? È vero che che oggi tutti noi lavoriamo gratuitamente per il
solo fatto di connetterci in rete, che produciamo la materia prima di un
processo di valorizzazione completamente nuovo che si basa sulla
manipolazione dell’informazione, incarnato da imprese come Amazon,
Google e Facebook. La subordinazione al capitale passa sempre meno dal
corpo, dalla catena di montaggio, e sempre più dalla mente disciplinata
dal software. Le tecnologie digitali trasmettono cultura, visioni del
mondo, decidono per noi che cosa possiamo o non possiamo fare, informano
di sé la nostra coscienza, non tanto perché, come ci ha spiegato Edgar
Snowden, sono strumenti micidiali di controllo, ma perché sono molto più
invasive dei vecchi media, frantumano le coscienze, le
individualizzano, producono atomi sociali privi di identità collettiva.
Ma allora perché parlare ancora di classe? Perché la classe non è
questione di pura coscienza, è vera e propria “sostanza” sociale, è
comunità di destino che attraversa le generazioni. Oggi ai giovani viene
fatto credere di poter essere imprenditori di se stessi, di potere
autoimpiegarsi. Così li si addestra a pensare che sono lavoratori
“autonomi”, soggetti di una “nuova economia” che nasce dal basso
sfruttando le opportunità delle nuove tecnologie. Ma la verità sta nella
cruda realtà dei dati analizzati da un economista – che per inciso non è
affatto marxista – come Thomas Piketty, il quale ha dimostrato che
dalla fine dell’Ottocento a oggi esiste una sostanziale continuità del
tasso di concentrazione e distribuzione della ricchezza: hanno ragione –
anche se lo slogan è ideologicamente rozzo – i militanti di Occupy Wall
Street che si scagliano contro il dominio dei super ricchi dell’1% che
sfruttano il 99%.
Effetto della finanziarizzazione dell’economia, si dice, della
transizione a un’economia post-industriale. In realtà la finanza è
un’industria capitalistica come tutte le altre, dove si investe per fare
profitto, con la differenza che il profitto lo si fa attraverso la
formula marxiana D-D’ – con il denaro che produce altro denaro, senza
passare per la produzione di merci con i suoi rischi. La grande utopia
del capitale è che si possano espandere all’infinito i profitti senza
dipendere dal lavoro. Invece, come ha dimostrato la crisi iniziata nel
2007, il capitale continua ancora a dipendere dai poveri, che nel
frattempo ha trasformato da lavoratori in debitori: le imprese “troppo
grandi per fallire” vengono infatti salvate dallo stato, cioè dai
contribuenti, i poveri finanziano i ricchi, come ha ben spiegato Luciano
Gallino nei suoi libri.
Forse le classi esistono ancora, ma che dire della lotta di classe?
Anche la lotta di classe è un fenomeno sostanziale, oggettivo, radicato
nella realtà dei corpi. È vero che il conflitto di classe oggi è assai
meno visibile, soprattutto nei suoi luoghi storici, come l’Europa e gli
Stati Uniti (anche se in America stanno ripartendo grandi lotte nei
settori della logistica, della grande distribuzione e della
ristorazione). Altrove, e in particolare qui da noi, il controllo sembra
totale, a eccezione di qualche isola di conflitto. Un controllo
garantito da una sinistra che svolge la funzione che un tempo era
appannaggio della destra. Un controllo che non riguarda solo la
conflittualità economico sindacale ma si manifesta con riforme
istituzionali che configurano l’avvento di un regime postdemocratico
(questo è l’unico post che abbia senso). Da tempo viviamo in un contesto
politico neo ottocentesco dove l’unica partecipazione democratica
consentita è quella elettorale (peraltro sempre più svuotata di
significato). Poco importa chi vince le elezioni, visto che la politica
economica non la decidono più i governi, ma le élite dei super ricchi di
cui sopra. La natura oligarchica dei regimi sotto cui viviamo è sempre
più evidente: basti pensare che negli Usa quasi la metà degli eletti fa
parte dell’1% dei super ricchi (anche perché, nell’era della
personalizzazione e della mediatizzazione della politica, occorrono
investimenti milionari per essere eletti).
