Le mosse cinesi sono sempre meditate, a volte magari
inefficaci, mai improvvisate. Questione di cultura, che semmai
privilegia la cautela anche a costo di “perdere l'attimo fuggente”
piuttosto che affrontare il rischio senza adeguata preparazione e “piani
B”.
Per questo la maggior parte delle “spiegazioni” addotte dagli analisti e dai giornalisti occidentale alla tripla svalutazione dello yuan
– e alle altre che potrebbero seguire – appaiono un clamoroso scambio
tra ciò che si è abituati a fare qui (arsenale argomentativo compreso) e
quello che invece avviene in base ad un modo di ragionare che ci appare
incomprensibile. Per manifesta ignoranza occidentale.
Nei giorni scorsi la rivista Limes, il miglior esempio di analisi geostrategica “italiana” che ci sia in commercio, ha pubblicato un intervento del generale Quiao Liang, famoso qui da noi per un eccellente saggio (Guerra senza limiti) sulla novità teorica principale in campo militare, la guerra asimmetrica.
Il ragionamento svolto qui, però, affronta un'altra novità strategico-militare dei tempi moderni: la finanza conta oggi più delle portaerei e quasi sempre le sostituisce. Deve quindi avventurarsi in campo economico finanziario con una logica strategica e coglie sicuramente il punto fondamentale: dal 1971 ad oggi gli Stati Uniti hanno controllato il mondo manovrando gli strumenti monetari e finanziari, mentre le guerre locali che hanno combattuto sono servite soprattutto ad assicurare la credibilità del Pentagono come “sottostante” della moneta. Detto
altrimenti: il mondo è costretto o convinto ad accettare dollari dal
valore reale imperscutabile perché la solidità degli Stati Uniti è
garantita dalla loro forza militare e dal sistema finanziario sotto il
loro relativo controllo.
Non è una tesi particolarmente originale (vedi anche Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek Edizioni), e molto spesso il generale forza
l'interpretazione di alcuni episodi della storia del dopoguerra per
convalidarne la potenza euristica. A volte sembra considerare la
capacità di manovrare il valore del dollaro come l'unico motore di crisi
e rivolgimenti globali, senza calcolare l'oggettività delle dinamiche
complessive del capitalismo. Comprensibile,
per una mente militare, che è obbligata a ragionare in termini di
strategie consapevoli, di soggettività organizzata per aggiungere
obiettivi. Anche a costo di perdere di vista la natura impersonale dei rapporti capitalistici di produzione e scambio.
Ma è una tesi sostanzialmente esatta.
Il principale modo in cui gli Usa hanno tentato di governare le crisi e
rinsaldare la propria egemonia – declinante per quanto riguarda la
potenza produttiva e ormai anche per quanto concerne
la superiorità tecnologica – è stato proprio l'uso del dollaro, la
manovra dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, oltre ad
alcune iniziative militari e/o diplomatiche (con relativa “guerra
dell'informazione”, ça va sans dire).
Il ciclo illustrato da Quiao Liang è concettualmente semplice, anche se inverato da strumentazione monetaria e finanziaria di complessità inquantificabile: dieci anni di dollaro debole,
in cui i capitali finanziari si spargono per il mondo, facendo emergere
o resuscitare economie arretrate grazie alla disponibilità illimitata
degli investimenti a basso tasso di interesse, seguiti da sei anni di dollaro forte,
in cui quei capitali rientrano nel circuito statunitense, facendo
crollare le economie che hanno abbandonato. Gli effettidi una guerra,
anche senza la guerra (che poi magari scoppia all'interno dell'area in crisi, per conflittualità endogene riattizzate dalla crisi).
Una distruzione di energue e capacità produttive che appare insensata solo a chi non ne comprende la necessità all'interno della crescita capitalistica, orientata al profitto, non alla soddisfazione dei bisogni o al pieno sviluppo di un'economia equilibrata.
Al termine dei sei anni di distruzione, infatti,
ecco che quei capitali hanno davanti un pezzo di mondo disponibile a
farsi comprare e rivitalizzare a prezzi stracciati. E, con il dollaro di
nuovo debole, e con i tassi di interesse di nuovo vicini allo zero,
quei capitali fanno incetta di ottime occasioni.
Quiao Liang non ne parla, per ovvii motivi, ma il meccanismo che illustra è straordinariamente simile a quello interno all'Unione Europea, anche se con una tempistica molto diversa e soprattutto all'interno della stessa area monetaria. Nella Ue, infatti, la dinamica del dollaro (forte/debole) è sostituita da quella del debito,
proprio perché non ci sono differenze temporali di valore tra monete
diverse. A una periodo di credito facile verso paesi “deboli” per
struttura e capaicità produttiva, ha fatto seguito un periodo di austerità,
in cui la “restituzione del debito” deve avvenire anche a costo di
strangolare la capacità produttiva del paese indebitato. La deflazione
salariale che ne segue crea le condizioni favorevoli al ritorno dei
capitali mutinazionali, così come le privatizzazioni e liberalizzazioni
mettono a disposizione asset interessanti a prezzi stracciati. Basta un
solo esempio: quello dei 14 aeroporti turistici greci
che stanno per essere comprati da Fraport, società privata tedesca che
gestisce l'hub di Francoforte. Ma anche l'Italia fornisce innumerevoli
esempi di svendita del patrimonio industriale. Gli effetti di una
guerra, senza che stia stato sparato un solo colpo.
Tornando a Quiao Liang, questo
“ciclo” è stato a suo avviso perturbato in due occasioni. Con l'attacco
alle Torri Gemelle del 2001 e dalle “contromosse” cinesi di questi
ultimi anni, fino alla definizione delle “vie della seta” come
alternativa strategica – anche “quasi militare” - alla parossistica
tendenza alla guerra che costituisce
il dna dell'egemonia globale Usa. Non viene detto, ma è una conseguenza
logica: tutto si basa sulla scommessa che sia possibile erodere la
centralità del dollaro – quindi dell'egemonia Usa – prima o senza che
gli Stati Uniti portino il pianeta a una guerra “senza limiti”.
