domenica 27 settembre 2015

UN SECOLO DI VITA


UN SECOLO DI VITA
  di Luciana Castellina - 30 marzo 2015

Ricordo ancora niti­da­mente la prima volta che cele­brai un com­pleanno di Pie­tro Ingrao: era il 1965, lui com­piva cinquant’anni (un’età che mi parve avan­za­tis­sima) ed era mezzo secolo fa. Con San­dro Curzi, ambe­due non da molto usciti dalla irre­quieta Fede­ra­zione Gio­va­nile, gli rega­lammo il suo primo paio di mocas­sini, con una dedica che lo sol­le­ci­tava ad essere meno pru­dente: «Cam­mina coi tempi, cam­mina con noi».
Lo ricordo bene per­ché era­vamo in piena bat­ta­glia «ingra­iana», pro­prio alla vigi­lia del fati­dico XI con­gresso del Pci, quando i com­pa­gni che si rico­no­sce­vano nelle sue idee (non una cor­rente, per carità), usci­rono un po’ più allo sco­perto per soste­nerle; e lui stesso operò quella che fu defi­nita una ine­dita rot­tura. Disse con chia­rezza nel suo inter­vento con­gres­suale: «Sarei insin­cero se tacessi che il com­pa­gno Longo non mi ha per­suaso rifiu­tando di intro­durre nella vita del nostro par­tito il nuovo costume di una pub­bli­cità del dibat­tito, cosic­ché siano chiari a tutti i com­pa­gni non solo gli orien­ta­menti e le deci­sioni che pre­val­gono e tutti impe­gnano ma anche il pro­cesso dia­let­tico di cui sono il risultato».
Fu, come è noto, applau­di­tis­simo, ma tut­ta­via suc­ces­si­va­mente emar­gi­nato dal ver­tice del par­tito e «rele­gato» (allora Bot­te­ghe Oscure con­tava più di Mon­te­ci­to­rio) alla pre­si­denza del gruppo par­la­men­tare e poi della Camera dei Depu­tati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene per­ché in fondo fu allora che comin­ciò la sto­ria de «il mani­fe­sto», che pure vide la luce solo quat­tro anni più tardi. Senza Pie­tro, che come sem­pre nella sua vita ha fatto pre­va­lere sulle sue scelte poli­ti­che la pre­oc­cu­pa­zione di non abban­do­nare il «gorgo», quello entro cui si adden­sava il popolo comu­ni­sta. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sen­tire pro­fondo di tutto il par­tito, il timore di sacri­fi­care l’opinione col­let­tiva alla pro­pria indi­vi­duale.
Noi del mani­fe­sto alla fine lo facemmo, ma anche per­ché le nostre respon­sa­bi­lità nel Pci erano infi­ni­ta­mente minori e dun­que il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse con­se­guenze di quello di Ingrao. Ma non cre­diate che sia stato facile nep­pure per noi, fu anzi una scelta molto molto sof­ferta e tal­volta è capi­tato anche decenni dopo di inter­ro­garsi se non avremmo dovuto restare a com­bat­tere den­tro anzi­ché met­terci nelle con­di­zioni di essere messi fuori.
(Per favore non rea­gite, voi gio­vani, dicendo: ma che tempi, non si poteva nep­pure dichia­rare un dis­senso! È vero, non era bello. E però le opi­nioni nono­stante tutto pesa­vano più di adesso, la nostra radia­zione fu un trauma per tutto il par­tito. Ora si può dire di tutto, ma per­ché non conta più niente).
Oggi Pie­tro Ingrao di anni ne com­pie 100, e noi de il mani­fe­sto, se con­tiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smar­rito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i gio­vani della reda­zione del gior­nale c’è ancora qual­cuno che sa di cosa si sia trat­tato. Non fu, badate, solo una bat­ta­glia per la demo­cra­tiz­za­zione del par­tito, il famoso diritto al dis­senso. C’era molto di più: si è trat­tato del ten­ta­tivo più serio del pen­siero comu­ni­sta di fare i conti con il capi­ta­li­smo nei suoi punti più alti, di indi­vi­duare le nuove, moderne con­trad­di­zioni e su que­ste — più che su quelle anti­che dell’Italietta rurale — far leva, non per «inse­guire mille rivoli riven­di­ca­tivi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di svi­luppo alternativo.