La lotta di classe sembra godere di miglior salute nei paesi in via
di sviluppo come la Cina, dove gli scioperi si sono moltiplicati per
mille negli ultimi anni. Questo accade perché sta nascendo una nuova
classe operaia cinese fatta soprattutto di immigrati interni dalla
campagna alla città. Sono operai giovani che sommano le caratteristiche
dei nostri operai meridionali degli anni sessanta a quelle dei
lavoratori clandestini che invadono oggi le nostre città (in Cina i
migranti interni non godono del diritto di soggiorno e devono vivere nei
compound delle imprese, dove vengono sottoposti a ritmi di lavoro
simili a quelli dell’accumulazione primitiva inglese). Notizie
interessanti ci arrivano anche dall’America Latina. È forse esagerato
definire i regimi post neoliberisti – o populisti di sinistra come
qualcuno preferisce chiamarli – socialismi del XXI secolo (l’estate
scorsa ho condotto una ricerca in Ecuador e posso garantire che non vi
ho trovato traccia di socialismo), ma è vero che in alcuni di questi
paesi i movimenti hanno imposto l’approvazione di costituzioni
fortemente progressive e innovative. Anche se andrebbe ricordato che non
è con le costituzioni che si rovescia il dominio di classe, ma con la
lotta rivolzionaria. L’esperimento più interessante è forse quello
boliviano dove è nato un partito di tipo nuovo, il Mas, che federa una
pluralità di movimenti politici e strati sociali e ne rappresenta gli
interessi attraverso forme di trattativa permanente che tendono
letteralmente a “occupare” le istituzioni statali, modificandone
dall’interno il funzionamento. Credo che sarebbe sbagliato assumere
questa esperienza come un modello, ciò non toglie che siamo di fronte a
una esperienza interessante, che assume il conflitto sociale
istituzionalizzato come fonte della decisione politica.
Essendo un vecchio comunista consiliare (la mia idea di comunismo si
ispira alle esperienze storiche della Comune di Parigi, dei soviet russi
prima della bolscevizzazione, dei consigli degli operai e dei soldati
tedeschi della rivoluzione del 1919) guardo con simpatia e interesse a
questo esperimento. Così come guardo con simpatia e interesse a
quell’esperienza straordinaria che è il movimento dei piqueteros e delle fabricas recuperadas in
Argentina. Oggi queste fabbriche sono più di trecento e chi vi lavora
non vuol sentir parlare di fabbriche occupate perché, in questo caso,
contrariamente a quanto è generalmente avvenuto nella tradizione del
movimento operaio, gli operai, dopo avere impedito ai padroni di portare
via le macchine, hanno deciso di portare avanti la produzione
autogestendola. Ciò è stato possibile grazie alla benevola neutralità
dei governi populisti di sinistra dei Kirchner, marito e moglie, e
all’appoggio di alcune amministrazioni locali che hanno espropriato le
imprese dandole in gestione agli operai, i quali le hanno
successivamente trasformate in cooperative (l’unica forma giuridica che
consenta di stabilizzare la loro situazione). Il movimento è cominciato
nel 2001 e tredici anni dopo regge ancora, sostenuto da una rete che
opera attraverso scambi incrociati di materie prime, semilavorati, know
how e forza lavoro. Una sorta di microsocialismo sostenuto dalla
solidarietà dei movimenti dei piqueteros e dei cacerolazos,
nonché dalla popolazione dei quartieri in cui sorgono le fabbriche,
memori delle esperienze di economie locali alternative nate dopo la
crisi del 2000-2001.
Queste storie mi aiutano a introdurre un altro argomento che ho
affrontato nei miei lavori: io sono convinto che mentre il capitale è
globale, le classi subordinate e le loro lotte siano irrimediabilmente
locali. Il che comporta che non è possibile configurare un unico modello
universale di società postcapitalista. Pur considerandomi un
neomarxista, c’è una tesi di Marx che non condivido più: mi riferisco
alla tesi espressa nel celebre “frammento sulle macchine” dei Grundrisse,
secondo la quale, arrivati a un certo livello di sviluppo delle forze
produttive, sarà la stessa necessità storica immanente (è in ragione di
questo principio di immanenza che Negri predilige questo testo marxiano)
al modo di produzione a indurre la transizione al comunismo. Ebbene io
sono convinto che il capitale non cadrà mai da solo, che, finché non
sarà rovesciato da un progetto politico consapevole (anzi da una
pluralità di progetti), il capitale continuerà a dominare. La sua
egemonia è schiacciante e non solo perché fondata sul consumismo di
massa: il fatto è che oggi il consumo è produttivo, che circolazione e
consumo sono parte integrante del processo di valorizazione. Per questo
noi tutti siamo – per lo meno in senso oggettivo e astratto, se non in
termini di coscienza – classe operaia. Negri e soci dicono che il
capitalismo immateriale produce soggettività: è vero, solo che non
produce soggettività antagonista bensì soggettività immediatamente
integrata/subordinata nel suo ciclo di valorizzazione.
