sabato 30 gennaio 2016

Il trasformismo e il Partito della Nazione

Il partito non si lascia, anche se ha lasciato te.
Il partito non si lascia, nemmeno se fa il contrario di quanto aveva promesso – e fatto firmare agli elettori – in campagna elettorale.
Il partito non si lascia, nemmeno se fa le cose che il partito aveva contestato aspramente quando le faceva un altro partito.
Il partito non si lascia, anche se ti costringe a votare – in aula e al referendum – pessime riforme che non condividi.
Il partito non si lascia, anche se fa il plebiscito che a te non piace per niente.
Il partito non si lascia, nemmeno a Roma, dove commissario e notaio sono le due nuove figure politiche, che sostituiscono un sindaco eletto dai cittadini.
Il partito non si lascia, anche se ha distrutto il centrosinistra, dando la colpa agli altri (a chi, non si capisce, visto che decide uno solo, con il suo gruppo di amici).
Il partito non si lascia, nemmeno se il segretario assoluto ti «asfalta» e ti riduce a un non senso politico.
Il partito non si lascia, anche se ha già fatto patti e accordi che dichiari irricevibili.
Il partito non si lascia, perché non conviene.
Il partito non si lascia, perché non si sa mai.
Il partito non si lascia, perché poi magari cade un governo che ha fatto una non-riforma elettorale tipo Porcellum, ha attaccato diritti ritenuti fondamentali, ha perso consenso tra gli insegnanti, non ha sistemato i pensionati, ha fatto cose contrarie al buon senso (tipo elevare il livello del contante e tolto la tassa sulla casa dei benestanti, senza avere vere coperture per farlo, oltretutto), così il governo va avanti a fare lo stesso tipo di cose.
Il partito non si lascia, perché non si lascia il partito.
Anche se è cambiato, anche se governa con la destra, anche si allea con la destra, anche se ingloba la destra, anche se si trasforma in destra.
Il partito non si lascia, o forse sì: basterebbe un po’ di sincerità, verso se stessi, verso gli elettori, che magari lo hanno lasciato già.

Fonte: Possibile

venerdì 29 gennaio 2016

L’estate del 1964 (o giù di lì e oltre) – parte 3 di Sandro Moiso


bonasia 2 Don’t think twice, it’s alright
(Bob Dylan)

Oggi le manifestazioni, prima e durante gi eventuali incidenti di piazza, sono rumorose. A tratti isteriche. Mentre di quegli anni ricordo le facce tese, i timori, il silenzio.
Silenzio interrotto dalle sirene, dai botti dei lacrimogeni, delle molotov, degli spari di qualche agente e dagli ordini impartiti. Dall’una e dall’altra parte.
Lo scalpiccio sulla strada durante la rincorsa per l’assalto o la fuga.
Ai passamontagna di seta affidavamo il nostro anonimato, la nostra protezione. Al compagno o alla compagna che ci stava a fianco affidavamo la nostra salvezza. Quanti mantennero la promessa, come fece Riccardo con me? E quanti la tradirono? E con le telecamere sparse in ogni angolo di città, basterebbe ancora coprirsi il volto soltanto prima dello scontro?
Cordoni, compagni!” ed occorreva tenerli. Per pochi minuti o pochi secondi, non importava. Per fermare l’urto o, almeno, rallentarlo.
Per permettere ad altri di allontanarsi o di posizionarsi diversamente
Era la guerra. La guerra di classe di quegli anni.
Era la nostra azione di classe. Alla fine il lavoro politico di massa sfociava lì.
Così ci vollero le organizzazioni, per poi smentirlo nei decenni successivi.
Perché i leader fallimentari di allora potessero poi dire che il loro intento era stato altro. Sì, questa è una certezza: furono i leader a fallire, non noi.
Oggi forse non potrebbe più essere così.
Ora la violenza antagonista sembra scimmiottare un passato, forse, finito. Una violenza, anche solo difensiva, che sembra più preoccupata della propria autorappresentazione che della possibilità di dispiegarsi efficacemente.
Così assisto a marce e proteste pacifiche e ad arresti e fermi. Mentre la violenza dello Stato sempre uguale, sembra farsi sempre più cruda e senza limiti. Nemmeno di decenza.
Vedo assassini in divisa essere prosciolti da ogni colpa.
E vedo ancora processi in cui sono richieste pene terribili per atti di poco conto.
Ma devo chiedermi: i poteri hanno paura di una nuova esplosione di violenza o la vogliono causare? Vogliono ancora attirare in una trappola mortale i movimenti, come alla fine degli anni settanta?
D’altra parte se continuassi a credere che solo la nostra via era giusta, non rischierei di far come quei vecchi comunisti che, non riconoscendo nei movimenti che ho vissuto le stesse loro esperienze o le stesse loro iniziative, finirono col buttare il bambino con l’acqua sporca?
La scienza della Rivoluzione è una scienza di sistemi immobili oppure in movimento?
Dobbiamo rimanere ancorati per sempre ad un meccanicismo frutto del seicento e del positivismo oppure accettare il relativismo con cui la fisica cerca di fare i conti fin dall’inizio del Novecento?
Quante sono le variabili di cui i nostri predecessori non hanno tenuto conto?

Di cui noi, in passato, non abbiamo tenuto conto?
Lama 77Soltanto a partire dal movimento del ’77 si iniziò a ragionare in maniera diversa.
In termini di movimenti e non solo di classe.
Ma quella stagione fu troppo breve. Forse troppo pericolosa. Per tutti e per il PCI e il sindacato in particolare.
Che furono definitivamente, anche se per un breve periodo, esautorati. Come successe a Lama all’università di Roma.
La risata e lo sberleffo avevano costituito la cifra distintiva dei primi mesi di quell’anno.
L’anarchica e liberatoria risata destinata a seppellire burocrati e capitalismo sembrava aver preso il sopravvento insieme alla ricerca della felicità, senza limiti e senza remore.
Era stato ciò a spaventare inizialmente, più delle armi o degli slogan più truci.

Perché il riso corre spesso sulle labbra degli stolti, ma anche dei santi e dei pazzi.
Fummo un po’ tutto questo: illusi come gli stolti, limpidi come i santi e feroci come i pazzi. Ma tutto si legava.
Le nostre illusioni venivano dal sogno rivoluzionario che avevamo assorbito dalle generazioni precedenti; la nostra santità da Kerouac e dalla ricerca della vera felicità; la nostra pazzia dalla rabbia e dall’orrore per l’essenza di tutto quanto ci circondava ancora e dalla voglia di farla finita una volta per sempre con le differenze che ancora dividevano un mondo grigio ed infelice.
Di classe, genere, etnia, cultura e religione.
Cercando di superare un concetto limitato e, qui da noi, superato, come quello di classe operaia.
La comunità umana. La gemeinwesen del giovane Marx: ecco forse cosa cercavamo di realizzare. Un comunista francese1 la teorizzava già negli anni sessanta. Con la crescente proletarizzazione dell’esistente occorreva uscire dai recinti per comprendere la complessità. Così chi, oggi, punta soltanto sulle lotte operaie subirà una delusione.
Mentre chi usa le vecchie forme sindacali e politiche del movimento operaio come parametri per misurare l’efficacia delle lotte odierne o a venire, sicuramente, subirò ancora una sconfitta.
Scambiando ciò che non può più essere per ciò che dovrebbe essere.
Ma ciò che non è, è tale perché non è più adeguato.

L’Araba Fenice risorge per volare, se non lo fa e soltanto perché non può più farlo con quelle ali.
La storia, soprattutto quella delle lotte di classe, è un flusso.
La possiamo immobilizzare pirandellianamente in una forma soltanto nei libri. O nella retorica.