Obiettivo
possibile? Dipende. In fondo la “mutua distruzione assicurata” garantita
dagli arsenali nucleari ha reso impraticabile la guerra tra superpotenze
per sette decenni (al prezzo delle cento guerre “per procura”
combattute direttamente o indirettamente in tutti gli angoli del mondo).
In più, oggi, c'è
la novità strategica che la finanza conta più delle portaerei. I cinesi
stanno costruendo la loro prima portaerei, ma non ci fanno sopra
affidamento strategico. Sulla finanza, invece...
*****
Qiao LIANG
I. LA CONGIUNTURA GEOPOLITICA CINESE E IL CICLO DEL DOLLARO
Per la prima volta nella storia, la nascita di un impero finanziario
Esistono
certamente compagni, esperti di finanza, che meglio di me potrebbero
parlare di economia. Tuttavia io ho intenzione di affrontare il tema da
un punto di vista meramente strategico. Iniziamo dal principio. Con
l’obiettivo di appropriarsi della leadership geopolitica e valutaria
della Gran Bretagna, nel luglio del 1944 gli Stati Uniti promossero la
nascita di tre sistemi globali: uno eminentemente politico, le Nazioni
Unite; un altro commerciale, il Gatt (successivamente trasformato nel
Wto); e uno monetario e finanziario, il sistema di Bretton Woods. Allora
proposero ai paesi del globo di agganciare le varie monete nazionali al
dollaro che, a sua volta, sarebbe stato agganciato all’oro con un
prezzo fisso di convertibilità di 35 dollari per oncia.
Nel
tempo il modello di Bretton Woods realizzò la leadership del biglietto
verde, ma proprio la commutabilità aurea, che impediva di stampare
valuta ad libitum, riduceva il margine di manovra della Federal Reserve.
Peraltro, dopo la seconda guerra mondiale la superpotenza decise
scioccamente di partecipare alla guerra di Corea e a quella del Vietnam,
conflitti finanziariamente assai dispendiosi. In particolare
quellovietnamita, che costò all’erario circa 800 miliardi di dollari.
Così se nel 1944 gli Stati Uniti possedevano circa l’80% delle riserve
auree mondiali, nell’agosto del 1971 queste erano scese a circa 880
tonnellate e i guai stavano per cominciare. Anche a causa delle manovre
di alcuni leader internazionali. Come Charles de Gaulle che, sospettoso
della tenuta della divisa Usa, ordinò al ministero delle Finanze e alla
Banca centrale francesi di convertire in oro l’intero portfolio da circa
2,3 miliardi di dollari. Molte nazioni emularono l’affondo di de Gaulle
spingendo Washington a un passo dal collasso.
Per
questo il 15 agosto il presidente Richard Nixon annunciò la fine del
sistema aureo. Terminavano gli accordi di Bretton Woods e non era chiaro
cosa sarebbe successo. Dopo essere stato usato come moneta di scambio e
di riserva per quasi trent’anni, ora il dollaro non era più agganciato
all’oro. Come misurare il valore delle merci negli scambi bilaterali?
Come fidarsi delle altre valute? Molte nazioni sembravano spaesate. Tra
queste Unione Sovietica e Cina, che si rifiutarono di riconoscere le
rispettive monete e continuarono a usare il dollaro per i loro commerci.
Un’inerzia
globale che nell’ottobre del 1973 consentì agli americani di imporre la
propria volontà ai membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di
petrolio (Opec): da quel momento la vendita di greggio sarebbe stata
effettuata in dollari.
Abbandonato
l’oro, la Casa Bianca aveva agganciato la valuta nazionale alla risorsa
energetica strategica per eccellenza. Era una mossa tanto semplice
quanto razionale: giacché ogni nazione necessita di energia e dunque di
petrolio, da quel momento non avrebbe potuto fare a meno del dollaro.
Tramontato il sistema aureo, era quella un’altra svolta nella storia
monetaria del globo, benché all’epoca se ne accorgessero in pochi.
Ancora oggi molti economisti ed esperti di finanza non comprendono che
l’evento più rilevante del XX secolo non è stato né la seconda guerra
mondiale, né il crollo dell’Unione Sovietica, bensì proprio l’abbandono
delgold standard. Nasceva allora l’impero finanziario statunitense che
avrebbe attirato al suo interno l’intera umanità.
Per
la prima volta, sostrato di una valuta non era più un metallo prezioso,
ma la credibilità del governo Usa che se ne sarebbe servito per
accrescere la propria influenza e sottrarre ricchezza al resto del
mondo. Nel corso dei secoli gli esseri umani hanno realizzato profitti
in molti modi – dalla manipolazione del tasso di cambio all’utilizzo di
oro o argento, fino all’appropriazione di beni altrui attraverso la
guerra – ma d’ora in poi il dollaro, quale semplice cartamoneta, avrebbe
garantito a Washington un rapporto costi-benefici estremamente
vantaggioso. Tuttora la diffusione all’estero del biglietto verde
permette all’America di mantenere sottocontrollo il tasso di inflazione,
che altrimenti con la possibilità di creare moneta in quantità
illimitata raggiungerebbe livelli pericolosi. A questa si aggiunge la
frugalità della Federal Reserve, che in cento anni di storia – tra il
1913 e il 2013 – ha stampato «appena» 10 mila miliardi di dollari,
proprio per limitarne il deprezzamento.
A
partire dal 1954, da quando cioè ha coniato la nuova divisa, la Banca
centrale cinese ha emesso invece 120 mila miliardi di yuan, che se
convertiti in dollari a un tasso di cambio del 6,2 equivalgono a 20 mila
miliardi. Non una grandezza esagerata.
