L’astro
di Renzi attraversa gravi turbolenze. Si era appena concluso il
braccio di ferro sulla scuola quando il Pd è stato battuto in
Liguria, a Venezia e ad Arezzo. In Europa gli scontri su
immigrazione e Grecia hanno sancito l’irrilevanza del giovane
nocchiero e ora i sondaggi lo mortificano, abbattendo di 8 punti
la mitica soglia del 40%. Non per questo il premier arretra. Anzi,
rilancia. Mettendo così a nudo i più riposti intenti.
Minaccia il sindaco di Roma e il presidente della Sicilia, che hanno il torto di non appartenere alla schiera dei fedeli. Stringe accordi con la crème del parlamento (i compari di Lombardo, Cosentino e Verdini). E attacca ad alzo zero lavoratori e sindacati (Alitalia e Pompei), lancia l’offensiva sul fisco perfezionando la mutazione thatcheriana del governo.
Sembrano trascorsi secoli dai tempi dell’Ulivo prodiano, quando il centrosinistra si illudeva di coniugare neoliberismo ed equità. Quelle pretese sono smascherate nella loro inconsistenza.
E il capo del governo muove ardito alla meta: la compiuta normalizzazione neoliberale del paese. Che deve succedere ancora perché finalmente si assuma che, finché Renzi avrà il timone, il Pd punterà dritto verso un centrismo moderato affaristico, verso un centrodestra di fatto, forse nella speranza di allineare l’Italia agli standard dei paesi forti dell’eurozona per mezzo di misure recessive che generano, al contrario, il solo risultato di ribadire la fragilità economica del paese e la sua dipendenza, fondata su deficit strutturali – l’arretratezza tecnologica, i divari territoriali, il peso delle famiglie, delle clientele e delle camorre in ogni settore dell’economia, della vita civile, delle istituzioni?
Per dirla in volgare, il discorso non può che partire da una premessa netta: la funzione regressiva svolta dal Pd. Tutta la storia di questa legislatura lo dimostra. Il che chiama in causa la penosa condotta tenuta dalla sedicente opposizione interna a quel partito. La «sinistra» interna ha ingoiato tutto pur avendo i numeri (il voto contrario sulla Rai ne è la prova) per mandarlo a sbattere. La scusa è la necessità di «salvare la ditta». Ma la ditta è un valore se difende il lavoro, i diritti, la democrazia, la Costituzione; se riduce le ingiustizie e disuguaglianze che attraversano il paese. È realistico supporre che il Pd possa servire allo scopo? Non lo è.
Non solo perché la «sinistra» interna è sempre più debole e scomposta. Il punto è che quella «sinistra» ha smesso di essere tale dal giorno del Lingotto veltroniano. In realtà già qualche decennio addietro. Chi ha vissuto il travaglio della sinistra comunista e post-comunista dagli anni Ottanta a questa parte non può sottovalutare la profondità della sua mutazione culturale. Si è trattato di una trasvalutazione di tutti i valori. L’idea che aveva dato corpo e anima alla sinistra italiana è stata spedita in archivio come un’anticaglia, soppiantata dalla «moderna» visione di una società «aperta» imperniata sulla centralità del mercato e sulla sovranità del capitale privato, a malapena mascherata dalle parole d’ordine della meritocrazia, della concorrenza, della flessibilità.
Lo schema bersaniano va rovesciato. Altro che essere grati a chi resiste nel Pd «da sinistra» perché «tiene dentro quel partito l’elettorato progressista».
Quest’azione è stata ed è tra tutte la più perniciosa: trattiene milioni di consensi in una prigione. Perché confonde lo scenario col perpetuare l’illusione dell’appartenenza del Pd a una sinistra socialdemocratica che peraltro dilegua in tutta Europa. Perché impedisce al grosso dell’elettorato di sinistra di incidere in coerenza con le proprie intenzioni. Perché ostacola il sorgere di una forza di sinistra che finalmente restituisca al paese (al mondo del lavoro e ai ceti subalterni) una rappresentanza politica.
Nell’intervista al manifesto Susanna Camusso lamentava la passione della sinistra per le divisioni. Che la denuncia del settarismo colga nel segno lo dimostra tutta l’infausta storia di Rifondazione comunista. Ma è vero paradossalmente anche l’opposto: che l’immaturità di una forza si manifesta nell’incapacità di comprendere quando una divaricazione si impone, quando diviene vitale la pratica dell’autonomia, quel che Gramsci chiamò «spirito di scissione».
