Il vuoto drammatico
lasciato dalle sinistre in Europa suggerisce di guardare ad ogni
tentativo di ricostruirne una con attenzione e cura. In Italia in
particolare un atteggiamento diverso sarebbe ingeneroso e del
resto non si vede chi se lo potrebbe permettere. La trama di temi che,
accompagnando il nuovo tentativo che si annuncia, Norma Rangeri
ha indicato, costituisce un campo di ricerca assai impegnativo e in
ogni caso ineludibile. Ma, come si sa, il dubbio accompagna ogni
fede profonda.
Il grande navigatore
ha sintetizzato la sua impresa con il famoso «buscar el levante por
el poniente». Ma s’è trattato di un’impresa così eccezionale da non
essere ripetuta.
Se l’obiettivo della
ricostruzione di un soggetto politico della sinistra capace di
essere protagonista della vita del Paese venisse perseguito per
questa via, dubito che raggiungerebbe la meta.
La politica
istituzionale non è mai stata così screditata. Mai è stato così
grande lo iato tra il popolo e le istituzioni, tra il popolo e i
partiti. Mai così devastato è stato il campo della sinistra
politica. Dopo il fallimento del comunismo nelle società
postrivoluzionarie e dopo la sconfitta storica del movimento
operaio in Occidente, una rivoluzione capitalistica ha
instaurato in Europa un nuovo ordine sulle macerie del compromesso
democratico conquistato dalla lotta di classe in seguito alla
vittoria contro il nazifascismo.
Il capitalismo
finanziario globale ha riconquistato una vocazione totalitaria e
rivela ogni giorno la sua incompatibilità con la democrazia, con i
diritti dei lavoratori e della persona, fino a proporsi l’ambizione
della creazione di una nuova antropologia: l’uomo della
concorrenza e della competitività. Emerge qui subito una domanda
capitale: la soggettività politica di cui c’è bisogno deve porsi
il problema della liberazione del lavoro e della persona contro il
nuovo capitale, riacchiappando il filo perduto dei «vinti giusti»
del Novecento? E se sì, come?
Sento tutta l’immensità
del problema, ma penso che senza porselo non ci sia né salvezza né
resurrezione per la sinistra in Europa.
L’Europa in cui viviamo
ha tradito tutte le sue promesse. Oggi l’Europa reale è oligarchica e
fondata sulla disuguaglianza. Le politiche di austerità non sono
il frutto soltanto di una miopia delle classe dirigenti, bensì sono
la loro riforma strutturale permanente. La costruzione europea è
esposta all’instabilità e alla crisi, che sono provocate sia da
fattori esterni (gli sconvolgimenti geopolitici nel mondo, i
germi della terza guerra mondiale) che da fattori interni (le
contraddizioni sociali, quelle tra le diverse aree economiche e
l’incertezza sulla sorte del dollaro), ma anche da fattori che
potremmo chiamare «esterni-interni» (l’epocale problema
dell’immigrazione).
L’instabilità è
costantemente bloccata dal sistema politico-istituzionale prodotto
dalla costituzione materiale affermatasi in questo ultimo quarto
di secolo. In essa la democrazia e la sovranità popolare sono state
sostituite da un sistema funzionalistico che nega l’esistenza di
ogni alternativa alle scelte del governo e che legge il conflitto
sociale come una patologia.
Le istituzioni, i
partiti, le rappresentanze sociali sono sussunti a questo sistema
in cui la statualità è produttrice dell’ideologia dominante e il
concerto dei suoi governi è il luogo della decisione politica.
La rinascita di una
forza di sinistra deve allora essere pensata in questo quadro
tutt’affatto nuovo, non potendo più darsi il compito di traghettare
al di qua della linea di confine ciò che resiste del lungo dopoguerra
e che è ormai quasi niente. Il che vuol dire, secondo me, cambiare
proprio il paradigma dell’agire politico.
Ieri, per i
rivoluzionari come per i riformisti, questo paradigma era
ispirato dalla riformabilità del sistema, arrivando finanche a
pensare una possibile fuoriuscita.
Oggi, al contrario, deve essere illuminato dalla consapevolezza dell’irriformabilità del sistema dal suo interno.