Pechino
incamera un gigantesco volume di dollari che, a causa dei controlli sul
mercato valutario, non possono circolare sul territorio nazionale ed è
dunque costretta a stampare una somma di renminbi corrispondente a
quella della divisa estera. In futuro però, dopo aver ottenuto il
profitto desiderato, gli investimenti stranieri potrebbero
volatilizzarsi, lasciando in circolazione una quantità sproporzionata di
yuan. Già adesso Pechino ammette che sul territorio nazionale è
presente gran parte dei 120 mila miliardi di renminbi stampati. Ecco
perché è necessario occuparsi della questione successiva:
l’internazionalizzazione della nostra moneta.
La relazione tra il ciclo del dollaro e l’economia mondiale
Con
la diffusione globale del dollaro la superpotenza s’è liberata
dell’inflazione. Visto che produrre un grande volume di denaro ne
causerebbe la perniciosa svalutazione, essa emette buoni del Tesoro per
spingerlo fuori dal paese. E quando questo rientra in patria attraverso
la vendita del debito inizia un gioco diverso, con gli americani che da
una parte producono moneta e dall’altra ottengono prestiti. In sintesi:
fanno soldi con i soldi. Ma se è più semplice arricchirsi con la finanza
piuttosto che con l’economia reale, chi è disposto a lavorare duramente
in industrie dal basso valore aggiunto? Dopo il 15 agosto 1971 gli
Stati Uniti hanno gradualmente abbandonato l’economia reale in favore di
quella virtuale e sono diventati una nazione vuota. Nel frattempo il
pil Usa ha raggiunto i 18 mila miliardi di dollari, ma la componente
dell’economia reale non supera i 5 mila miliardi.
Con
l’emissione di bond un enorme volume di dollari circolante all’estero
torna nei tre cruciali mercati statunitensi: quello azionario, quello
dei futures e quello del debito. Il flusso di moneta in entrata e in
uscita produce profitti e fa dell’America un impero valutario, oltre che
il centro del sistema finanziario globale. Molti pensavano che con il
declino dell’impero britannico si fosse conclusa l’esperienza
colonialista, ma gli Usa utilizzano il dollaro proprio come malcelato
strumento di espansione, controllando le altre economie e trasformandole
in colonie. Esistono numerose nazioni – tra queste la Cina – che,
seppur sovrane e indipendenti, dotate di unacostituzione e di un
governo, non riescono ad affrancarsi dal dominio del biglietto verde. La
taglia della loro economia è comunque espressa in dollari e parte della
loro ricchezza si trasferisce negli Stati Uniti attraverso il commercio
e il flusso di valuta.
Possiamo
comprendere il fenomeno attraverso lo studio del tasso di cambio del
dollaro registrato negli ultimi quarant’anni. Nel 1971 lo sganciamento
dall’oro consentì alla Federal Reserve di stampare liberamente moneta,
così la circolazione del dollaro aumentò e il tasso di cambio rimase
basso fino alla fine degli anni Settanta. Una dinamica senz’altro
positiva per l’economia mondiale, poiché una maggiore disponibilità di
dollari si tradusse in un aumento del flusso di capitali.
Invece
di restare in loco, gran parte del denaro si riversò all’estero.
Soprattutto in America Latina, dove stimolò gli investimenti e produsse
crescita. Fino al 1979, quando la Fed chiuse i rubinetti: il dollaro si
rafforzò e la liquidità si ridusse notevolmente, tanto in patria quanto
nel resto del globo. In America Latina gli investimenti diminuirono, la
disponibilità finanziaria si esaurì e l’economia entrò in crisi.
Nel
continente sudamericano ogni nazione provò a escogitare un sistema per
mettersi in salvo. Anche l’Argentina, che negli anni Settanta era
divenuta, in termini di reddito pro capite, un’economia sviluppata, ma
che con lo scoppio della crisi era stata la prima nazione a scivolare in
recessione. Giunto al potere in seguito a un colpo di Stato, il
generale Leopoldo Galtieri, a totale digiuno di economia, pensò di
risolvere la situazione con la guerra. Mise gli occhi sulle isole
Malvine, un arcipelago posto a 600 chilometri dalle coste argentine e
che da quasi duecento anni con il nome di Falkland Islands appartiene
alla corona britannica. Deciso ad appropriarsi delle isole, Galtieri
volle interpellare sul tema l’egemone continentale. Nel 1982 alcuni
collaboratori del generale si incontrarono a Washington con il
presidente Ronald Reagan che, pur consapevole dell’incombenza della
guerra, si limitò a definire la questione un affare tra argentini e
britannici. «Rimaniamo neutrali», annunciò.
Galtieri
interpretò l’ambiguità di Reagan come acquiescenza e poco tempo dopo
lanciò la campagna delle Malvine che condusse alla veloce occupazione
delle isole. Il popolo argentino festeggiò l’evento quasi fosse
carnevale, ma la mancata accettazione del fait accompli da parte del
primo ministro britannico Margaret Thatcher costrinse il presidente
americano a schierarsi. Reagan si tolse la maschera e condannò duramente
l’aggressione argentina, mentre Londra inviava nell’Atlantico
meridionale la propria flotta che, dopo aver percorso 8 mila miglia
marine, riconquistò le Falklands.Nel frattempo il dollaro cominciò ad
apprezzarsi e un eccezionale numero di capitali fece ritorno negli Stati
Uniti. Lo scoppio della guerra delle Malvine persuase gli investitori
internazionali che l’America Latina era in piena crisi e nel continente
il clima economico si guastò. La Federal Reserve sfruttò il momento
propizio per annunciare un aumento del tasso di interesse che innescò un
massiccio trasferimento di capitali dal Sudamerica verso i tre mercati
statunitensi (debito, futures, azionario).
L’infusione
di denaro generò il primo grande boom borsistico dalla fine del gold
standard. Il tasso di cambio del dollaro, che fino ad allora era
cresciuto di 60 punti, aumentò in pochi giorni di 120 punti. I mercati
Usa non trattennero la nuova liquidità, piuttosto aumentarono i profitti
acquistando asset di grande valore proprio in America Latina dove i
prezzi erano crollati, saccheggiando ulteriormente le economie locali.