Si trat­tava della rot­tura con l’idea di uno svi­luppo lineare, col mito della «moder­nità acri­tica», che fu alla base della cul­tura neo­ca­pi­ta­li­sta (e cra­xiana) di que­gli anni. E, ancora, il ten­ta­tivo di capire che la crisi ita­liana non rap­pre­sen­tava una ano­ma­lia (un vizio tutt’ora dif­fuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capi­ta­li­smo avan­zato quale si stava svi­lup­pando nel mondo.
Dal giu­di­zio sulla fase discen­de­vano due diverse linee stra­te­gi­che e per que­sto il con­fronto non fu solo teo­rico, ma stret­ta­mente intrec­ciato con il che fare poli­tico: se biso­gnava agire per ren­dere l’Italia «nor­male», e cioè alli­nearla alla moder­nità euro­pea, o invece inci­dere su quel nesso anche per risol­vere i vec­chi pro­blemi e pre­pa­rare un’alternativa anche alla «nor­ma­lità» capitalistica.
La destra del Pci ovvia­mente si oppose a que­sta pro­spet­tiva. Quando il Pci, dopo la Bolo­gnina, fu avviato allo scio­gli­mento, pro­prio su que­sta neces­sa­ria inno­va­zione costruimmo — que­sta volta uffi­cial­mente assieme a Pie­tro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liqui­da­zione del par­tito si oppo­neva. Non in nome della con­ser­va­zione ma, al con­tra­rio, del cam­bia­mento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le raf­for­zava. Le vec­chie cate­go­rie non basta­vano più e Ingrao è sem­pre stato attento a non ripe­tere lita­nie ma a indi­vi­duare ogni volta le poten­zia­lità nuove offerte dallo svi­luppo sto­rico, i sog­getti anta­go­ni­sti, a capire come si for­mano e si aggre­gano per diven­tare classe diri­gente in grado di pro­spet­tare una società alter­na­tiva. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibat­tito degli anni 60 — che trovò poi una siste­ma­zione nel 1970 pro­prio nelle «Tesi per il comu­ni­smo» del Mani­fe­sto (che non dis­sero che il comu­ni­smo era maturo nel senso di immi­nente, come qual­cuno equi­vocò — e iro­nizzò -, ma che non sarebbe stato più pos­si­bile dare solu­zione ai pro­blemi posti dalla crisi nel qua­dro del sistema capi­ta­li­stico sia pure ammodernato).
Que­sto fu l’XI con­gresso del Pci, quello spar­tiac­que delle cui emo­zioni, pas­sioni, sof­fe­renze Pie­tro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo cen­te­simo anno di vita avrei forse dovuto par­lare di Pie­tro Ingrao ricor­dan­done di più i suoi aspetti umani, la sua per­so­na­lità, il modo come ha dipa­nato la sua esi­stenza, e non invece andar subito dritta al noc­ciolo poli­tico della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: per­ché troppo spesso ormai nel cele­brare gli anni­ver­sari si tende a ridurre tutto ai tratti del carat­tere di chi si ricorda, alle sue qua­lità morali, e sem­pre meno a riflet­tere sulle loro scelte poli­ti­che. E poi per­ché Pie­tro in par­ti­co­lare, invec­chiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sini­stra ita­liana — ha finito per ricor­darsi sot­to­tono, per­sino con qual­che vezzo civet­tuolo, più come poeta che come diri­gente poli­tico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pen­sare al suo modo di espri­mersi, mai poli­ti­chese, sem­pre attento a illu­mi­nare l’immaginazione e non a ripe­tere cate­chi­smi. Vi ricor­date la sua sor­pren­dente uscita nell’intervento al primo dei due con­gressi di scio­gli­mento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo cla­mo­roso «viventi non umani», per chie­dere atten­zione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poe­sia, che come tale suonò, del resto, in quel gri­gio e mesto dibat­tito di fine partita?