Ma nel farlo già la stiamo sovvertendo o falsificando. Per questo ho scelto questa scrittura disordinata. Il flusso di pensieri appartiene di più all’oralità che alla scrittura.
E più alla poesia che alla prosa.
sundance kid e butch cassidy Gli antichi, mentre emergevano dall’oralità pura, lo avevano capito.
Erano mica fessi. La prosa serviva a bloccare i dati contabili nei registri.
A fissare le leggi che dovevano dare stabilità ai regni. E al dominio di classe.
Ma la storia, gli dei e gli eroi dovevano essere cantati.
Cambiando l’interpretazione secondo la scelta di chi recitava, il pubblico che ascoltava o, ancora, la capacità mnemonica di chi ricordava. Creando, attraverso l’invenzione, la realtà del flusso della vita. E dei suoi infiniti cambiamenti.
Poi si stabilizzò tutto con un nome: Omero, mai esistito. E abbiamo continuato a fare così.
A fissare la varietà della produzione intellettuale in pochi grandi nomi.
Marx, senza le lotte che gli avevano permesso anche solo di pensare ad un altro mondo.
Shakespeare, senza le improvvisazioni teatrali delle compagnie girovaghe, copiate a loro volta dalle storie narrate per strada. O nelle sale segrete delle ricche dimore.
E poi gli orrori assoluti: i testi sacri, di qualsiasi religione.
Che fissavano nell’uomo l’erede di Dio e il dominatore della natura.
Che di per sé è indomabile. Che può essere distrutta e devastata, ma non domata.
Erano arrivati i testi della vendetta, divina ed umana.
I testi che sono diventati il modello per ogni nuova religione, politica o scientifica che sia.
I dieci comandamenti.
Della chiesa, degli stati, dei partiti, dell’economia basata sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e degli uomini.
Che stabilizzavano forme di schiavitù, vecchie o nuove, per poi fingere di combatterle.
Spazzando via le religioni animistiche e il riconoscimento materialistico delle forze reali che agitano il mondo.
Un altro comunista2, più vecchio, aveva teorizzato che il comunismo avrebbe riunito, con un arco millenario, le prime comunità umane, prive di proprietà e di stato, con quella del futuro.
Oggi mi sembra diventata fondamentale ogni lotta in cui la difesa degli interessi economici della maggioranza della specie umana si ricolleghi alla difesa del territorio, dell’ambiente e della salute. Ogni lotta che tenda a superare le differenze di genere ed etnia è oggi proiettata verso il futuro, se condotta a livello di massa, mentre, anche se la contraddizione tra lavoro e capitale resta essenziale, chiudersi nelle fabbriche e nei particolarismi, per rivendicare un lavoro che non c’è più, non porterà più da nessuna parte.
E che, ricordiamolo bene, imparammo fin dagli anni settanta a rifiutare.
Il lavoro salariato ha contraddistinto l’800 e il ‘900. Farne ancora un verbo per il XXI secolo sarebbe suicida. Non l’avevano capito solo l’autonomia o l’operaismo.
Già nel 1890, in una lettera indirizzata al Congresso della Socialdemocrazia tedesca di Halle, Antonio Labriola aveva scritto che non avremmo mai più dovuto rivendicare il diritto al lavoro, base di ogni cesarismo. Occorre saltare oltre la società basata sullo sfruttamento e l’accumulazione di profitti. E non sono convinto che lo si possa fare soltanto in nome della classe operaia.
Perché è la specie nella sua interezza a non poter più convivere con il capitale.
bonasia 3Scriveva un giovane Engels nel 1844-45: ”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tutte le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere”.
Che dire oggi, quando la vita della maggioranza assoluta ha perso qualsiasi valore e dignità umana?
Quando i primi 85 Paperoni possiedono l’equivalente di ciò che possiedono gli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e di uomini? Cos’è oggi la classe?

Quali sono le forme politiche ed organizzative in cui potrà esprimere meglio il suo progetto di liberazione?
La domanda resta aperta e, come sempre, sarà soltanto il divenire delle lotte a fornire le risposte più utili ed efficaci.
L’unica cosa sicura è che non esistono verità e certezze assolute. D’altra parte anche le grandi verità storiche rischiano nel tempo di assumere la fissità della morte. Se la vita è cambiamento, e i movimenti reali ne hanno da sempre costituito la testimonianza, ogni ipostatizzazione formale degli avvenimenti che hanno di volta in volta trasformato e modificato, anche radicalmente, la realtà sociale non può che corrispondere ad una scelta conservatrice e, sostanzialmente, controrivoluzionaria. I regimi e le tirannidi, così come le sette, hanno sempre avuto bisogno di verità assolute, di continuità e tradizioni reinventate, la comunità umana in divenire no.

Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (Ideologia tedesca – Karl Marx e Friedrich Engels, 1846)

FINE
  1. Jaques Camatte, Il capitale totale, Dedalo 1976 e Verso la comunità umana, Jaca Book 1978  
  2. Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo socialeAmadeo Bordiga

giovedì 28 gennaio 2016

Benigni, quel che resta di lui di Andrea Scanzi

Roberto Benigni
Leggo che Benigni, quello che anni fa in tivù recitava i suoi sermoni laici sulla sacralità della Costituzione, voterà sì al referendum che vuol sancire lo sfascio della Costituzione di cui sopra: quando si dice la coerenza.
Caro Roberto, ti ho voluto bene, e tutto sommato sempre te ne vorrò, perché certe tue cose resteranno: dal Cioni Mario a tutti gli Ottanta, fino al tuo ultimo apice La vita è bella. Siamo pure concittadini, e fino a un certo punto ce l’hai avuto eccome quell’approccio da guastatore toscano, da provocatore sboccato: da pazzo tanto esilarante quanto (in realtà) lucidissimo. Per carità: non potevi fare sempre la stessa cosa, e mettersi a toccare la “patonza” della Carrà a sessant’anni sarebbe stato un po’ ridicolo. Lo so. E pazienza – voglio essere buono – se un tempo prendevi in braccio Enrico e poi Mastella. Pazienza.
Qui però non siamo più all’incendiario che si fa pompiere: siamo al satirico che si fa mesto turibolo del Potere. Siamo al guitto che rinuncia totalmente al suo ruolo: e questa, per un artista, è la colpa più grave. Perdonami, ma vederti passare da “Berlinguer ti voglio bene” a “Renzi mi piaci tanto”, o dal “Woytilaccio” che fu all’attuale “Volevo fare il Papa da grande”, mette una tristezza che non hai idea. Lo scrivo con dolore, senza dimenticare l’affetto e la gratitudine, ma in tutta onestà era difficile per te invecchiare peggio di così. Peccato.