Se
nella storia il fenomeno si fosse registrato una sola volta sarebbe da
considerarsi una rara coincidenza, ma dato che si ripete con
straordinaria puntualità deve trattarsi di un evento artificiale. Eppure
al tempo di questo primo ciclo – dieci anni di dollaro debole e sei
anni di dollaro forte – gli analisti non ne compresero la scientificità.
Superata
la fase acuta della depressione latinoamericana, a partire dal 1986 il
tasso di cambio del dollaro cominciò a scendere di nuovo. Neppure le
crisi finanziarie giapponese ed europea riuscirono ad arrestarne la
picchiata. Fino a che, dieci anni più tardi, la divisa tornò ad
apprezzarsi nuovamente. Ancora una volta il «dollaro forte» sarebbe
durato circa sei anni.
A
metà degli anni Ottanta l’Asia era una regione in grande espansione
economica, con le cosiddette quattro Tigri a dominare la scena. Molti
credevano che l’inedita prosperità continentale fosse il frutto del duro
lavoro, dell’intelligenza e del senso per gli affari della popolazione
locale. In realtà a stimolare la crescita era stato l’afflusso dei
dollari e appena le economie locali divennero abbastanza prosperose, gli
americani pensarono fosse giunto il momento di raccogliere quanto
seminato. Così nel 1997, dopo dieci anni di dollaro debole, la Federal
Reserve tagliò la disponibilità monetaria, causando un sostanziale
apprezzamento della valuta nazionale. Numerose industrie asiatiche
furono colpite dall’improvvisa assenza di liquidità e alcune non
riuscirono a ricapitalizzarsi: erano i segnali del crollo. A
dimostrazione che per causare sconvolgimenti non è necessario fare la
guerra, ma può bastare una manovra finanziaria. Specie se l’obiettivo è
appropriarsi di capitali altrui. All’epoca centinaia di hedge funds e
speculatori del calibro di George Soros, alla guida del Quantum Fund,
cominciarono ad attaccare come lupi famelici le economie più deboli
della regione (tra queste la Thailandia di cui colpirono duramente la
divisa nazionale, il bath). In poco più di una settimana il contagio si
estese gradualmente verso sud(coinvolgendo la Malesia, l’Indonesia, le
Filippine e Singapore) e verso nord, fino alla Russia. Anche nel caso
asiatico gli investitori stabilirono che convenisse abbandonare il
continente e mentre la Fed aumentava i tassi d’interesse, trasferirono i
loro capitali nei mercati statunitensi, che avrebbero vissuto una nuova
stagione rialzista. Come in America Latina, gli Stati Uniti
utilizzarono i risparmi accumulati per comprare asset asiatici a prezzi
stracciati, mentre le economie locali apparivano
devastate. Solo la Cina si salvò.
Ora è il nostro turno
Sei
anni più tardi il dollaro tornò debole e, puntuale come la marea, nel
2012 la Federal Reserve ne ha segnalato l’imminente apprezzamento. Nel
tempo il trucco è rimasto lo stesso: provocare crisi regionali a scapito
delle nazioni indigene. Di recente lo abbiamo visto con l’incidente del
Cheŏnan (la nave sudcoreana affondata nel 2010 forse da un missile di
P’yŏngyang,n.d.t.); nella disputa per le isole Diaoyu/Senkaku tra Cina e
Giappone; e in quella per l’isola Huangyan/Scarborough Shoal tra Cina e
Filippine. Ma gli Stati Uniti, che giocavano col fuoco in casa propria,
nel 2008 sono stati travolti a loro volta dalla crisi finanziaria. Ne è
conseguito un ritardo nel rafforzamento del dollaro, mentre gli scontri
per Hungyan e le isole Diaoyu non sembrano aver avuto un rilevante
impatto finanziario. Perché tali incidenti sono avvenuti proprio
all’inizio del decennale periodo di debolezza della valuta Usa?
Scrutando
gli eventi attraverso il prisma del ciclo del dollaro, teso a
distruggere le economie antagoniste, possiamo stabilire che è giunto il
turno della Cina, da tempo divenuta un magnete per gli investimenti
stranieri. La Repubblica Popolare è più di una nazione: la sua economia è
grande quanto quella dell’America Latina (in termini di pil lo è
perfino di più) ed è pressoché identica a quella dell’intera Asia
orientale.
Nell’ultimo
decennio l’afflusso di capitali stranieri ha consentito a Pechino di
crescere a una velocità sconvolgente e di diventare la seconda economia
del mondo.
Nulla
di stupefacente dunque se ora l’egemone globale punta a guastarne il
successo. Per questo a partire dal 2012 si sono susseguite numerose
dispute nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, fino allo scontro nel
2014 tra Cina e Vietnam per la piattaforma petrolifera hd-981 e il
costituirsi a Hong Kong del movimento Occupy
Central.
Quando nel maggio del 2014 accompagnai a Hong Kong il generale Liu
Yazhou, commissario politico dell’Università nazionale per la Difesa, la
protesta appariva in fermento e sarebbe potuta deflagrare già allora,
ma nulla è accaduto almeno fino ad agosto. Cosa aspettavano i
manifestanti? Proviamo a confrontare lacronologia di Occupy Central con
lo sviluppo di un altro evento: la cadenzata fine del quantitative
easing (Qe) decisa dalla Federal Reserve. Per tutta l’estate la Banca
centrale ha mantenuto il dollaro debole, rendendo inutile l’inizio delle
proteste. Solo l’annunciata fine del Qe nel settembre successivo ha
provocato il rafforzamento del biglietto verde e inaugurato Occupy
Central.
La
contesa per le isole Diaoyu, per Huangyan, per la piattaforma
petrolifera hd-981, nonché le proteste a Hong Kong, sono quattro eventi
potenzialmente esplosivi. Se anche uno solo di questi deflagrasse, il
subcontinente cinese non apparirebbe più appetibile agli investimenti.