Pie­tro non usava il poli­ti­chese per­ché ascol­tava. Sem­bra banale, ma quasi nes­suno ascolta. E sic­come ascol­tava è stato anche ascol­tato da gene­ra­zioni assai più gio­vani, quelle che dei nostri dibat­titi all’XI con­gresso del Pci, e del Pci stesso, non sape­vano niente. Penso al Forum sociale euro­peo di Firenze nel 2002, per esem­pio, dove il suo discorso sulla pace con­qui­stò ragazzi che non sape­vano nep­pure chi fosse.
Ascol­tava per­ché della demo­cra­zia ha sem­pre sot­to­li­neato un ele­mento ormai in disuso, soprat­tutto il pro­ta­go­ni­smo delle masse, la partecipazione.
Può sem­brare curioso, ma molto del pen­siero poli­tico di Ingrao è stato segnato dalla sua ado­le­scen­ziale for­ma­zione cine­ma­to­gra­fica. Nei molti anni in cui per via del mio inca­rico nella pro­mo­zione del cinema ita­liano ho avuto con i big di Hol­ly­wood molti incon­tri e spesso la discus­sione sci­vo­lava sull’Italia e sul come era stato pos­si­bile che ci fos­sero tanti comu­ni­sti. Un po’ scher­zando e un po’ sul serio ho sem­pre finito per ricor­rere ad un para­dosso: «Badate — dicevo — il comu­ni­smo ita­liano è così spe­ciale per­ché oltre­ché a Mosca ha le sue radici qui a Hol­ly­wood, che dun­que ne porta le respon­sa­bi­lità». E poi rac­con­tavo loro la sto­ria, tante volte sen­tita da Pie­tro, della for­ma­zione di un pezzo non secon­da­rio di quello che poi diventò il gruppo diri­gente del Pci nel dopo­guerra: Mario Ali­cata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai ver­tici sul par­tito ave­vano avuto una for­tis­sima influenza, Visconti, Liz­zani, De San­tis. Tutti allievi del Cen­tro spe­ri­men­tale di cinematografia.
Rac­con­tavo loro, dun­que, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua gene­ra­zione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo pro­prio nel cinema. E, segna­ta­mente, nel grande cinema — e nella let­te­ra­tura — ame­ri­cani del New Deal, tor­tuo­sa­mente cono­sciuti pro­prio al Cen­tro gra­zie a una for­tuita cir­co­stanza: l’arrivo, come inse­gnante, di un sin­go­lare per­so­nag­gio, Ahr­n­heim, ebreo tede­sco sfug­gito al nazi­smo e chissà come appro­dato pro­prio lì, prima che le leggi raz­ziali fos­sero intro­dotte anche in Italia.
«Pro­prio quelle pel­li­cole — mi disse Pie­tro in occa­sione di un’intervista (per il set­ti­ma­nale Pace e guerra che allora diri­gevo) su una impor­tante mostra alle­stita a Milano sugli anni ’30 — mostra­vano cari­che di socia­lità, in cui c’era la classe ope­raia, la soli­da­rietà sociale, la lotta. Pro­prio gra­zie a quei film, che erano mezzi di comu­ni­ca­zione fra i movi­menti sociali e l’americano qua­lun­que, così diversi dalla cul­tura anti­fa­sci­sta ita­liana degli anni ’20 — eli­ta­ria, erme­tica — che ave­vamo amato, ma non ci aveva aiu­tato; pro­prio quei film che ci apri­vano una fine­stra sull’intellettuale impe­gnato, noi ci siamo poli­ti­ciz­zati. Sono stati il primo passo verso la poli­tica».
Que­sto nesso fra cul­tura e poli­tica è stato un tratto che ha distinto il comu­ni­smo ita­liano. E Pie­tro Ingrao ne è stato uno dei più signi­fi­ca­tivi interpreti.
Gra­zie e tanti auguri, Pietro.