Le nuove servitù e il lavoro intellettuale di Carlo Formenti

Quella che segue è la trascrizione dell'intervento tenuto nello scorso aprile a Pistoia all'interno del seminario "La cultura di massa dall'emancipazione all'alienazione". Sui numeri 182-183 e 184 abbiamo pubblicato le altre relazioni
Lavoro intellettuale e lavoro manualeIn poco più di trent'anni, dall'inizio degli anni ottanta a oggi, le conquiste di secoli di lotta delle classi subordinate - salari, condizioni di lavoro e di vita dignitose, diritto all'assistenza sanitaria, e alla pensione, ampliamento degli spazi democratici - sono stati spazzati via senza incontrare praticamente resistenza. Voi vivete letteralmente in un altro mondo, rispetto a quello in cui è vissuta la mia generazione.
Forse vi può essere utile apprendere qualche cenno biografico su chi vi sta parlando per aiutarvi a capire. Ho sessantasette anni, non ho visto la guerra, ma ho vissuto altre grandi mutazioni. Quando insegnavo all'università di Lecce, ora sono in pensione, iniziavo sempre il corso con questa breve nota autobiografica, perché sono convinto che non esista alcun sapere, alcuna conoscenza, anche quelle che si pretendono scientifiche, che non sia situata. Parliamo sempre da un punto di vista: appartenenza di genere, di classe, appartenenza a un'epoca storica e alla sua cultura, eccetera... E quindi il mio punto di vista - per quanto io possa essere dotato di autoconsapevolezza critica, capacità di auto-distanziamento o di autoironia - è determinato da tutti questi fattori.
L'età ve l'ho già detta. Ho fatto diversi mestieri perché ho sempre avuto l'abitudine - quando non mi sentivo più a mio agio in un determinato ruolo - di cambiare vita, buttando via quello che oggi si chiama il mio "capitale sociale" per ricominciare da zero. Mio padre era un artigiano di origini contadine nato nel 1903, quindi ha fatto in tempo a vedere la ritirata di Caporetto, i disertori che venivano accolti nei fienili dai contadini del suo paese e, quando venivano trovati dai carabinieri, fucilati sul posto. Ha anche fatto in tempo a vedere le vittime della spagnola portate via sulle carrette, prima di emigrare a Milano, dove ha cominciato a svolgere la sua attività politica: prima nella Gioventù socialista poi nel Partito comunista d'Italia; ha partecipato alla prima resistenza, negli anni venti, contro il regime fascista e si è fatto i suoi anni di galera e di confino, per riprendere l'attività politica dopo la Seconda guerra mondiale. Mia madre era svizzera - ecco perché sono nato a Zurigo - figlia di un tecnico orologiaio che era emigrato in Italia per lavorare in una industria italiana. Entrambi i miei genitori erano autodidatti: mio padre aveva fatto la quinta elementare, ma essendo uno di quei vecchi quadri comunisti si era formato da solo, al punto che lo definirei quasi un aristocratico, lo ho ereditato una parte significativa della mia biblioteca da lui. Ricordo che quando avevo tredici anni mi mise in mano il primo libro del Capitale, di cui devo dire non capii altro se non che questo signore che parlava difficile era molto incazzato, e riusciva a trasmettermi la sua rabbia contro i padroni.
Ho cominciato presto a lavorare, perché ero iscritto all'università ma la famiglia non aveva i soldi per mantenermi, quindi nel 1968-69 non ho partecipato alle vicende dei miei coetanei del movimento studentesco perché lavoravo in ufficio; invece ho dato molti dispiaceri alla multinazionale americana che mi aveva assunto, riuscendo a far fare decine di ore di sciopero laddove non se ne era ancora fatta neanche una. Perciò il sindacato mi propose di uscire a fare un mestiere che forse mi riusciva meglio, cioè il dirigente sindacale dei metalmeccanici, dal 1970 al '74. Poi arrivò un'altra svolta. Dopo le battaglie contrattuali del 1973 fu chiaro che sarebbe iniziato quel riflusso che avrebbe trovato compimento nel 1980 con la marcia dei quarantamila quadri della Fiat. Avendo intuito che il futuro di una carriera sindacale sarebbe stato quello di scaldare una sedia come burocrate, me ne sono andato. Mi sono laureato in Scienze politiche. Poi, non essendo riuscito a restare all'università come ricercatore, sono andato a fare il giornalista, mestiere che ho fatto per più di vent'anni: prima come caporedattore del mensile culturale "Alfabeta", rivista che ha avuto un ruolo significativo nel tenere vivo quel che restava della cultura di sinistra italiana, dopodiché, quando la rivista ha chiuso, ho accettato l'offerta di andare a lavorare come redattore nelle pagine culturali del "Corriere della Sera", dove ho vissuto l'esperienza più dura della mia vita, nel senso che vivere e lavorare in quel posto non è stato particolarmente gradevole. Infine, nell'ultimo decennio, mi sono ritrovato a insegnare Sociologia della comunicazione all'università di Lecce, finché due anni fa sono andato in pensione e ora faccio il consulente editoriale.
Questo percorso potrebbe essere definito come permanenza in una posizione "marginale di lusso", una marginalità associata a condizioni che la nostra generazione ha potuto permettersi, il che marca una differenza radicale fra il nostro mondo e il vostro. lo negli anni settanta, e in buona parte degli ottanta, ho potuto permettermi di buttare via una quantità impressionante di tempo; mi sono preso tutto il tempo per laurearmi, ho fatto diversi lavori eccetera. Questo perché si aveva la netta sensazione - alla quale corrispondeva un dato di fatto reale - che comunque non si sarebbe morti di fame. Vivevamo una dimensione in cui quegli stessi saperi che costruivi attraverso esperienze come quelle delle lotte sindacali o dei movimenti politici erano riciclabili sul mercato del lavoro.
Perché tutto questo castello costruito in secoli di lotte è crollato in trentacinque anni? Come sapete le risposte che sono state date sono tante: il processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia, la capacità delle grandi imprese di decentrare i processi produttivi grazie alle nuove tecnologie di rete, la possibilità di decentrare la forza lavoro in paesi dove la forza lavoro costa pochissimo come la Cina e altri paesi del Terzo Mondo, processi che hanno creato rapporti di forza estremamente negativi per le classi subordinate dei paesi ricchi o ex-ricchi.
 