Uno sviluppo che realizzerebbe la strategia di Washington, per cui
quando il dollaro si apprezza una regione del globo deve essere
investita dalla crisi. Questa volta però, la superpotenza si è
schiantata contro la forza della Repubblica Popolare. I cinesi hanno
usato il metodo del taijiquan per sventare ciascuno degli attacchi
sferrati nella loro regione, con il risultato che quanto auspicato dagli
americani non si è realizzato. La situazione è lontana dal punto di
rottura e la Fed non può ancora permettersi di alzare i tassi
d’interesse. Eppure, malgrado le difficoltà, gli Stati Uniti non hanno
intenzione di rinunciare all’impresa. In simultanea con il sostegno
fornito a Occupy Central, hanno cominciato ad agire in altre aree
geografiche. A partire dall’Ucraina. All’inizio del 2014 hanno pensato
di colpire il paese guidato da Viktor Janukovyč, non certamente un
modello di efficienza e trasparenza, perché costituiva un obiettivo
facile. Inoltre, un intervento contro Kiev avrebbe arrestato
l’avvicinamento in corso tra Unione Europea e Russia e avrebbe influito
negativamente sul clima per gli investimenti. Di fatto, come prendere
tre piccioni con una fava. Si è verificata così una rivoluzione colorata
che si è spinta perfino oltre gli obiettivi dei suoi ideatori. Putin,
l’uomo forte di Mosca, ha colto l’occasione per riconquistare la Crimea,
ma la mossa è servita agli Stati Uniti per premere sull’Ue e sul
Giappone affinché adottassero sanzioni stringenti contro la Russia,
colpendo duramente anche l’economia europea.
Qual
è il senso dell’offensiva americana? Spesso si tende a interpretare
quanto accade soltanto con gli strumenti della geopolitica e non con
quelli della finanza. La crisi ucraina ha provocato un netto
deterioramento delle relazioni tra Russia e Occidente, mentre le
sanzioni contro Mosca hanno rallentato l’afflusso di investimenti verso
l’Europa e provocato una massiccia fuga di capitali. Secondo alcuni
rilevamenti, negli ultimi mesi più di mille miliardi di dollari
avrebbero abbandonato il Vecchio Continente. Tuttavia la duplice
offensiva si è dimostrata solo parzialmente efficace.
Impossibilitata
a toglierli alla Cina, l’America ha sottratto capitali all’Europa.
Questi però si sono diretti soprattutto verso Hong Kong. È evidente che
gli investitori noncredono nella ripresa statunitense e preferiscono
affidarsi al Celeste Impero che, ancorché in frenata, può ancora vantare
il più alto tasso di crescita del mondo.
L’anno
scorso il governo di Pechino ha poi annunciato una sinergia tra le
Borse di Shanghai e Hong Kong e gli investitori globali bramano per
profittare della novità. In passato i capitali occidentali non osavano
accedere al mercato azionario cinese, a causa dei severi controlli sugli
scambi tra monete e della difficoltà ad abbandonare il paese. Ma con la
creazione della Shanghai and Hong Kong Markets Communication ora
possono investire in entrambi i mercati e ritirarsi quando vogliono. Non
a caso, mentre più di mille miliardi di dollari si riversavano su Hong
Kong, i manifestanti di Occupy Central si rifiutavano di mollare. Obama
intendeva sfruttare fino all’ultimo la sommossa per i suoi scopi.
La
dipendenza assoluta degli Stati Uniti dai flussi internazionali di
capitali risiede nell’abbandono, avvenuto con la fine del gold standard,
della produzione manifatturiera e dell’economia reale. Gli americani
considerano «spazzatura» le imprese che producono beni dal basso valore
aggiunto (sunset industries) e per questo le hanno gradualmente
trasferite nei paesi in via di sviluppo, tra questi la Cina. Se si
escludono industrie high-tech come Ibm, Microsoft ed altre, il governo
Usa ha favorito l’esodo nel settore finanziario del 70% dei posti di
lavoro. Divenuto industrialmente vuoto e privo dell’apporto
dell’economia reale, il paese vive esclusivamente di economia virtuale.
Riesce a produrre soldi soltanto con i capitali stranieri che accedono
ai tre mercati interni e poi utilizza i profitti per spennare il resto
del mondo. È questo ormai il suo unico sostentamento: chiamiamolo pure
American way of life. La superpotenza ha bisogno di assorbire grandi
quantità di capitale per sorreggere l’economia nazionale e mantenere il
livello di benessere dei cittadini. Pertanto chiunque cerchi di
interrompere il flusso in questione è da considerarsi un nemico
strategico. Se non comprendiamo questo non possiamo valutare con
lucidità la situazione attuale.
II. A CHI HA ROVINATO LA FESTA LA RAPIDA ASCESA DELLA CINA?
Perché la nascita dell’euro scatenò una guerra?
L’euro
nacque il primo gennaio del 1999. Tre mesi più tardi, cominciò la
guerra del Kosovo. Molti credettero che gli Stati Uniti e la Nato
avessero unito le forze per combattere il regime serbo di Milošević che,
con il massacro degli albanesi etnici, stava provocando una tragedia
umanitaria. Poi, al termine del conflitto, gli americani ammisero che si
era trattato di una campagna realizzata congiuntamente dalla Cia e dai
media occidentali per colpire Belgrado. Ma la guerra in Kosovo fu
realmente combattuta contro la Jugoslavia? Nei giorni del lancio della
moneta unica, gli europei apparivano in preda all’euforia. Tanto da
fissare a 1,07 il cambio con il dollaro e da partecipare massicciamente
alla campagna dei Balcani. Solo quando, dopo 72 giorni di bombardamenti,
il regime di Milošević crollò, a Bruxelles compresero che i conti non
tornavano. Durante il conflitto l’euro si era deprezzato del 30%,
raggiungendo quota 0,82 dollari. Per questa ragione quattro anni più
tardi Francia e Germania si sarebbero veementemente opposte alla guerra
in Iraq.