dallo speciale de il manifesto  del 31 marzo 2015
UN SECOLO DI VITA
di Luciana Castellina - 30 marzo 2015

Ricordo ancora niti­da­mente la prima volta che cele­brai un com­pleanno di Pie­tro Ingrao: era il 1965, lui com­piva cinquant’anni (un’età che mi parve avan­za­tis­sima) ed era mezzo secolo fa. Con San­dro Curzi, ambe­due non da molto usciti dalla irre­quieta Fede­ra­zione Gio­va­nile, gli rega­lammo il suo primo paio di mocas­sini, con una dedica che lo sol­le­ci­tava ad essere meno pru­dente: «Cam­mina coi tempi, cam­mina con noi».
Lo ricordo bene per­ché era­vamo in piena bat­ta­glia «ingra­iana», pro­prio alla vigi­lia del fati­dico XI con­gresso del Pci, quando i com­pa­gni che si rico­no­sce­vano nelle sue idee (non una cor­rente, per carità), usci­rono un po’ più allo sco­perto per soste­nerle; e lui stesso operò quella che fu defi­nita una ine­dita rot­tura. Disse con chia­rezza nel suo inter­vento con­gres­suale: «Sarei insin­cero se tacessi che il com­pa­gno Longo non mi ha per­suaso rifiu­tando di intro­durre nella vita del nostro par­tito il nuovo costume di una pub­bli­cità del dibat­tito, cosic­ché siano chiari a tutti i com­pa­gni non solo gli orien­ta­menti e le deci­sioni che pre­val­gono e tutti impe­gnano ma anche il pro­cesso dia­let­tico di cui sono il risultato».
Fu, come è noto, applau­di­tis­simo, ma tut­ta­via suc­ces­si­va­mente emar­gi­nato dal ver­tice del par­tito e «rele­gato» (allora Bot­te­ghe Oscure con­tava più di Mon­te­ci­to­rio) alla pre­si­denza del gruppo par­la­men­tare e poi della Camera dei Depu­tati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene per­ché in fondo fu allora che comin­ciò la sto­ria de «il mani­fe­sto», che pure vide la luce solo quat­tro anni più tardi. Senza Pie­tro, che come sem­pre nella sua vita ha fatto pre­va­lere sulle sue scelte poli­ti­che la pre­oc­cu­pa­zione di non abban­do­nare il «gorgo», quello entro cui si adden­sava il popolo comu­ni­sta. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sen­tire pro­fondo di tutto il par­tito, il timore di sacri­fi­care l’opinione col­let­tiva alla pro­pria indi­vi­duale.
Noi del mani­fe­sto alla fine lo facemmo, ma anche per­ché le nostre respon­sa­bi­lità nel Pci erano infi­ni­ta­mente minori e dun­que il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse con­se­guenze di quello di Ingrao. Ma non cre­diate che sia stato facile nep­pure per noi, fu anzi una scelta molto molto sof­ferta e tal­volta è capi­tato anche decenni dopo di inter­ro­garsi se non avremmo dovuto restare a com­bat­tere den­tro anzi­ché met­terci nelle con­di­zioni di essere messi fuori.
(Per favore non rea­gite, voi gio­vani, dicendo: ma che tempi, non si poteva nep­pure dichia­rare un dis­senso! È vero, non era bello. E però le opi­nioni nono­stante tutto pesa­vano più di adesso, la nostra radia­zione fu un trauma per tutto il par­tito. Ora si può dire di tutto, ma per­ché non conta più niente).
Oggi Pie­tro Ingrao di anni ne com­pie 100, e noi de il mani­fe­sto, se con­tiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smar­rito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i gio­vani della reda­zione del gior­nale c’è ancora qual­cuno che sa di cosa si sia trat­tato. Non fu, badate, solo una bat­ta­glia per la demo­cra­tiz­za­zione del par­tito, il famoso diritto al dis­senso. C’era molto di più: si è trat­tato del ten­ta­tivo più serio del pen­siero comu­ni­sta di fare i conti con il capi­ta­li­smo nei suoi punti più alti, di indi­vi­duare le nuove, moderne con­trad­di­zioni e su que­ste — più che su quelle anti­che dell’Italietta rurale — far leva, non per «inse­guire mille rivoli riven­di­ca­tivi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di svi­luppo alternativo.