 La finanziarizzazione dell'economia in Occidente vuol dire che il grande capitale ha molto meno bisogno di prima di ricorrere allo sfruttamento industriale della classe operaia per realizzare profitti. Una quota impressionante dei profitti che vengono oggi realizzati sono profitti speculativi. Lo ha spiegato molto meglio di quanto potrei spiegarlo io Luciano Gallino nel suo libro Finanzcapitalismo, così come lo stesso Gallino ha descritto "la lotta di classe dall'alto" che è stata condotta in questi trent'anni, a partire dai governi Thatcher e Reagan nell'Inghilterra e negli Stati Uniti. Un'impresa di cui si sono poi fatte carico le stesse "sinistre": il continuatore di Thatcher in Inghilterra è stato Tony Blair, di cui Renzi è l'attuale reincarnazione italica. I governi socialdemocratici hanno condotto con ancora più radicalità dei governi conservatori le politiche di smantellamento dello stato sociale, di indebolimento dei rapporti di forza della classe operaia, di taglio della spesa pubblica. Oggi in Inghilterra larghi strati di popolazione vivono condizioni simili a quelle descritte da Dickens. Le banche del cibo devono sovvenzionare una quantità impressionante di persone che non hanno più reddito sufficiente per mangiare; ci sono delle malattie dovute al fatto che la gente mangia cibi scaduti; il livello di assistenza sanitaria - un tempo fiore all'occhiello del welfare inglese - è peggiorato a causa della privatizzazione di molti servizi. Per tacere di cosa sta succedendo in Grecia, un paese letteralmente massacrato.
Perché hanno potuto fare questo senza incontrare resistenza? Perché non si sono giocati rapporti di forza che pure ancora erano presenti? lo non ho la presunzione di dare un'unica spiegazione, perché esistono molti fattori integrati che convergono nel produrre gli effetti di cui stiamo parlando. Però c'è un punto focale. Credo che tutto quello che gira intorno alla rivoluzione tecnologica che c'è stata negli ultimi venti-trent'anni abbia svolto un ruolo assolutamente strategico. Non solo perché senza le reti di computer il processo di finanziarizzazione non sarebbe potuto procedere così rapidamente - oggi esiste un'unica borsa integrata a livello globale che reagisce in tempo reale a tutto quanto succede sui vari mercati; abbiamo transazioni finanziarie che avvengono in frazioni di secondo; i broker vengono rimpiazzati dal software che analizza in tempo reale le minime variazioni di valore dei titoli e decide di acquistare o vendere i titoli in nanosecondi. Tutto questo è sempre più fuori dal controllo delle istituzioni che dovrebbero controllare la borsa, anche perché molte di queste transazioni non vengono più effettuate nelle borse ufficiali, ma nelle black pool, "le piscine nere" gestite direttamente dagli istituti finanziari privati come Goldman Sachs, J.P. Morgan eccetera. Però ciò che più conta non è tanto che esistano queste tecnologie: è l'entusiasmo con cui "il progresso tecnologico" è stato accolto da tutti, a partire dalle sinistre. Non solo da socialdemocratici e laburisti, ma anche dalle sinistre radicali come quelle che si ispirano alle teorie operaiste o neo-post-operaiste di Antonio Negri. L'intero apparato culturale della sinistra interpreta la trasformazione tecnologica in corso come una straordinaria opportunità; come qualcosa di sostanzialmente positivo.
Questo è un primo punto. Un secondo punto è l'illusione che l'emergenza di un nuovo strato di lavoratori dotato di istruzione e competenze tecniche più elevate avrebbe spostato progressivamente il rapporto di forza a favore della "classe creativa" o dei "lavoratori della conoscenza". Un terzo punto che prenderò in esame è quello che anticipavo poco fa, riferendomi agli effetti del contributo che le culture dei movimenti degli anni sessanta e settanta hanno offerto a quello che alcuni autori hanno definito "il terzo spirito del capitalismo". Lo spirito del capitalismo attuale si è infatti costruito appropriandosi dei valori culturali dei movimenti dal 1968 in avanti: basta leggere i testi teorici del management per rendersi conto di come ci sia stato un trasferimento diretto dei valori di creatività, autenticità, libertà, orizzontalità, cooperazione, condivisione-tipici della cultura dei movimenti degli anni sessanta e settanta, e dei "nuovi movimenti" successivi, pacifismo, ecologismo, femminismo. Attenzione, non intendo attaccare la cultura dei nuovi movimenti; cerco semplicemente di mettere in rilievo come tale cultura sia sfuggita al controllo di chi l'ha prodotta.
E ciò è avvenuto perché il capitale è la forma sociale più capace di adattamento che sia mai stata prodotta nella storia dell'umanità. È l'opposizione al capitale che fornisce al capitale le idee migliori per rinnovarsi e mettercelo in quel posto. Hanno una capacità straordinaria di usare le idee di chi si oppone come leva per rivoltarle contro gli oppositori, e riescono a farlo con una rapidità straordinaria.
Il quarto punto cui accennerò è la crescente contraddizione di interessi che si è determinata, soprattutto all'interno dei paesi avanzati, fra gli strati superiori delle classi lavoratrici e la massa dei lavoratori del terziario "arretrato", come viene definito. Oggi le uniche lotte di un qualche significato che vengano condotte negli Stati Uniti le fanno per esempio i lavoratori di McDonald, delle grandi catene commerciali, e di altri analoghi settori a basso contenuto di qualificazione. La maggior parte dei protagonisti sono chicanos, neri, portoricani e altri migranti. I portatori di comportamenti e pratiche antagonistiche nei confronti del capitale oggi sono quasi esclusivamente questi. L'esempio cinese da questo punto di vista è clamoroso. Sta per uscire da Jaca Book un nuovo libro di una sociologa di Hong Kong che si chiama Pun Ngai che descrive l'inferno della Foxconn. Foxconn è la fabbrica in cui si producono tutti i lettori, i computer, micro-computer, i-Phone, targati Samsung, Apple, Amazon, e nella quale lavorano un milione e mezzo di operai cinesi - perlopiù migranti interni di origine contadina. Gli interessi di questa massa operaia super sfruttata confliggono frontalmente con quelli della nuova classe media cinese che si assiepa davanti ai negozi Apple per avere l'ultimo gadget, esattamente come succede davanti ai negozi Apple statunitensi e di tutto il mondo. L'ultimo punto riguarda cosa resta fuori da questo processo di subordinazione e assimilazione alla cultura neoliberista; qual è il "fuori" che può in qualche modo essere il luogo, il protagonista, il soggetto, di un conflitto anti-sistema. Questo interrogativo non è ancora un "che fare?", non ho la presunzione di delineare progetti tanto ambiziosi in una situazione catastrofica qual è quella attuale; è solo il tentativo di avviare un ragionamento sulle prospettive di resistenza nei confronti degli automatismi del mercato e di un sistema politico che ormai non ha sostanzialmente alcuna autonomia nei confronti del mercato. Questa è la cosa importante da cui partire: noi ormai viviamo in un sistema compiutamente post-democratico. La democrazia rappresentativa non esiste più, se non come puro rituale. Oggi gli Stati Uniti sono, di fatto, un'oligarchia di censo: più della metà dei senatori e dei membri del Congresso fanno parte di quel famoso uno per cento di super ricchi denunciato dai militanti del movimento Occupy Wall Street. Un posto al Congresso si compra, è un investimento; per essere eletti bisogna investire milioni di dollari, che arrivano dalle lobby delle grandi imprese che finanziano le campagne elettorali di chi sosterrà i loro interessi. Oggi non esistono più la politica, la finanza, l'economia; esiste un'oligarchia in cui questi elementi si intrecciano e a volte coincidono nella stessa persona. L'attuale sistema neolibérale, liberista, non è il vecchio sistema liberale. Ha cambiato natura, è mutato radicalmente. Se voi andate a leggervi La ricchezza delle nazioni di Adam Smith trovate una serie di riflessioni di tipo etico e morale che non hanno più alcun senso dal punto di vista dell'attuale neoliberismo. Quando ci si chiede "ma perché fanno cose che sembrano suicide e folli?", perché insistono con politiche che - come nel caso della Grecia - invece di risolvere il problema lo aggravano? Forse sono pazzi? No, non sono pazzi. Il fatto è che il neoliberismo è un tentativo di indurre una mutazione antropologica. Vogliono costruire un uomo nuovo: l'imprenditore di se stesso. Si costruisce un modello per cui tu sei il detentore del tuo "capitale" - capitale sociale, capitale reputazionale eccetera. Tu sei il responsabile del modo in cui ti muovi sul mercato in competizione con tutti gli altri. Questo vale per gli individui, per le imprese piccole medie o grandi che siano; per gli stati, che competono fra loro per creare condizioni che attirino gli investimenti delle multinazionali sul loro territorio, abbattendo le tasse, creando condizioni di miglior favore, creando, come ha fatto la Cina, zone speciali in cui vengono sospese tutte le leggi sul lavoro. La Foxconn, per esempio, può operare - con l'appoggio del Partito comunista e delle amministrazioni locali - in deroga a tutte le leggi sul lavoro cinese: si lavora per dodici, quattordici, sedici ore al giorno, si lavora a partire da dodici-tredici anni, gli studenti delle scuole professionali vengono portati a fare degli stage, durante i quali vengono messi alla catena di montaggio per effettuare lavori che non hanno nulla a che fare col loro programma scolastico. Dall'altra parte si mettono invece in atto processi di cooptazione che, in alcuni casi, sono effettivi: gli impiegati di Google, di Facebook, di Amazon, godono di reali privilegi: salari elevati, benefits di ogni tipo eccetera. Ma si tratta di esigue minoranze: la stragrande maggioranza di coloro che lavorano nelle catene di subappalto, come quelli che sviluppano applicazioni - sviluppatori indipendenti o microimprese che lavorano per i colossi dell'industria hi-tech - competono ferocemente fra loro per strappare salari da fame. Eppure sono a loro volta integrati in questa ideologia dell'imprenditore di se stesso; del lavoro autonomo come valore.
Negli anni settanta si parlava del "rifiuto del lavoro". Era un fenomeno reale: la fuga dalla catena di montaggio, la fuga dal lavoro dipendente, era una spinta molto sentita da quella generazione. Dopodiché si sono trovati intrappolati in una macchina infernale che li ha completamente marginalizzati. Ho conosciuto molti operai e molti quadri sindacali dell'Alfa. Quando l'Alfa ha cominciato a smantellare la fabbrica, molti di costoro hanno avviato le loro piccole fabbriche che operavano come subfornitori dell'Alfa stessa o di altri processi produttivi, per lo più tedeschi. Ma la stragrande maggioranza di queste piccole imprese sono state massacrate dalla concorrenza internazionale dei paesi che offrono forza-lavoro a costi molto più bassi; il famoso miracolo dei distretti veneti è stato spazzato così. I valori di autonomia, indipendenza, creatività che venivano esaltati in quegli anni li ritroviamo oggi nei manuali di management dove si scrive che la gerarchia non conta più niente, che il capo dev'essere un leader, deve essere portatore di una visione, deve esercitare una leadership carismatica; si lavora per progetti, per équipe eccetera. È stato messo in atto un apparente processo di orizzontalizzazione delle strutture di impresa, ma anche delle strutture amministrative, politiche e sociali. Tutto sembra divenire orizzontale, tutto sembra essere democratizzato. Ma se andate a vedere cosa c'è realmente dietro a tutto ciò, trovate una straordinaria concentrazione dei processi decisionali. Per esempio si descrive la Rete come un potente strumento di democratizzazione della comunicazione: tutti possono parlare, tutti possono avere il loro blog o il loro profilo Facebook; peccato che il novantanove virgola novantanove per cento di queste pagine abbia tre lettori, mentre lo zero virgola uno può averne anche centinaia di migliaia o milioni. Il libro di uno studioso franco-australiano, intitolato Cyberchiefs, analizza come si concentra il capitale relazionale e reputazionale in rete: all'apparente orizzontalizzazione dei processi corrisponde un radicale processo di concentrazione/verticalizzazione. Ancora, pensate al percorso di sviluppo di tutta la traiettoria del software open-source, nato come progetto libero e spontaneo, condiviso da una comunità di sviluppatori indipendenti connessi attraverso la Rete, ma oggi divenuto una macchina da guerra per fare profitti. La new economy - il "capitalismo immateriale" delle grandi Internet company - viene descritta come una sorta di barone di Munchausen che si solleva tirandosi per il suo stesso codino, ma a reggere i piedi del barone sono milioni e milioni di lavoratori supersfruttati dei paesi in via di sviluppo. La democratizzazione dell'economia che si prometteva negli anni novanta, quando si diceva che le start up sarebbero state in grado di fare concorrenza ai colossi del mercato, si è tradotta in un mostruoso processo di concentrazione monopolistica, al punto che il Ceo di Google, Schmitt, ha potuto affermare che "oggi il mercato è dominato dai magnifici quattro, dalle quattro grandi sorelle: Google, Apple, Amazon e Facebook". E le start up competono fra loro per farsi comprare da una di queste imprese e, quando ci riescono, le loro innovazioni vengono buttate via per non turbare gli equilibri del mercato.