Sebbene
molti analisti sostengano che le democrazie occidentali non si
combattono fra loro, negli ultimi anni si sono registrate numerose
guerre finanziarie ed economiche. Una di queste fu proprio quella del
Kosovo, nociva tanto per la Jugoslavia quanto per l’euro. D’altronde con
la sua nascita la moneta unica aveva rotto l’idillio del dollaro che
prima del 1999 rappresentava l’indiscussa divisa globale, usata per
l’80% delle transazioni internazionali (oggi lo è per il 60%). Con 27
mila miliardi di dollari l’Unione Europea era divenuta la regione
economica più grande del mondo, maggiore della North American Free Trade
Area (24-25 mila miliardi di dollari), ed era inevitabile che l’euro
erodesse di almeno un terzo le transazioni effettuate dal dollaro
(attualmente il 23% degli scambi mondiali avviene nella moneta unica
europea). Quando gli Stati Uniti si accorsero che l’euro minacciava il
primato del dollaro era già troppo tardi. Imparata la lezione, adesso
intervengono per annientare preventivamente qualsiasi avversario.
Cosa vuole ottenere l’America con il suo ribilanciamento strategico verso l’Asia-Pacifico?
In
questa fase la Cina costituisce il principale avversario della
superpotenza. Gli scontri del 2012 per le isole Diaoyu e Huangyan non
sono altro che gli ultimi tentativi di colpire un potenziale rivale.
Entrambi gli eventi sono avvenuti nell’area geopolitica cinese e,
nonostante non siano riusciti a innescare una fuga di capitali, hanno
comunque raggiunto parzialmente gli obiettivi. Nello specifico hanno
nuociuto gravemente al trattato di libero scambio dell’Asia
nordorientale (Northeast Asian Fta). Se agli inizi del 2012 il negoziato
tra Cina, Giappone e Corea del Sud appariva a un passo dalla
conclusione (nell’aprile dello stesso anno Pechino e Tokyo avevano
raggiunto un’intesa preliminare in tema di scambio di yen e buoni del
Tesoro), le successive dispute per le isole hanno reso impraticabili
entrambi gli obiettivi. A distanza di tre anni è stato a malapena
completato il negoziato bilaterale tra Cina e Corea del Sud. Gli Stati
Uniti temono fortemente il Northeast Asian Fta perchéquesto, includendo
Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Macao e Taiwan, diventerebbe
con circa 20 mila miliardi di dollari di pil complessivo la terza area
economica del mondo. Non soltanto. In futuro potrebbe inglobare anche
l’area di libero scambio del Sud-Est asiatico e creare così un gigante
da oltre 30 mila miliardi di dollari, l’economia più grande del globo.
Se poi si unissero anche l’India, le cinque repubbliche dell’Asia
Centrale e il Medio Oriente, raggiungerebbe i 50 mila miliardi di
dollari di pil, più dell’Unione Europea e del Nafta messe insieme. Come
accaduto al dollaro in Nord America e successivamente nel mondo, lo yuan
diventerebbe la valuta utilizzata nelle transazioni di un immenso
mercato comune.
L’internazionalizzazione
del renminbi non avrebbe un significato esclusivamente monetario.
Rappresenterebbe anche il volano della politica delle vie della seta che
condurrebbe alla tripartizione tra dollaro, euro e yuan del primato
valutario globale e alla divisione del mondo in tre blocchi commerciali.
Gli americani ne sono perfettamente consapevoli e per questo hanno
premuto su Giappone e Filippine affinché si scontrassero con la Cina.
Del resto se il dollaro coprisse appena un terzo degli scambi globali,
come potrebbero gli Usa mantenere la loro supremazia monetaria? Ancor
più importante, come può una nazione priva di un’economia reale restare
leader mondiale se perde l’egemonia monetaria? Per capire cosa sta
succedendo dobbiamo riconoscere che dietro le recenti difficoltà della
Repubblica Popolare si cela la longa manus di Washington, abituata a
pensare nel lungo periodo e ora impegnata a disinnescare l’insidia
cinese. È questa la principale ragione del perno asiatico, il cui vero
obiettivo non è creare un pacifico equilibrio tra la Cina e le potenze
locali, quanto stroncare sul nascere le nostre ambizioni.
III. SOLDATI AMERICANI COMBATTONO IN NOME DEL DOLLARO
La guerra irachena e la valuta utilizzata nella vendita del petrolio
Tutti
concordano nel sostenere che il potere a stelle e strisce si regge su
tre pilastri: denaro, tecnologia e Forze armate. Adesso però possiamo
affermare che i pilastri sono soltanto quello monetario e quello
militare, con il Pentagono impegnato a sostenere il dollaro. Fare la
guerra è assai dispendioso, ma gli Stati Uniti sono in grado di
guadagnare denaro combattendo, indipendentemente dalle dolorose
sconfitte subite di recente.
Ad
esempio: perché hanno invaso l’Iraq? Molti risponderebbero «per il
petrolio», ma si sbagliano. Se gli Usa puntavano agli idrocarburi,
perché mai dopo l’invasione del paese non hanno ottenuto neanche una
goccia di greggio? Perché il prezzo al barilepassò tra l’inizio e la
fine della guerra da 38 a 149 dollari, gravando sulle tasche dei
cittadini statunitensi? La ragione è molto semplice: Iraqi Freedom è
stata pensata solo per il biglietto verde. Come ormai sappiamo, per
mantenere la supremazia globale la superpotenza ha bisogno che il mondo
usi la sua valuta. Per raggiungere tale obiettivo nel 1973
l’amministrazione Nixon si dimostrò scaltra nel costringere l’Arabia
Saudita e le principali nazioni dell’Opec a utilizzare il dollaro per la
vendita dell’oro nero. E quando gli Stati Uniti attaccano una nazione
produttrice di petrolio, il prezzo del greggio schizza in alto e con
esso anche la domanda globale della loro divisa. Con la Federal Reserve
libera di adottare una politica monetaria espansiva.
C’è
anche un’altra ragione per cui George W. Bush volle la guerra. Saddam
Hussein non sosteneva al-Qā’ida, né nel paese vi era traccia di armi di
distruzione di massa, ma il ra’īs negli anni precedenti aveva peccato di
hybris. In particolare, nel 1999 Saddam aveva annunciato l’intenzione
di vendere in euro gli idrocarburi iracheni.