Si trat­tava della rot­tura con l’idea di uno svi­luppo lineare, col mito della «moder­nità acri­tica», che fu alla base della cul­tura neo­ca­pi­ta­li­sta (e cra­xiana) di que­gli anni. E, ancora, il ten­ta­tivo di capire che la crisi ita­liana non rap­pre­sen­tava una ano­ma­lia (un vizio tutt’ora dif­fuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capi­ta­li­smo avan­zato quale si stava svi­lup­pando nel mondo.
Dal giu­di­zio sulla fase discen­de­vano due diverse linee stra­te­gi­che e per que­sto il con­fronto non fu solo teo­rico, ma stret­ta­mente intrec­ciato con il che fare poli­tico: se biso­gnava agire per ren­dere l’Italia «nor­male», e cioè alli­nearla alla moder­nità euro­pea, o invece inci­dere su quel nesso anche per risol­vere i vec­chi pro­blemi e pre­pa­rare un’alternativa anche alla «nor­ma­lità» capitalistica.
La destra del Pci ovvia­mente si oppose a que­sta pro­spet­tiva. Quando il Pci, dopo la Bolo­gnina, fu avviato allo scio­gli­mento, pro­prio su que­sta neces­sa­ria inno­va­zione costruimmo — que­sta volta uffi­cial­mente assieme a Pie­tro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liqui­da­zione del par­tito si oppo­neva. Non in nome della con­ser­va­zione ma, al con­tra­rio, del cam­bia­mento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le raf­for­zava. Le vec­chie cate­go­rie non basta­vano più e Ingrao è sem­pre stato attento a non ripe­tere lita­nie ma a indi­vi­duare ogni volta le poten­zia­lità nuove offerte dallo svi­luppo sto­rico, i sog­getti anta­go­ni­sti, a capire come si for­mano e si aggre­gano per diven­tare classe diri­gente in grado di pro­spet­tare una società alter­na­tiva. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibat­tito degli anni 60 — che trovò poi una siste­ma­zione nel 1970 pro­prio nelle «Tesi per il comu­ni­smo» del Mani­fe­sto (che non dis­sero che il comu­ni­smo era maturo nel senso di immi­nente, come qual­cuno equi­vocò — e iro­nizzò -, ma che non sarebbe stato più pos­si­bile dare solu­zione ai pro­blemi posti dalla crisi nel qua­dro del sistema capi­ta­li­stico sia pure ammodernato).
Que­sto fu l’XI con­gresso del Pci, quello spar­tiac­que delle cui emo­zioni, pas­sioni, sof­fe­renze Pie­tro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo cen­te­simo anno di vita avrei forse dovuto par­lare di Pie­tro Ingrao ricor­dan­done di più i suoi aspetti umani, la sua per­so­na­lità, il modo come ha dipa­nato la sua esi­stenza, e non invece andar subito dritta al noc­ciolo poli­tico della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: per­ché troppo spesso ormai nel cele­brare gli anni­ver­sari si tende a ridurre tutto ai tratti del carat­tere di chi si ricorda, alle sue qua­lità morali, e sem­pre meno a riflet­tere sulle loro scelte poli­ti­che. E poi per­ché Pie­tro in par­ti­co­lare, invec­chiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sini­stra ita­liana — ha finito per ricor­darsi sot­to­tono, per­sino con qual­che vezzo civet­tuolo, più come poeta che come diri­gente poli­tico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pen­sare al suo modo di espri­mersi, mai poli­ti­chese, sem­pre attento a illu­mi­nare l’immaginazione e non a ripe­tere cate­chi­smi. Vi ricor­date la sua sor­pren­dente uscita nell’intervento al primo dei due con­gressi di scio­gli­mento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo cla­mo­roso «viventi non umani», per chie­dere atten­zione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poe­sia, che come tale suonò, del resto, in quel gri­gio e mesto dibat­tito di fine partita?