Come si attacca questa formidabile capacità egemonica che penetra in
profondità nei corpi e nelle menti? Seguendo le faglie di rottura
spaziotemporali che ne interrompono la superficie apparentemente liscia e
inscalfibile. Queste faglie di rottura, come ho sostenuto poco sopra,
sono locali e contingenti: il difficile lavoro di politicizzazione dei
conflitti deve necessariamente partire dai contesti di vita, così come
deve sapere identificare la composizione politica del proletariato
globale che, a sua volta, non è un corpo omogeneo bensì una sostanza
complessa, attraversata da infinte faglie di rottura.
Proibito confondere composizione tecnica e composizione politica di
classe. In Cina, davanti ai negozi della Apple, esattamente come avviene
in Occidente, ci sono file interminabili di persone in attesa della
messa in vendita dell’ultimo modello di iPhone; persone che se ne
fregano dei loro fratelli che producono quei gadget al prezzo di ritmi
di lavoro disumani in fabbriche come la Foxconn. Tra questi due strati
di classe c’è antagonismo. Le “classi medie” che oggi stanno crescendo
di numero nei Paesi in via di sviluppo sono avversari di coloro che
producono le merci e i servizi che esse consumano, esattamente come
l’aristocrazia operaia di cui parlava Lenin era avversaria degli operai
comuni che lottavano contro il dominio del capitale. Non siamo in
conflitto solo con l’1% dei super ricchi (altrimenti li avremmo già
spazzati via), ma con quel 35-40% della popolazione convinta di potersi
sedere al tavolo del banchetto dei super ricchi. È quasi sempre “da
sotto” che si innescano le motivazioni al conflitto, non necessariamente
(anzi assai raramente) si tratta di motivazioni anti-sistema, ma se ci
si lavora possono diventare tali. Si parte dai corpi in sofferenza, dai
luoghi dove i nuovi schiavi lavorano diciotto ore al giorno, dove la
polizia nera spara addosso ai minatori sudafricani. Si parte dai levantamientos dei
campesindios (i contadini di etnia india) che hanno rovesciato i
governi neoliberisti andini. Anche se poi le classi medie urbane, in
barba alle bellissime costituzioni approvate dei paesi andini, hanno
fregato i movimenti indigeni dopo averli cavalcati. Si parte dal popolo
della Val di Susa che da quindici anni resiste alla militarizzazione del
territorio e all’ennesimo progetto di stupro ai danni dell’ambiente in
cui vive.
Localismo, mancanza di visione storica, abbandono dell’utopia
universale e della prospettiva internazionalista? Se mai sarà possibile
ricostituire non dico una Internazionale (visti gli esiti, meglio
rinunciarvi a priori) ma efficaci forme di coordinamento internazionale
fra movimenti antagonisti, ciò potrà avvenire solo a conclusione di un
lungo e faticoso lavoro di costruzione dei “pezzi” da montare in un
nuovo progetto di aggregazione federativa. Quanto all’utopia, non
condivido più da tempo l’igenuo immaginario sul comunismo come paradiso
in terra, fine dei conflitti. Esistono (esisteranno sempre) conflitti
irriducibili al conflitto di classe, come il conflitto di genere o il
conflitto fra tradizioni culturali e religiose. Superare il dominio
capitalistico potrà aiutarci a ricondurli a una logica di convivenza
agonistica fra differenze “ontologiche”, ed è per questo che resto
convinto della necessità di preservare la natura irriducibilmente
“locale” (in senso geografico, culturale, ideologico, etnico, di genere,
eccetera) delle soggettività in lotta, pur senza rinunciare a
organizzarle in un fronte comune contro il capitale
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