Aggiungo qualcos'altro sull'idea che il lavoro cosiddetto immateriale sarebbe di per sé portatore di un livello più elevato di autonomia e creatività. Qui torna buona una battuta di Simone Weil, "il sogno dell'essere umano è diventare una macchina". Questa battuta mi ha ricordato che c'è un aspetto della teoria marxista in cui non mi riconosco più (del resto Marx diceva spesso "io non sono marxista"). Marx continua a darci strumenti teorici straordinari per capire quanto succede oggi, ma alcune sue idee non funzionano più perché sono il prodotto di una cultura ottocentesca. Nel famoso Frammento delle macchine dei Grundrisse, per esempio, scriveva che, allorché la conoscenza scientifica e tecnologica incorporata nel sistema automatico delle macchine raggiungerà determinati livelli di sviluppo, l'idea di misurare il valore di un prodotto con il tempo di lavoro necessario a produrlo non avrà più alcun senso. Allora saremo sulla soglia dell'emancipazione della forza lavoro: il lavoro vivo sarà in grado di rovesciare facilmente (con un clic di mouse diremmo oggi) il dominio parassitario del capitale su un processo produttivo ormai totalmente determinato dallo sviluppo scientifico e tecnologico e che potrà essere direttamente gestito dai lavoratori. Ma questa visione presuppone che capitale e tecnologia possano essere facilmente separati. Invece oggi vediamo come la macchina informatica - non solo reti di computer e software, ma anche modelli organizzativi, cultura di impresa eccetera - abbia la capacità di ridurre drasticamente l'autonomia di chi lavora: sono modelli che determinano a priori che cosa puoi o non puoi fare, sono modelli mentali che non si limitano a esteriorizzare la memoria e il controllo dei dati, condizionano le modalità del pensiero. Così, anche attraverso la pedagogia del lavoro autonomo, dell'imprenditoria di se stessi, si costruisce un'etica del lavoro che cancella il confine fra tempo libero e tempo di lavoro, che induce a lavorare anche quando si è malati, a trascurare gli affetti, all'autosfruttamento, a una spietata competizione di tutti contro tutti. Per sopportare questo stato di cose proliferano gli inviti a praticare la meditazione trascendentale. Sui siti americani sembra che la meditazione sia divenuta la chiave per essere felici (la felicità dipende da te, medita e capirai che diciotto ore di lavoro al giorno è il tuo destino; è la cosa migliore per te; è la perfezione che puoi raggiungere). È stato costruito un dispositivo culturale e antropologico che è una macchina infernale da cui apparentemente è molto difficile trovare una via d'uscita. Due autori francesi, di formazione foucaultiana, Dardot e Laval, hanno scritto un libro molto interessante su tale dispositivo, però alla fine che cosa propongono come soluzione? Le contro-pratiche, le contro-condotte, sulla scia dell'ultimo Foucault della cura del sé. Ma io penso che non è sul piano individuale che possiamo sottrarci, costruendo un'etica e una pratica alternative a quello che viene trasmesso dall'università, dalla pubblicità, dai media, dal capo, dai partiti, persino dai movimenti (vedi i guasti prodotti dai principi femministi del "partire da sé" e del "privato è politico"). Accanto al pensiero femminista radicale, per esempio, è venuta crescendo una cultura femminista "mainstream" che ha svolto una funzione importante nei processi di "femminilizzazione del lavoro" che hanno abbattuto i rapporti di forza del lavoro maschile attraverso l'immissione massiccia delle donne nel mercato del lavoro (senza migliorare affatto la condizione femminile nel lavoro e nella vita). Il politically correct, che impera fino al paradosso nella cultura americana, serve a far dimenticare che le donne continuano a guadagnare il quarantacinque per cento in meno degli uomini, che continuano a essere confinate in ruoli secondari, a essere sfruttate per metterne a valore la flessibilità, la disponibilità, la capacità di cura eccetera. L'ecologia si è a sua volta trasformata. Mentre dovrebbe aiutarci a capire che, se non buttiamo giù il sistema capitalista, siamo condannati all'estinzione in tempi relativamente brevi, il movimento ecologista ha progressivamente perso la sua carica anticapitalista. Il più forte partito verde europeo, il partito tedesco, ha votato leggi antioperaie, ha votato i crediti di guerra nei Balcani, ha fatto delle cose orrende. Come dice Boltanski, dal 1968 si sono separate le due critiche al capitalismo: la critica sociale e la critica artistica. La critica sociale è quella tradizionale del movimento operaio, è la critica dell'ingiustizia sociale che chiede la redistribuzione del potere e del reddito, che invoca una democrazia reale, non formale. La critica artistica è invece quella che rivendica l'autenticità, la libertà, la creatività. La critica sociale è stata massacrata, quella artistica è stata integrata nella cultura di regime. Cosa resta fuori da questo dispositivo di dominio? lo sono pessimista sull'Europa. Meglio di noi stanno gli Stati Uniti, dove ci sono le lotte del terziario arretrato, delle grandi catene commerciali come Wall Mart, un colosso che ha più dipendenti di Foxconn in Cina. Il lavoro terziario aumenta mostruosamente in America perché la vita che conducono i lavoratori della conoscenza fa sì che necessitino di sempre più servizi mentre vengono mercificate le attività di cura che in precedenza venivano garantite gratuitamente dalle strutture famigliari. Oggi queste prestazioni sono servizi retribuiti, un settore che impiega quantità crescenti di forza lavoro, lavoratori che cominciano a organizzarsi e a lottare.
Invece sono più ottimista per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo. Prima citavo la Foxconn: la situazione cinese è divenuta drammatica dopo le riforme degli anni ottanta, a causa delle condizioni dei lavoratori, che sono in larga maggioranza migranti interni, centinaia di milioni di contadini inurbati privi di diritti come gli immigrati irregolari qui in Europa.
Il lavoratore cinese inurbato non ha diritto alla residenza e all'assistenza sanitaria, non gode dei diritti degli altri cittadini. Quindi è costretto a vivere nei compound delle imprese per cui lavora che sono veri e propri campi di concentramento. È una forma di schiavizzazione di milioni di persone, che stanno cominciando a incazzarsi e a lottare: escono dalle fabbriche, bloccano strade e ferrovie e si organizzano anche facendo un uso alternativo e creativo dei social network che favoriscono la costruzione di reti di sindacalizzazione e di resistenza oltre i confini della singola fabbrica. Il bello è che molti di questi giovani militanti sindacali si dichiarano neomaoisti. È curioso perché per questa generazione Mao è solo un'icona che campeggia nella Piazza Tien-an-men: sono nati dopo la Rivoluzione culturale né hanno idea dei reali meriti e demeriti di Mao: per loro Mao è solo il simbolo di una politica egualitaria; una politica che mirava a realizzare l'uguaglianza fra i cittadini cinesi, a fronte della politica e dell'economia di oggi che hanno prodotto le più grandi disuguaglianze che esistano a livello mondiale (l'indice di Gini cinese, che come sapete è un indice statistico che misura le disuguaglianze di reddito all'interno di un paese, è il più elevato del mondo). Ci sono gli schiavi che lavorano alla Foxconn per un pugno di soldi e ci sono quelli che celebrano matrimoni come quello che si è visto recentemente a Shanghai, con duecento limousine di nuovi ricchi. Quindi cresce una tensione formidabile che ripropone la lotta di classe nelle sue forme più classiche, dure, feroci.
Lo stesso avviene in Sudafrica, coi lavoratori delle miniere. Ma le esperienze che mi hanno più intrigato, perché ho potuto parlare in prima persona con i loro protagonisti, sono quelle in atto in alcuni paesi dell'America Latina. Vedendo come agiscono i movimenti indigeni dei campesindios - come chiamano i contadini di origine india - mi sono reso conto che ero di fronte a un esempio particolarmente significativo di quello che può oggi essere una dimensione di esternità - il fuori - da questo sistema. Per una serie di contingenze storiche è infatti successo che queste culture comunitarie agricole siano state emarginate e messe in condizioni di continuare ad autoriprodursi con metodi di lavoro e di vita simili a quelli delle culture precolombiane. I colonizzatori spagnoli prima, e poi i governi repubblicani instaurati dalle rivoluzioni bolivariane ottocentesche, si preoccupavano solo che pagassero le tasse, abbandonando la gestione delle comunità locali ai capi tribali locali. Naturalmente queste forme si sono successivamente evolute ibridandosi con altre culture. Molti di questi contadini si sono inurbati, sono andati all'università, hanno formato gli intellettuali di un movimento indigenista che ha cambiato indirizzo negli anni novanta. Fino ad allora i contadini avevano condotto lotte sindacali egemonizzate dai partiti comunisti e socialisti, poi a partire dal 1992 (l'anno simbolo del quinto secolo dell'inizio della colonizzazione dell'America del Sud) è iniziata la riscoperta delle loro radici culturali che ha completamente ribaltato la logica di questi movimenti. Le grandi mobilitazioni degli anni novanta e del primo decennio del duemila, che hanno rovesciato i governi neoliberisti in Ecuador e in Bolivia, sono state mobilitazioni etniche oltre che politico-sindacali.
Se è vero, come ha scritto qualcuno, che tutte le rivoluzioni comuniste le hanno fatte i contadini, non gli operai (basti pensare alle rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana), qui troviamo una conferma che ci lancia una sfida teorica. Una sfida raccolta da quegli intellet-
tuali marxisti latinoamericani che hanno richiamato l'attenzione sulla svolta teorica compiuta dall'ultimo Marx. Marx negli anni settanta dell'Ottocento entra in contatto con gli intellettuali populisti russi, che chiedono di aderire all'Internazionale e che hanno fatto tradurre Il Capitale in Russia. Intrigato dai loro discorsi, studia il russo e si mette a leggere i lavori di alcuni di loro. Così compie alcune scoperte che gli fanno rimettere in discussione il suo punto di vista progressista/evoluzionista. Prima aveva sempre insistito sulla necessità di sviluppare le forze produttive, valutando positivamente la distruzione delle vecchie culture feudali, asiatiche, comunitarie eccetera, perché pensava che per raggiungere il socialismo fosse prima necessario passare sotto le forche caudine del capitalismo. Leggendo i populisti, apprende dell'esistenza in Russia di una forma sociale particolare, l'obscina, una comune agricola di base che aveva assunto un ruolo interessante dopo l'abolizione della servitù della gleba (avvenuta nel 1861): invece di trasformarsi in piccoli imprenditori agricoli, i contadini russi continuano a vivere in una dimensione che non prevede la proprietà privata della terra. La proprietà è della comunità, che la gestisce in modo democratico attraverso le assemblee degli anziani del villaggio (il Mir) nelle quali si discute e si decide su ciò che riguarda i beni comuni, mentre l'usufrutto della terra spetta ai singoli. Quindi Marx comincia a chiedersi se non avessero ragione quegli autori che sostenevano che, invece di passare sotto le forche caudine del capitale, sarebbe stato meglio sfruttare queste strutture comunitarie per saltare direttamente a una società socialista.
Il sogno dell'ultimo Marx è stato spazzato via da Stalin che, dopo avere ucciso milioni di contadini, ha imposto la collettivizzazione forzata delle campagne russe, annientando quella cultura spontaneamente socialista e democratica per costruire un'industrializzazione e una collettivizzazione forzate. Purtroppo le sinistre marxiste non hanno mai ammesso l'esistenza di strutture sociali non capitalistiche che potrebbero evolvere in una direzione alternativa senza passare attraverso processi di modernizzazione. Sono rimaste intrappolate dal mito del progresso. Non hanno capito che non esiste il progresso: esistono solo rapporti di forza fra classi sociali; esiste un capitale che tenta di colonizzare il mondo intero: nazioni popoli e territori, ma anche i mondi interiori, mercificando tutte le relazioni sociali che non sono ancora mercificate; trasformando in merci-servizio le relazioni gratuite che esistono all'interno delle famiglie e delle comunità.
Dal fuori che ho descritto poco fa ci arriva un'indicazione su che fare? No. Perché la storia non contiene un destino immanente e necessario, non segue un cammino prefissato. La storia può andare avanti e indietro, può procedere a spirale, può avere delle diramazioni laterali e tutto dipende anche da fattori contingenti, come potrebbe essere l'entrata in gioco di nuove generazioni. Qualcuno di voi si chiedeva: "Ma come si fa a fare rete?" La sola risposta che possiamo dare è "Che ne so?" Siete voi che dovete inventare un modo nuovo di fare rete, lo non sono uno di quelli che pensa che oggi occorra rifare il partito. Il partito novecentesco è morto e sepolto. Qualche giorno fa, discutendo con me sulla fine della socialdemocrazia e del comunismo, Bertinotti ha detto "simul stabunt, simul cadebunt"; il riformismo e la forma novecentesca del partito rivoluzionario sono finiti assieme. Ci sono esperienze nuove e interessanti? Sì, considero interessante quello che stanno facendo in Bolivia. Non vuol dire che andrà tutto bene: può andare malissimo come è successo in Ecuador, dove il processo rivoluzionario si è bloccato, come racconto nel mio ultimo libro. Ma comunque vada a finire lì hanno messo in moto un processo politico che, invece di costruire un partito monolitico, ha costruito un'associazione di associazioni. Il Mas (Movimento al socialismo) è una federazione di sindacati dei contadini, sindacati degli operai delle miniere, ong, movimenti sociali urbani. Questa forma politica è stata criticata perché "neo-corporativa"; perché sta tentando di colonizzare le istituzioni dello stato boliviano, trasformandole in camere di contrattazione permanente fra gli interessi compositi di tutti questi soggetti, i quali possono collaborare perché hanno un avversario comune, anzi un nemico comune, che è il liberismo, lo uso sempre il termine "nemico" perché non sono un pacifista. Sono per la guerra di classe, dopodiché so che questa non si può fare come si faceva una volta perché dovremmo combattere contro un esercito di assassini di professione armati fino ai denti. Però, anche se lo scontro frontale non si può più fare, si possono costruire dei movimenti di massa attraverso queste nuove forme federative. Dobbiamo riuscire a spezzare la gabbia d'acciaio che ci è stata costruita attorno così rapidamente. Ma è chiaro che se non la spezzate voi non la spezzerà nessuno. Noi siamo delle mummie, dei brontosauri, che si aggirano lamentandosi nel deserto che gli è stato creato intorno; se sopravviviamo è solo perché - almeno questo è il mio caso - spinti da una grandissima curiosità. Sono curioso. In questa epoca storica succedono un casino di cose... cose terribili perlopiù, ma è come vedere un film d'azione (confesso di adorare i b-movie d'azione, assai più di certi i film d'autore). E quindi mi tengo vivo con la curiosità. Né mi sembra così terribile quella maledizione cinese che recitava: "Possa tu vivere in tempi interessanti".