Pie­tro non usava il poli­ti­chese per­ché ascol­tava. Sem­bra banale, ma quasi nes­suno ascolta. E sic­come ascol­tava è stato anche ascol­tato da gene­ra­zioni assai più gio­vani, quelle che dei nostri dibat­titi all’XI con­gresso del Pci, e del Pci stesso, non sape­vano niente. Penso al Forum sociale euro­peo di Firenze nel 2002, per esem­pio, dove il suo discorso sulla pace con­qui­stò ragazzi che non sape­vano nep­pure chi fosse.
Ascol­tava per­ché della demo­cra­zia ha sem­pre sot­to­li­neato un ele­mento ormai in disuso, soprat­tutto il pro­ta­go­ni­smo delle masse, la partecipazione.
Può sem­brare curioso, ma molto del pen­siero poli­tico di Ingrao è stato segnato dalla sua ado­le­scen­ziale for­ma­zione cine­ma­to­gra­fica. Nei molti anni in cui per via del mio inca­rico nella pro­mo­zione del cinema ita­liano ho avuto con i big di Hol­ly­wood molti incon­tri e spesso la discus­sione sci­vo­lava sull’Italia e sul come era stato pos­si­bile che ci fos­sero tanti comu­ni­sti. Un po’ scher­zando e un po’ sul serio ho sem­pre finito per ricor­rere ad un para­dosso: «Badate — dicevo — il comu­ni­smo ita­liano è così spe­ciale per­ché oltre­ché a Mosca ha le sue radici qui a Hol­ly­wood, che dun­que ne porta le respon­sa­bi­lità». E poi rac­con­tavo loro la sto­ria, tante volte sen­tita da Pie­tro, della for­ma­zione di un pezzo non secon­da­rio di quello che poi diventò il gruppo diri­gente del Pci nel dopo­guerra: Mario Ali­cata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai ver­tici sul par­tito ave­vano avuto una for­tis­sima influenza, Visconti, Liz­zani, De San­tis. Tutti allievi del Cen­tro spe­ri­men­tale di cinematografia.
Rac­con­tavo loro, dun­que, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua gene­ra­zione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo pro­prio nel cinema. E, segna­ta­mente, nel grande cinema — e nella let­te­ra­tura — ame­ri­cani del New Deal, tor­tuo­sa­mente cono­sciuti pro­prio al Cen­tro gra­zie a una for­tuita cir­co­stanza: l’arrivo, come inse­gnante, di un sin­go­lare per­so­nag­gio, Ahr­n­heim, ebreo tede­sco sfug­gito al nazi­smo e chissà come appro­dato pro­prio lì, prima che le leggi raz­ziali fos­sero intro­dotte anche in Italia.
«Pro­prio quelle pel­li­cole — mi disse Pie­tro in occa­sione di un’intervista (per il set­ti­ma­nale Pace e guerra che allora diri­gevo) su una impor­tante mostra alle­stita a Milano sugli anni ’30 — mostra­vano cari­che di socia­lità, in cui c’era la classe ope­raia, la soli­da­rietà sociale, la lotta. Pro­prio gra­zie a quei film, che erano mezzi di comu­ni­ca­zione fra i movi­menti sociali e l’americano qua­lun­que, così diversi dalla cul­tura anti­fa­sci­sta ita­liana degli anni ’20 — eli­ta­ria, erme­tica — che ave­vamo amato, ma non ci aveva aiu­tato; pro­prio quei film che ci apri­vano una fine­stra sull’intellettuale impe­gnato, noi ci siamo poli­ti­ciz­zati. Sono stati il primo passo verso la poli­tica».
Que­sto nesso fra cul­tura e poli­tica è stato un tratto che ha distinto il comu­ni­smo ita­liano. E Pie­tro Ingrao ne è stato uno dei più signi­fi­ca­tivi interpreti.
Gra­zie e tanti auguri, Pietro.

dallo speciale de il manifesto (che è anche tuo, riprenditelo !) del 31 marzo 2015
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