Che
qualcosa non funzioni nelle narrazioni ufficiali lo dimostra il fatto
che il crollo delle borse asiatiche e in particolare cinesi avviene
perché gli investitori (leggi grandi banche e istituti finanziari che
controllano il risparmio mondiale) fanno finta di essere spaventati dai
dati economici di Pechino e in particolare dal rallentamento
dell’industria: quest’anno il pil cinese aumenterà appena del 7 e
qualcosa per cento. Vale a dire tre volte di più rispetto ai dati
ufficiali e ahimè pesantemente taroccati in eccesso degli Usa, cinque o
sei volte più della Germania e 35 volte più dell’Italia che pure sta
attraversando quel popò di miracolo renziano come ogni giorno i media
maistream e i “semplici cittadini” milionari ci fanno sapere.
Questo significa che al di là delle apparenze le borse non hanno più
alcuna attinenza con l’economia reale e perciò stesso con le persone: i
listini, le aziende quotate, i prezzi delle materie prime non sono che
una sorta di segnaposto come quelli in uso nei casinò, sono i prestanome
di un’economia che produce denaro dal denaro. Del resto già l’anno
scorso era uscito uno studio che dimostrava come gli aumenti azionari
delle aziende statunitensi volati verso le stelle dopo la prima botta
della crisi, erano di molte volte superiori all’aumento delle
redditività che anzi a causa della domanda declinante facevano segnare
solo aumenti nominali e diminuzioni reali. Tutto questo viene alimentato
dal denaro a costo zero (naturalmente per le banche e le aziende, mica
per i semplici cittadini che sono anzi spremuti senza pietà) sia in Usa
che in Europa e negli ultimi anni anche in Asia: un flusso di denaro
necessario a mantenere in vita una bolla simile a un buco nero, dove le
leggi del mondo normale non valgono più. A un’impresa di una certa
dimensione ormai conviene usare il denaro non per investirlo in
produzione e servizi, ma per per comprare le proprie azioni sul mercato,
farle crescere, realizzare un utile che poi viene riutilizzato in nuove
operazioni dello stesso genere.
Quindi non stiamo parlando di una bolla particolare, ma semplicemente
del fatto che le borse stesse sono divenute la bolla nella quale
respira il capitalismo finanziario, la placenta nella quale si nutre. Ma
per crescere ha bisogno del nutrimento fornito dai quantitative easing,
cioè del denaro che alla fine saranno i cittadini a dover pagare sotto
varie forme, compresa la crisi della democrazia e l’aumento dei
profitti che ciò permette. Per questo assisteremo nelle prossime
settimane a una volatilità senza precedenti, alle montagne russe: i
grandi decisori hanno preso il pretesto del presunto declino cinese, del
resto simmetrico al calo della domanda occidentale, per creare
un’incertezza che eviti la fine del quantative easing della federal
reserve, ossia l’aumento dei tassi da tempo annunciato per settembre che
fatalmente trascinerebbe analoghe decisioni della Bce.
Non è ancora tempo di un ritorno all’economia reale, quello avverrà
quando verrà al pettine l’enorme massa dei derivati, ossia il peso delle
scommesse più azzardate che hanno ipotecato il futuro per parecchi
decenni visto che assommano a diverse decine di volte il pil mondiale.
Tanto per dare un’idea la sola Deutsche Bank ne detiene per oltre 50
mila miliardi di euro, vale a dire il valore del pil tedesco per
vent’anni. Adesso siamo solo alla messinscena del possibile crollo
(testimoniato dagli strani rimbalzi e cadute nel giro di poche ore) per
evitare quello vero.
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