martedì 26 gennaio 2016

Siamo di nuovo alla vigilia di una crisi globale? di Aldo Giannuli

nuova_crisi_globale_940

Tariffe elettriche, con la riforma le bollette diventano più care? di Mario Agostinelli

bolletta 675
 
Secondo una prassi che ci propina ad ogni alzata dal letto qualche modifica imprevista sulle tariffe o sui risparmi bancari o sull’entrata in vigore della pensione, dal primo gennaio sono state varate le nuove tariffe per l’energia elettrica. Come sempre, strombazzate la sera prima come un colpo di fortuna per i consumatori. Esaminiamone qui la ratio e gli effetti per 30 milioni di utenti e, infine, traiamone le conclusioni. (Per un’analisi dettagliata e i grafici illustrativi, Roberto Meregalli su energiafelice).
Come nei riti migliori, è stata introdotta una nuova veste grafica della bolletta: potremo così fare il confronto con quella dei nostri amici e non sfuggirà certo la “rivoluzione” che la denota: l’abbandono del sistema progressivo (ossia un sistema per cui il costo per kWh aumenta all’aumentare dei kWh prelevati dalla rete elettrica) in vigore sino ad oggi. Fino al 2015 il costo dell’energia di un kWh consumato da un cliente che in un anno ne consuma in totale 1.500 è diverso da quello di un cliente che ne consuma 2.700: in base ad un sistema di tariffazione che favoriva chi consumava poco, facendo pagare di più oneri e trasporto a chi consumava di più. Possiamo dire che quell’impianto tendeva a stimolare consumi ridotti. Con la riforma, per i clienti residenti (la maggioranza), la struttura degli oneri di sistema rimane fissa per kWh, qualsiasi sia il livello di consumo.
 