Una
decisione presto emulata dal presidente russo Vladimir Putin, da quello
iraniano Mahmud Ahmadi-Nejad e dal leader venezuelano Hugo Chávez. È
proprio questo che irritò gli americani. Non a caso il primo decreto
emesso dal governo di Baghdad nel dopo invasione stabiliva che
l’esportazione del petrolio sarebbe stata effettuata in dollari.
La guerra in Afghanistan e il surplus nella bilancia dei pagamenti americana
Se
il conflitto in Iraq fu ordito per mantenere il primato del dollaro,
secondo molti osservatori lo stesso non si può dire della guerra in
Afghanistan. Anche perché nel paese dell’Asia centrale non vi sono
idrocarburi e la campagna fu lanciata immediatamente dopo l’11 settembre
per punire al-Qā‘ida e i taliban. Cominciata circa un mese dopo il
crollo delle Torri Gemelle, l’Operazione Enduring Freedom fu realizzata
in tutta fretta. Il Pentagono non poté fare altro che attingere agli
arsenali nucleari, rimuovendo mille testate atomiche dai missili Cruise e
rimpiazzandole con testate convenzionali. Dopo rastrellò altri
novecento missili e solo allora poté battere l’Afghanistan. Questa è la
riprova che la preparazione era stata assai carente. Dunque perché
scatenare la guerra tanto velocemente?
All’alba
del XXI secolo gli Stati Uniti erano una nazione industrialmente nulla
che per sopravvivere aveva bisogno ogni anno di assorbire dall’estero
circa 700 miliardi di dollari. Gli attentati dell’11 settembre avevano
guastato il clima per gli investimenti come mai accaduto prima e in
circa trenta giorni oltre 300 miliardi di dollari avevano lasciato il
paese. Il nocciolo della questione era fin troppo chiaro: se l’America
non era in grado di difendere il proprio territorio, come poteva
garantire la sicurezza finanziaria degli investitori? La guerra doveva
dunque servire a riconquistare la fiducia dei mercati. E Washington
centrò agilmente l’obiettivo.
Quando
i primi missili Cruise colpirono Kabul, l’indice Dow Jones guadagnò 600
punti in un solo giorno e al termine dell’invasione circa 400 miliardi
di dollari fecero ritorno negli Stati Uniti.
Perché le portaerei saranno sostituite da sistemi globali di attacco rapido
Molti
cultori della storia della Marina da guerra si aspettano grandi cose
dalla portaerei cinese Liaoning, giacché una grande nazione deve
necessariamente possederne almeno una. Tuttavia l’economia globale è
sempre più incentrata sulla tecnologia finanziaria e la rilevanza delle
portaerei appare in netto declino. L’impero britannico, che al suo
apogeo vendeva manufatti in cambio di risorse naturali, necessitava di
una Marina potente che garantisse la sicurezza del commercio globale e
mantenesse praticabili le vie marittime. Lo sviluppo delle portaerei
ottemperava perfettamente a questa funzione. Allora il motto era «la
logistica è sovrana» e controllare il commercio via mare significava
decidere della ricchezza globale. Oggi però viviamo in un’èra in cui a
regnare sovrano è il denaro. Centinaia, se non addirittura migliaia di
miliardi di capitale si spostano da un luogo all’altro in pochi secondi
con la semplice pressione di un tasto del computer. La portaerei che
solca gli oceani può dominare la logistica, ma priva della stessa
velocità, non è in grado di controllare i trasferimenti di valuta. Come
fare dunque per stare al passo con la direzione, la grandezza e la
velocità di tali flussi alimentati da Internet? Gli americani stanno
sviluppando un sistema globale di attacco rapido che, dotato di testate
balistiche e caccia supersonici cinque o dieci volte più veloci di un
missile Cruise, può colpire qualsiasi luogo in cui si concentrano gli
investimenti. Il Pentagono sostiene di poter realizzare in meno di 28
minuti un attacco militare in qualsiasi parte del mondo. E appena un
missile Usa centra l’obiettivo scatta puntuale la fuga di capitali. Ecco
perché i sistemi globali di attacco rapido sono destinati a sostituire
le portaerei. Certo, le piattaforme marittime continueranno a proteggere
il transito commerciale e a condurre missioni umanitarie, ma in futuro
un armamento sarà valido solo se in grado di incidere sui flussi di
denaro.
IV. LA AIRSEA BATTLE: IL NODO GORDIANO DEGLI AMERICANI
Nel
tentativo di escogitare il sistema più efficace per contrastare la
Cina, di recente il Pentagono ha coniato il concetto di AirSea battle,
che a mio parere rappresenta un ineludibile dilemma. Annunciata al
summit dell’Aeronautica e della Marina Usa del 2010, tale strategia
palesa l’attuale declino delle Forze armate statunitensi. In precedenza
la superpotenza era certa che un attacco condotto simultaneamente dal
cielo e dal mare contro la Repubblica Popolare l’avrebbe posta in una
posizione favorevole. Ciò nonostante, circa quattro anni più tardi la
AirSea battle ha già cambiato nome per trasformarsi in «concetto di
comune coinvolgimento globale e di mobilità congiunta». Ora Washington
afferma che i due rivali non si faranno la guerra per almeno dieci anni,
anche perché studi recenti dedicati allo sviluppo delle Forze armate
cinesi hanno dimostrato che le attuali capacità militari degli Stati
Uniti non bastano per annullare i vantaggi acquisiti da Pechino nella
distruzione dei sistemi spaziali e nell’attacco alle portaerei. Sicché
in questa fase il Pentagono si sta industriando per realizzare un
sistema di combattimento maggiormente sofisticato, che renda possibile
un conflitto armato nel decennio successivo. Uno scenario che potrebbe
non avverarsi e che non vorremmo affrontare, ma al quale dobbiamo
comunque prepararci, sia sul piano economico che militare.