Tutto dipende dalla capacità di giudizio. La questione della sinistra in Italia va ormai affrontata di petto, con la consapevolezza che, finché il quadro resterà stagnante, Renzi potrà fare e disfare, malgrado i disastri che dissemina. Forte dell’assenza di alternative decenti e, soprattutto, della confusione che regna sovrana a sinistra.
Minaccia il sindaco di Roma e il presidente della Sicilia, che hanno il torto di non appartenere alla schiera dei fedeli. Stringe accordi con la crème del parlamento (i compari di Lombardo, Cosentino e Verdini). E attacca ad alzo zero lavoratori e sindacati (Alitalia e Pompei), lancia l’offensiva sul fisco perfezionando la mutazione thatcheriana del governo.
Sembrano trascorsi secoli dai tempi dell’Ulivo prodiano, quando il centrosinistra si illudeva di coniugare neoliberismo ed equità. Quelle pretese sono smascherate nella loro inconsistenza.
E il capo del governo muove ardito alla meta: la compiuta normalizzazione neoliberale del paese. Che deve succedere ancora perché finalmente si assuma che, finché Renzi avrà il timone, il Pd punterà dritto verso un centrismo moderato affaristico, verso un centrodestra di fatto, forse nella speranza di allineare l’Italia agli standard dei paesi forti dell’eurozona per mezzo di misure recessive che generano, al contrario, il solo risultato di ribadire la fragilità economica del paese e la sua dipendenza, fondata su deficit strutturali – l’arretratezza tecnologica, i divari territoriali, il peso delle famiglie, delle clientele e delle camorre in ogni settore dell’economia, della vita civile, delle istituzioni?
Per dirla in volgare, il discorso non può che partire da una premessa netta: la funzione regressiva svolta dal Pd. Tutta la storia di questa legislatura lo dimostra. Il che chiama in causa la penosa condotta tenuta dalla sedicente opposizione interna a quel partito. La «sinistra» interna ha ingoiato tutto pur avendo i numeri (il voto contrario sulla Rai ne è la prova) per mandarlo a sbattere. La scusa è la necessità di «salvare la ditta». Ma la ditta è un valore se difende il lavoro, i diritti, la democrazia, la Costituzione; se riduce le ingiustizie e disuguaglianze che attraversano il paese. È realistico supporre che il Pd possa servire allo scopo? Non lo è.
Non solo perché la «sinistra» interna è sempre più debole e scomposta. Il punto è che quella «sinistra» ha smesso di essere tale dal giorno del Lingotto veltroniano. In realtà già qualche decennio addietro. Chi ha vissuto il travaglio della sinistra comunista e post-comunista dagli anni Ottanta a questa parte non può sottovalutare la profondità della sua mutazione culturale. Si è trattato di una trasvalutazione di tutti i valori. L’idea che aveva dato corpo e anima alla sinistra italiana è stata spedita in archivio come un’anticaglia, soppiantata dalla «moderna» visione di una società «aperta» imperniata sulla centralità del mercato e sulla sovranità del capitale privato, a malapena mascherata dalle parole d’ordine della meritocrazia, della concorrenza, della flessibilità.
Lo schema bersaniano va rovesciato. Altro che essere grati a chi resiste nel Pd «da sinistra» perché «tiene dentro quel partito l’elettorato progressista».
Quest’azione è stata ed è tra tutte la più perniciosa: trattiene milioni di consensi in una prigione. Perché confonde lo scenario col perpetuare l’illusione dell’appartenenza del Pd a una sinistra socialdemocratica che peraltro dilegua in tutta Europa. Perché impedisce al grosso dell’elettorato di sinistra di incidere in coerenza con le proprie intenzioni. Perché ostacola il sorgere di una forza di sinistra che finalmente restituisca al paese (al mondo del lavoro e ai ceti subalterni) una rappresentanza politica.
Nell’intervista al manifesto Susanna Camusso lamentava la passione della sinistra per le divisioni. Che la denuncia del settarismo colga nel segno lo dimostra tutta l’infausta storia di Rifondazione comunista. Ma è vero paradossalmente anche l’opposto: che l’immaturità di una forza si manifesta nell’incapacità di comprendere quando una divaricazione si impone, quando diviene vitale la pratica dell’autonomia, quel che Gramsci chiamò «spirito di scissione».
Tutto dipende dalla capacità di giudizio. La questione della sinistra in Italia va ormai affrontata di petto, con la consapevolezza che, finché il quadro resterà stagnante, Renzi potrà fare e disfare, malgrado i disastri che dissemina. Forte dell’assenza di alternative decenti e, soprattutto, della confusione che regna sovrana a sinistra.
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