 
Tutti (tranne le seconde case) pagheranno un eguale contributo fisso per coprire gli oneri del sistema, indipendentemente dal possesso di impianti in proprio e dalla fascia di consumo. Viene cioè penalizzato chi ha installato un piccolo impianto fotovoltaico, mentre viene premiato chi consuma di più invece di risparmiare energia. Per essere chiari, chi ha sostituito le lampadine a incandescenza con quelle a led, o chi ha investito negli ultimi anni in un impianto solare rischia di non aver fatto un buon affare.
L’abolizione della progressività viene giustificata dall’Authority “per favorire l’elettricità rispetto ai fossili e liberarla da vincoli ereditati dal passato”. Tutto bene, se l’elettricità non provenisse a sua volta per la gran parte dalla combustione in centrale di gas carbone o olio. Al solito, nonostante le indicazioni fornite dall’Ue e dalla Cop21 – miranti a favorire anche attraverso le tariffe la decarbonizzazione e la produzione elettrica decentrata da rinnovabili – ministero e governo hanno partorito il compromesso più vantaggioso per il sistema energetico in auge. Difensori ad oltranza di un modello arcaico che penalizza il mercato della generazione distribuita e dell’efficienza energetica, favorendo la generazione centralizzata di energia.
Alla fine, per il consumatore tipo ci dovrebbe essere un aumento di circa 20 euro l’anno: per chi consuma meno un aumento maggiore e per chi consuma di più un risparmio. Ricordando che oltre l’81% degli attuali utenti (circa 24 milioni) ha consumi inferiori a 2.640 kWh/anno, in effetti per la maggioranza la riforma si tradurrà in una bolletta più cara.
Per chi ha installato negli anni scorsi un impianto fotovoltaico, questa riforma avrà effetti negativi perché la nuova tariffa sarà meno conveniente rispetto a quella attuale. Questo “effetto collaterale” è rilevante perché ufficialmente la riforma dovrebbe favorire le fonti rinnovabili. Stimolare l’aumento dei consumi elettrici ha senso solo aumentando la generazione di elettricità da FER, solare in primis, essendo la principale risorsa nazionale. Altrimenti, come sta accadendo quest’anno, l’aumento della domanda si traduce in un aumento dell’uso delle fonti fossili e delle relative emissioni. La riforma in definitiva sfavorisce il risparmio energetico e le rinnovabili elettriche, mentre risulta chiaro che si stabilizzano i ricavi dei distributori perché i loro costi saranno fissi, non più dipendenti dalla variabilità dei consumi.
Contestualmente, è stata approvata anche la legge (539/2015) che regolamenta la realizzazione e l’uso di reti private di distribuzione. Anche per questa via si penalizza lo sviluppo di reti intelligenti e i sistemi di stoccaggio e si assesta un duro colpo per le rinnovabili, che richiedono reti intelligenti, capaci di dosare e compensare gli input di energia. Sulla gestione delle reti, si gioca una grande partita per la transizione energetica, ma non è certo un governo intrecciato alle lobby del passato che può affrontare le sfide del futuro.

lunedì 25 gennaio 2016

Ma l’Occidente ha capito chi è davvero Erdogan?

 
erdoganCome riciclare Erdogan? Per condurre questa operazione Obama ha scelto il suo vice Biden che un anno fa aveva accusato il presidente turco di essere connivente con l’Isis, per poi scusarsi sia pure con qualche incertezza. C’è da chiedersi se gli Stati Uniti, l’Europa, il cosiddetto Occidente, esistano ancora come nozione politica, morale o anche soltanto geografica. Più di un dubbio viene spontaneo dopo la visita del vicepresidente americano Joe Biden in Turchia.
Biden sostiene che gli Stati Uniti sono pronti a fare la guerra con la Turchia contro il Califfato. Anche i sassi della provincia di Antiochia sanno che Erodgan ha fatto passare migliaia di terroristi sull’”autostrada della Jihad” per abbattere Assad. E tutti abbiamo visto che gli Stati Uniti ben poco hanno fatto per combattere l’Isis negli ultimi due anni, al punto che non avevano neppure opposto un’obiezione quando il Califfato aveva conquistato Mosul nel giugno 2014. Se non avessero tagliato la testa a un cittadino americano, sollevando l’ira dell’opinione pubblica, Washington avrebbe lasciato fare.
È comprensibile che gli americani cerchino adesso di recuperare un alleato della Nato, lo stesso che peraltro ha esitato mesi prima di concedere la base aerea di Incirlik per i raid contro lo Stato Islamico e quando lo ha fatto ha preferito bombardare i curdi del Pkk e anche quelli siriani piuttosto dei jihadisti.
Biden ha fatto una distinzione tra il Pkk e Pyd, le forze curde siriane anti-Isis, gli eroi di Kobane per intenderci, ma questo non basta. Come non è sufficiente aver detto che la Turchia non rispetta gli standard democratici mettendo in carcere giornalisti e intellettuali. Il vicepresidente americano sta cercando di sommare le pere con le mele, come si diceva alle scuole elementari. Cioè tenta di salvare la capra, ovvero il ruolo di Erdogan nella Nato, e i cavoli americani, la palese contraddizione di avere condotto una finta guerra al Califfato che ha aperto le porte all’intervento della Russia a fianco del regime di Damasco.
Agli Stati Uniti adesso serve un autocrate come Erdogan, complice dei jihadisti, non per fare la guerra all’Isis ma per contrastare Putin in Siria. La realtà è che la Turchia ricatta gli Usa con la minaccia russa per ottenere un pezzo di territorio siriano che finora non è riuscita a conquistare servendosi del Califfato.
È con questa bella compagnia, con queste idee brillanti, che facciamo la lotta all’Isis e ci prepariamo ai negoziati di pace sulla Siria dove dobbiamo fare accomodare i rappresentanti del terrorismo che piacciono ad Ankara e Riad. Siamo amici e alleati di coloro che ci mettono le bombe in casa, che hanno distrutto interi Paesi, provocato milioni di profughi e che alimentano la propaganda islamista radicale: ecco siamo noi i “nuovi” occidentali.
Alberto Negri - ilsole24ore.com