Ma allora il tema della
soggettività critica, della forza necessaria per conquistare il
soddisfacimento di bisogni e desideri, diventa quello della
rottura e del prodursi dell’evento.
C’è del resto ormai
un’intera letteratura politica che è cresciuta su questi temi e
che costituisce un’utile base per lo sviluppo di questa ricerca. Il
tema è la conquista delle democrazia, della costruzione di quella
che un tempo si è chiamata «la democrazia piena». Se le cose stanno
così, una via senza sbocco è quella della «sinistra di governo». Quando
è immaturo, il tema del governo per la sinistra diventa tossico.
Oggi in tutta Europa si
vota per scegliere il governo, non più per sceglierne le politiche
che per l’essenziale sono pre-ordinate e garantite dall’oligarchia
dominante.
Di fronte
all’impossibilità che si determina di governare con il consenso le
politiche di austerità, il sistema vi supplisce con l’adozione di
sistemi elettorali che consentono di governare anche in minoranza.
I partiti, quando pure si presentino diversi in campagna
elettorale, una volta andati al governo si omologano sul fronte
della governabilità. Clamoroso il caso di Hollande in Francia. Se
si dà un’eccezione (come accade con la Grecia, dove nasce, vive e
vince una nuova forza politica di sinistra radicale e
maggioritaria, mentre crolla il sistema precedente fondato
sull’alternanza), allora sarà il vincolo esterno, cioè l’Europa reale, a
impedirle l’uscita dal modello economico, sociale e istituzionale
dominante.
Di nuovo si ritorna alla
questione cruciale, che è quella dei rapporti sociali, dei rapporti
di forza tra le classi, dei rapporti tra i popoli e le classi
dirigenti in tutta la realtà europea. La scomparsa della contesa
politica tra destra e sinistra (per inabissamento della sinistra),
ha polarizzato il conflitto tra il basso e l’alto della società.
La cinica rivincita
delle élite, il rovesciamento del conflitto di classe e la mutazione
genetica dei partiti della sinistra l’hanno promossa e
alimentata. Ora è impossibile saltare il problema. Ciò che viene
chiamato «populismo» in Europa dà luogo a formazioni politiche
dai profili molto differenti tra di loro, ed è una realtà di massa.
L’attraversamento di questo fenomeno è diventato un banco di prova
ineludibile, nella costruzione di una nuova soggettività di
sinistra che si ponga l’obiettivo della massa critica e dell’efficacia
del suo agire, ma questo richiede un progetto politico e una prassi
sociale adeguati alla nuova situazione.
Le esperienze di Syriza
e di Pomedos sono ciò che vive della nuova generazione della
sinistra in Europa, e ci dicono chiaramente che essa non può più
nascere né per scissione né per ricomposizione delle forze di
sinistra del ciclo precedente. Al contrario, la rinascita della
sinistra è ora suscitata da un evento, da una rottura (il lungo ciclo
di lotte sociali in Grecia o l’irruzione degli indignados in
Spagna).
Al levante è assai più
prossima la problematica orizzontale della politicizzazione e
della socializzazione del conflitto — a cui allude ad esempio la
coalizione sociale — che quella verticale della costruzione del
nuovo partito. La strada è certamente assai difficile, data la
scomposizione dei soggetti sociali, la loro frantumazione e
spesso la solitudine dei conflitti, ma è l’unica promettente.
Nel nuovo ciclo sociale e
politico la piazza, le esperienze di autogoverno, il rinascere del
conflitto sociale, se pure in luoghi diversi e mai unificati, le
azioni dirette, le campagne referendarie sono ciò che resta fuori
dal nuovo ordine oppressivo, come restano fuori antiche culture,
quando sono investite da una testimonianza forte come quella di Papa
Francesco nel mondo cattolico.
Alain Badiou ha scritto,
per indicare la rottura necessaria, dell’ «evento che genera
l’esistenza degli inesistenti». La storia del movimento operaio,
occupando l’intera scena della politica, l’aveva reso non
necessario. Ma ora, dopo la sua sconfitta, il levante torna a
riaffacciarsi da lì. E lì allora dovrebbe collocarsi il lavoro
politico per la rinascita della sinistra.
Fonte: il manifesto
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