La
crescita dei salari e qualche miglioria nelle prestazioni lavorative
sono il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rinascente lotta di
classe in Cina e una qualche disponibilità ad allentare i cordoni delle
borse - visti i margini esistenti - da parte delle classi dirigenti. In
altre parole si aprono spazi di riformismo reale, che però la recente
decisione della Banca centrale rimette fortemente in discussione
Mentre le miopi e ingorde élite europee si accaniscono contro la
pagliuzza greca, la trave cinese è penetrata nell’occhio della finanza
mondiale. Tre svalutazioni dello yuan stanno mettendo in
fibrillazione il mondo intero e le Borse vanno in picchiata. Solo
l’Europa «brucia» circa 230 miliardi nello spazio di un mattino.
Praticamente i due terzi dell’intero debito greco. E non è finita.
Indubbiamente la mossa della Banca centrale cinese si iscrive nel
capitolo delle «svalutazioni competitive», come giustamente
scritto qui Pieranni. Pechino doveva reagire in qualche modo al
crollo del proprio export che a luglio ha maturato una flessione
dell’8%. D’altro canto il tentativo di svoltare nelle politiche
economiche, puntando sulla valorizzazione e il potenziamento
del mercato interno, era ed è obiettivo troppo ambizioso per potersi
realizzare in breve tempo. Ma da qui a dire che è fallito, ce ne
corre. Almeno per il momento ed in base ai dati disponibili. Alcuni
commenti letti in queste ore peccano di una evidente
sottovalutazione delle capacità proteiformi del capitalismo,
di quello cinese in particolare. Troppo presto per suonare le
campane a morto, anche se lo si vorrebbe.
La mossa cinese ha più motivazioni. C’è innanzitutto un fatto in
controtendenza al quadro mondiale che va messo in evidenza. In
Cina si è venuta realizzando negli ultimi anni una crescita dei
salari medi, come ha registrato anche la stampa economica
mainstream. Niente di eccezionale, visto che partivano da livelli
molto bassi. Ma pur sempre un elemento significativo, soprattutto
perché non deriva solo da una maggiore capacità nel prevenire e nel
fronteggiare gli effetti della crisi mondiale da parte delle classi
dirigenti cinesi rispetto a quelle di altri paesi — basta pensare alla
Unione europea — ma soprattutto da una presa di coscienza da parte
delle classi lavoratrici cinesi nei settori manifatturieri.
Ovvero la crescita dei salari e qualche miglioria nelle
prestazioni lavorative è il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra
una rinascente lotta di classe in Cina e una qualche disponibilità
ad allentare i cordoni delle borse — visti i margini esistenti — da
parte delle classi dirigenti. In altre parole si aprono spazi di
riformismo reale, che però la recente decisione della Banca centrale
rimette fortemente in discussione.
Infatti l’aumento delle retribuzioni è già sufficiente per
intaccare la proverbiale competitività delle merci cinesi, ma non
ancora in grado di fare da volano alla domanda interna, ovvero
all’incremento dei consumi. La crisi mondiale impedisce che questa
venga sostituita, senza interventi di tipo monetario, dalla domanda
estera. Nello stesso tempo le previsioni sulla crescita
quantitativa cinese non sono ottimali. Alcuni centri di analisi le
stimano inferiori persino di parecchio a quelle ufficiali, tenendo
conto dell’andamento dei consumi energetici e della stessa
produzione industriale. Lo stupore dei cinesi di fronte alle
reazioni stizzite internazionali, ma non di tutti, non deriva solo
dalla tradizionale astuta doppiezza orientale.
Non hanno torto quando affermano che non hanno fatto altro che
quello che il resto del mondo capitalistico chiedeva loro, ovvero
aprirsi al mercato. L’obiettivo non è dunque una generica e confusa
guerra valutaria — peraltro già in corso con altri mezzi — quanto
quello di rispondere positivamente alle condizioni poste dallo
stesso Fmi — che infatti ha gradito — per permettere allo yuan di
affiancare le altre monete importanti nel paniere dei Diritti
speciali di prelievo (Sdr nell’acronimo inglese). Questo farebbe
dello yuan una moneta di riserva globale. Il che la renderebbe più
stabile e ridurrebbe il bisogno di detenere riserve massicce,
liberalizzandone l’uso.
I primi a subire le conseguenze negative della decisione cinese
sono i paesi del sud est asiatico, come il Vietnam (mai amato, come
è noto, dai cinesi) che ha provveduto anch’esso ad allargare la banda
di oscillazione della propria moneta per reggere la concorrenza
internazionale. Anche qui la mossa cinese ha una logica tutt’altro
che imprevedibile. Vuole rispondere al tentativo americano di
stringerle attorno un cappio con il Tpp, l’accordo commerciale con
i paesi del Pacifico, che non a caso la esclude. La stessa massiccia
immissione di liquidità (il quantitative easing) da parte della Fed
ha reso ipercompetitivo il dollaro. Se di qualcosa ci saremmo
dovuti stupire è che prima o poi non si manifestasse una reazione
cinese.
Ma chi rischia veramente grosso è come al solito la nostra Europa.
Da un lato le merci cinesi diventeranno più competitive
e probabilmente i cinesi spenderanno meno da noi. Il tutto potrebbe
tramutarsi persino in un campanello d’allarme utile a smorzare
i toni trionfalistici della Germania, molto interessata al
mercato orientale, ma ci verrebbe un’altra politica a Berlino. La
crisi sta cambiando gli assetti del mondo. Anche l’eterogenesi dei fini
gioca il suo ruolo. The Times They Are a-Changin’, anche se in una
direzione ben diversa da quella auspicata da Bob Dylan più di 50
anni fa.
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