domenica 24 gennaio 2016

Pd, la recita del dissenso di Alberto Burgio

È sistematico: ogni volta che si approfondisce lo scontro sul governo, il conflitto nel Pd si surriscalda. Ed è altrettanto sistematico che la minoranza dem, la sedicente sinistra interna, alzi la voce e minacci sfracelli. Per poi pentirsene e allinearsi obbediente.
I fatti, innanzi tutto. La Direzione nazionale del Pd, riunitasi venerdì 22, segue l’ennesima grave decisione della minoranza interna, quella di votare compatta in senato lo scempio della Costituzione, fornendo al governo — insieme ai senatori verdiniani — un contributo indispensabile (una ventina di voti) all’approvazione della controriforma. È stato un gesto clamoroso di sostegno al governo e al suo capo, dopo una settimana nera per Renzi, in gravi difficoltà per lo scontro politico generale sui diritti delle coppie omosessuali e per il profilarsi di qualche seria sconfitta alle prossime amministrative. 
Non solo. La «sinistra» del Pd ha soccorso il presidente del Consiglio proprio nel momento di massima sofferenza per lo stringersi di una micidiale tenaglia: da un lato l’attacco di Juncker per le critiche italiane all’austerità europea; dall’altro lo stillicidio di indiscrezioni e il procedere della talpa giudiziaria in merito alle vicende bancario-corruttive di Arezzo, che vedono pesantemente coinvolti pezzi del cerchio magico renziano e figure di rilievo degli entourages famigliari del ministro per le riforme e dello stesso presidente del Consiglio.
Nella riunione della direzione la minoranza ha lamentato la mancanza di «agibilità politica» nel partito, ha posto la questione del doppio ruolo del segretario-premier, che lo indurrebbe a trascurare il lavoro nel partito, e ha attaccato per i voti dei verdiniani in senato, che comportano a suo giudizio un allargamento della maggioranza incompatibile con la vocazione riformista del Pd. Come se nella maggioranza non ci fosse già Alfano. Come se, considerato il merito delle «riforme» in questione, l’alleanza con Verdini non fosse più che appropriata. Quanto al merito di una controriforma che stravolge la Costituzione cambiando di fatto la forma di governo, di questo non si è parlato, non era all’ordine del giorno. Del resto Cuperlo ha rivendicato di averla votata adducendo il fine argomento che, se anche la «riforma» è pessima, «fallire in questo tentativo produrrebbe una frattura ancora più grave tra i cittadini e le istituzioni». Perfetto. Un capolavoro di logica gesuitica che permette già di intuire come la «sinistra» del Pd si muoverà in occasione del referendum confermativo, del quale pure oggi osteggia la connotazione plebiscitaria imposta da Renzi.
Con ogni evidenza, al di là di ogni sofisma, la «sinistra» dem ha un solo problema: teme di contare domani ancora meno di oggi. Ovviamente è legittimo che se ne preoccupi. Il punto è come cerca di difendere e di rafforzare le proprie posizioni.
Che cosa fa la minoranza del Pd? Ventila «spaccature» (altre inverosimili microscissioni) e avanza timidamente, fra le righe, la richiesta di un congresso anticipato, vagheggiato come la resa dei conti in cui inverare finalmente la strategia bersaniana: riprendersi il partito; quindi, da posizioni di forza, condizionare il presidente del Consiglio.
Il punto è che a rendere improbabile questo disegno è proprio la «sinistra» dem, che ogni qual volta Renzi si trova in difficoltà evita di attaccarlo e anzi corre in soccorso del governo ogni qual volta c’è bisogno dei suoi voti. Giacché è chiaro a tutti: Renzi potrebbe accettare di andare al congresso prima del 2017 solo nel caso di una crisi di governo, proprio quella crisi di cui la «sinistra» dem, naturalmente per «senso di responsabilità», non vuole nemmeno sentir parlare.
E così, da quasi due anni a questa parte, si ripete lo stesso copione. Sussurri, grida e niente di fatto. Col risultato che, intervenendo in direzione, Renzi non ha nemmeno risposto a chi lo aveva criticato per l’intesa con Verdini chiedendo a gran voce «parole chiare» sulle strategie del partito. Ridicolizzandolo.
Come commentare tutto questo? Ci sono due possibilità: o la «sinistra» del Pd non ha ancora capito Renzi e non decifra il conflitto con lui, dal quale per questo esce sistematicamente sconfitta; oppure ha capito benissimo, e tutta questa è soltanto una commedia in cui la minoranza dem recita la propria parte in modo da non creare problemi al governo (e a se stessa) e da non perdere altri pezzi e altri voti a sinistra. Quest’ultima è senz’altro l’ipotesi più probabile, e del resto in essa vi è indubbiamente una razionalità.
I Cuperlo, gli Speranza, i Bersani salvaguardano il proprio ruolo, anche se dentro una dialettica virtuale e astratta. E, con il puntuale aiuto dei media, mantengono viva una finzione che permette ancora al Pd di presentarsi al paese, nonostante ogni evidenza, come un partito «di sinistra». Ma si tratta di una razionalità ben misera, a fronte delle conseguenze che la loro azione produce.
Al riguardo non c’è da inventarsi nulla, basta stare sobriamente all’evidenza delle cose. In poco meno di due anni il governo Renzi ha dato alla luce una sequenza di «riforme» devastanti negli assetti istituzionali della Repubblica, nel mercato e nei diritti del lavoro dipendente pubblico e privato, nella struttura materiale del welfare, nella distribuzione della ricchezza nazionale. A conti fatti, la «sinistra» del Pd ha sempre sostenuto queste scelte, a tratti recalcitrante, spesso silente, sempre al dunque ossequiosa e cooperante. Mettendo in scena un conflitto interno fine a se stesso. Mostrando in definitiva di non esserci. E dando per questa via il contributo di gran lunga più cospicuo al consolidarsi della nuova specificità italiana: quella di un paese che da tempo non annovera sulla scena politica nazionale alcuna forza credibile dalla parte dei diritti sociali e del lavoro.

sabato 23 gennaio 2016

Il destino dell’Italia nelle mani dei mercati


cliff-jump-1024x806«Il Monte dei Paschi oggi è a prezzi incredibili. Penso che la soluzione migliore sarà quella che il mercato deciderà. Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma chiunque verrà farà un ottimo affare… Gli eventi di queste ore agevoleranno fusioni, aggregazioni, acquisti. È il mercato, bellezza». Così il premier Matteo Renzi in un’intervista al direttore del Sole 24 Ore ha risposto sulla profonda crisi che sta attraverso il sistema bancario italiano.
Si tratta di una dichiarazione gravissima, che riflette in maniera drammaticamente chiara l’ideologia iper-mercatista del nostro primo ministro. In sostanza, quello che Renzi sta dicendo è che nel bel mezzo della crisi più grave nella storia dell’unità d’Italia, in cui la già fragilissima economia del nostro paese rischia di ricevere il colpo di grazia da una crisi bancaria che sembra ogni giorno più probabile, a causa dell’austerità europea edelle assurde regole dell’unione bancaria, ma anche di evidenti casi di mala gestione; in cui avremmo bisogno di un intervento deciso di politica pubblica che non si limiti a stabilizzare la situazione bancaria (anche se questo già sarebbe qualcosa), per esempio attraverso la nazionalizzazione di MPS, ma utilizzi tutti gli strumenti che il governo ha a disposizione – per quanto limitati, per le ragioni che conosciamo tutti – per rilanciare l’occupazione e risollevare un’economia che ogni giorno che passa dimostra in maniera sempre più evidente di non essere assolutamente in grado di risollevarsi da sé (per ragioni che ormai dovrebbero essere evidenti a tutti, a partire dalla carenza di domanda); ecco, in una situazione come questa, Renzi ritiene che sulle sorti del terzo gruppo bancario italiano, nonché della banca più antica del mondo – da cui ovviamente dipendono le sorti di tutto il sistema bancario italiano, e con esso dell’economia nel suo complesso – è giusto, addirittura “naturale”, che a decidere siano… “i mercati”.
Raramente il dogma neoliberista secondo cui i mercati sono perfettamente razionali e sempre in grado di “aggiustarsi” da sé (con lo Stato relegato al massimo al ruolo di “tappabuchi”, come nel caso dell’approvazione in extremis da parte del governo del piano per le bad bank, stabilizzando, per ora, il titolo MPS) è stato espresso in maniera così franca. Si tratterebbe di una dichiarazione irresponsabile (oltre che empiricamente falsa) anche se le turbolenze di queste giorni fossero effettivamente imputabili a “semplici” dinamiche di mercato; ma vi sono solide ragioni, come ipotizzato nei giorni scorsi anche dal Sole, per sospettare che quello in corso sia un vero e proprio assalto speculativo contro le nostre banche, finalizzato a facilitare il trasferimento a prezzi di liquidazione di pezzi importanti del nostro sistema bancario nelle mani del capitale finanziario internazionale («Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma…»), ma probabilmente anche di qualche speculatore nostrano come il finanziere Davide Serra, amico del premier, che ha già dichiarato il suo interesse ad investire in MPS.
Questo sembrerebbe confermare quanto scritto su queste pagine in queste settimane (vedi qui e qui), ossia che l’unione bancaria entrata vigore il 1° gennaio 2016 spianerà – sta già spianando? – il terreno ad un processo di “centralizzazione” dei capitali bancari in Europa, ossia ad un processo generalizzato di liquidazioni e acquisizioni delle banche dei paesi più deboli a favore delle banche dei paesi relativamente più forti, che costituisce forse l’aspetto più rilevante dell’attuale tendenza alla “mezzogiornificazione” dei paesi periferici dell’eurozona. A tal proposito, è interessante notare che uno dei primi effetti dell’introduzione dell’unione bancaria sembra essere proprio la fuga di grandi quantità di capitali (depositi) dall’Europa meridionale, specialmente l’Italia, verso le banche tedesche, lussemburghesi e olandesi. Ma cosa possiamo farci? Sono “i mercati” ad aver deciso così.
 
Thomas Fazi - www.eunews.it