V. IL SIGNIFICATO STRATEGICO DELLE VIE DELLA SETA
Occupiamoci
della passione degli americani per lo sport. Il pugilato in particolare
riflette l’idea di forza che hanno: attacco frontale, colpi diretti,
movimenti chiari, il knockout che sancisce la vittoria. Al contrario i
cinesi, che apprezzano le sfumature e la sinuosità, non puntano a
stendere l’avversario, quanto a comprenderne e ad annullarne le mosse.
Nella Repubblica Popolare si pratica il taiji, un’arte nettamente
superiore alla boxe. Il modello delle vie della seta riflette questo
approccio.
Storicamente
è l’ascesa delle grandi potenze a innescare la globalizzazione: un
processo discontinuo, legato a doppio filo all’epopea del soggetto
geopolitico dominante. E se con l’impero romano o con quello Qin la
globalizzazione mantenne un’estensione regionale, fu con la Gran
Bretagna che raggiunse dimensioni realmente universali. Gli Stati Uniti,
che si sono sostituiti al Regno Unito, hanno invece realizzato la
globalizzazione del dollaro, così le vie della seta, piuttosto che
segnalare l’integrazione della Cina in un sistema straniero, rappresenta
la fase iniziale di un analogo processo indipendente. Presto il dollaro
andrà in declino e la Repubblica Popolare, in quanto grande potenza,
soppianterà l’egemone con un suo peculiare modello.
Quella
delle vie della seta è di gran lunga la migliore strategia securitaria
che Pechino possa adottare contro il ribilanciamento verso Oriente
perseguito dal Pentagono.
Qualcuno
potrà obiettare che solitamente il contenimento di un rivale si fa
nella sua stessa direzione, ma il modo più efficace per rispondere al
perno asiatico è andare nella direzione opposta. Ovvero muoversi verso
Occidente. Non per evitare il confronto, né per paura. Quanto per
allentare la pressione esercitata su di noi a Oriente. Le vie della seta
rappresentano un progetto composto da priorità diverse. Dal momento che
la nostra Marina è ancora debole, dobbiamo competere via terra, con il
continente come prima direzione d’attacco e i mari come traiettoria
secondaria. In tale contesto l’Esercito cinese, che all’interno del
territorio nazionale è di fatto invincibile, ricoprirà un ruolo cruciale
e nostro obiettivo primario sarà espanderne le capacità di proiezione
all’estero.
L’anno
scorso ho affrontato questo argomento al Global Times Forum. Ho
spiegato che nello scegliere la Cina come avversario, l’America ha
commesso un grave errore. Soprattutto perché, in vista del futuro, il
suo rivale è se stessa e finirà per autodistruggersi. Non comprende che
il capitalismo finanziario è declinante e che, privilegiando l’economia
virtuale, ne ha già drenato i benefici. Inoltre l’innovazione
scientifica e tecnologica, nel cui ambito la Silicon Valley rimane
l’indiscusso leader mondiale, spingerà all’estremo innovazioni come
Internet, big data, cloud che, assumendo vita propria, si trasformeranno
nei principali oppositori del capitalismo finanziario e annienteranno
la superpotenza.
Alcuni
segnali sono già visibili. Ad esempio, l’11 novembre 2014, il giorno
che in Cina corrisponde a San Valentino, lo shopping online su Alibaba’s
Taobao ha toccato i 50,7 miliardi di yuan, mentre negli Stati Uniti nei
tre giorni successivi alla festa del ringraziamento si sono registrate
vendite online e di persona per un totale di 40,7 miliardi di yuan. Uno
scarto significativo, ottenuto senza tenere conto di siti quali Netease,
Tencent, Jingdong, o degli incassi dei centri commerciali. È fin troppo
chiaro che una nuova èra è iniziata e che alla Casa Bianca non ne sono
consapevoli.
Peraltro,
su Alibaba tutti gli acquisti sono stati effettuati attraverso il
sistema di pagamento diretto Alipay: di fatto la moneta è già stata
estromessa dalle transazioni.
Che succederà agli Usa, un impero costruito sulla valuta, se il dollaro diventa inutile?
È questa la domanda che dovrebbero porsi i nostri interlocutori.
Anche
la stampante 3D rappresenta una svolta e causerà una rivoluzione nel
settore industriale. E se il commercio e i sistemi di produzione si
stanno evolvendo, anche ilmondo è destinato a cambiare radicalmente. La
storia dimostra che solo le innovazioni determinano un reale mutamento.
Fu ai tempi dell’imperatore Qin che il popolo cinese, guidato da Chen
Sheng e Wu Guang, cominciò a ribellarsi e in duemila anni di storia si
sono registrate decine di rivolte. Ma benché questi movimenti abbiano
prodotto numerosi cambi di regime, non sono riusciti a trasformare la
natura della società rurale, né i sistemi di produzione o il modo di
commerciare. Lo stesso è accaduto in Occidente con Napoleone, che pur
conducendo la Francia a conquistare l’Europa, una volta sconfitto a
Waterloo non poté impedire il ripristino dell’ancien régime e della
società feudale. Al contrario la rivoluzione industriale, innescata
dall’invenzione del motore a vapore, sconvolse il mondo provocando un
aumento della produzione, un surplus di manufatti e con questi l’avvento
del capitale e dei capitalisti.
Oggi
proprio con il tramonto delle valute materiali e l’emergere della
stampante 3D l’umanità appare prossima a entrare in una nuova èra.
Washington e Pechino partono pressoché alla pari in tema di Internet,big
data e cloud. Il punto è stabilire chi saprà muoversi meglio in questa
nuova fase storica, anziché prevedere chi riuscirà a sopraffare l’altro.
Poiché il suo principale nemico è se stessa, l’America ha individuato
nella Cina il rivale sbagliato. Eppure non comprende l’errore. È troppo
bramosa di mantenere la propria solitaria leadership e non ha intenzione
di condividere lagovernance mondiale con le altre nazioni. Mentre
affrontare insieme questa nuova epoca, piena di incognite e di barriere
sconosciute, appare del tutto necessario.
(traduzione di Dario Fabbri)
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