Dopo le elezioni europee
si fa un gran parlare dell’abbandono delle politiche di austerità da
parte dell’Unione Europea. A sostegno di questa tesi si citano le
dichiarazioni di Renzi, quelle di Hollande e da ultimo le dichiarazioni della Merkel. La parola magica che caratterizza tutte queste prese di posizione è flessibilità, crescita e lotta alla disoccupazione.
La mia tesi è che il cambio di toni e di parole d’ordine non segna un cambio di linea politica. O meglio, che l’abbandono sul piano comunicativo delle politiche di austerità non significa per nulla l’abbandono delle politiche neoliberiste. Innanzitutto prendiamo le dichiarazioni della Merkel. La cancelliera tedesca dice con chiarezza che la flessibilità riguarda il raggiungimento degli obiettivi fissati nei trattati – a partire dal Fiscal Compact – non certo la loro messa in discussione. In altri termini la Merkel è disponibile a discutere le forme e i tempi di applicazione dei trattati solo al fine di renderli maggiormente efficaci nell’ottenimento dell’obiettivo.
Da questo primo elemento risulta quindi chiaro che l’obiettivo di medio termine non è in discussione e quindi non sono in discussione le politiche neoliberiste che guidano il complesso dei trattati europei. Il punto di discussione riguarda in particolare due aspetti: i tempi del rientro del debito fissato dal Fiscal compact e la possibilità di non conteggiare al fine del rispetto dei parametri di una serie di spese per investimenti infrastrutturali.
A me pare che la logica sia assolutamente chiara: negli anni scorsi la speculazione finanziaria – volutamente lasciata agire – è stata utilizzata al fine di obbligare gli Stati europei ad assumere il pareggio di bilancio e quindi l’abbandono strutturale delle politiche keynesiane, il taglio del welfare e le privatizzazioni come dati immodificabili. Una volta incassato il risultato politico, la Bce è intervenuta ponendo fine alla speculazione. Le politiche imposte attraverso lo shock dello spread – efficacissime sul piano politico – avevano come effetto collaterale il fatto di essere recessive, riducendo la domanda solvibile in molti paesi europei. Visto che il mercato europeo è molto integrato e che anche la Germania vende la maggior parte dei suoi prodotti in Europa, questa riduzione della domanda ha cominciato ad avere effetti negativi per tutti, effetti che si evidenziano nella sostanziale deflazione in cui versa il continente europeo. In altri termini per ottenere l’obiettivo politico di demolire il welfare e di innestare il “pilota automatico” si è prodotto un risultato problematico e pericoloso in termini economici.
A questo punto le classi dominanti hanno colto l’occasione delle elezioni europee – in cui i successi delle sinistre e delle destre hanno segnalato i rischi sociali connessi alle politiche messe in atto – per adattare l’indirizzo politico alla nuova situazione. Senza mettere in discussione gli obiettivi fissati nei trattati, cambiano registro comunicativo mettendo l’accento sulla flessibilità, cioè sul dare un po’ più di fiato all’economia, finalizzando il tutto alle riforme strutturali e ad un aumento della produttività.
In altre parole, una volta acquisito l’obiettivo politico, le classi dominanti si pongono l’obiettivo di gestire il raggiungimento pieno dello stesso producendo un mix di politiche che contengono:
- Maggior facilità di accesso al credito da parte delle aziende.
- Un rilancio delle grandi opere che sono ritenute strategiche: dai trasporti (Tav e non solo) alla differenziazione energetica – in Italia significherà proposte di rigassificatori lungo tutte le coste – alla infrastrutturazione telematica per non fare che alcuni esempi.
- Un rilancio delle privatizzazioni che in particolare in Italia si caratterizzerà come una vera e propria svendita di imprese statali e delle ex municipalizzate.
- Una riforma strutturale del mercato del lavoro, puntando ad una completa de regolazione dello stesso, cioè alla precarietà integrale definita per legge. Ovviamente la deregulation del mercato del lavoro porta con sé la marginalizzazione del ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva in un contesto di riduzione degli stipendi minimi per i paesi a più bassa produttività, come ha indicato Draghi qualche giorno fa.
Tutto l’impianto non è finalizzato ad un aumento del mercato interno, ma ad una crescita tirata dalle esportazioni, cioè basata sull’aumento della produttività e sulla riduzione del costo del lavoro.
Questo a me pare la vera posta in gioco nell’accordo tra popolari e socialisti: cambiare la comunicazione abbandonando il linguaggio dell’austerità e allargando un po’ i cordoni della borsa, proseguire nelle “riforme strutturali” finalizzate alla crescita tirata dall’aumento delle esportazioni, il tutto senza mettere in discussione il dominio dell’economia finanziaria e la distribuzione del reddito del tutto sbilanciata a favore di rendita e profitto. Quella odierna è quindi l’altra faccia della medaglia delle politiche di Monti ma risponde alla stessa logica ed è altrettanto inefficace per uscire dalla crisi. Per questo occorre combatterla senza farsi prendere ulteriormente in giro.
La mia tesi è che il cambio di toni e di parole d’ordine non segna un cambio di linea politica. O meglio, che l’abbandono sul piano comunicativo delle politiche di austerità non significa per nulla l’abbandono delle politiche neoliberiste. Innanzitutto prendiamo le dichiarazioni della Merkel. La cancelliera tedesca dice con chiarezza che la flessibilità riguarda il raggiungimento degli obiettivi fissati nei trattati – a partire dal Fiscal Compact – non certo la loro messa in discussione. In altri termini la Merkel è disponibile a discutere le forme e i tempi di applicazione dei trattati solo al fine di renderli maggiormente efficaci nell’ottenimento dell’obiettivo.
Da questo primo elemento risulta quindi chiaro che l’obiettivo di medio termine non è in discussione e quindi non sono in discussione le politiche neoliberiste che guidano il complesso dei trattati europei. Il punto di discussione riguarda in particolare due aspetti: i tempi del rientro del debito fissato dal Fiscal compact e la possibilità di non conteggiare al fine del rispetto dei parametri di una serie di spese per investimenti infrastrutturali.
A me pare che la logica sia assolutamente chiara: negli anni scorsi la speculazione finanziaria – volutamente lasciata agire – è stata utilizzata al fine di obbligare gli Stati europei ad assumere il pareggio di bilancio e quindi l’abbandono strutturale delle politiche keynesiane, il taglio del welfare e le privatizzazioni come dati immodificabili. Una volta incassato il risultato politico, la Bce è intervenuta ponendo fine alla speculazione. Le politiche imposte attraverso lo shock dello spread – efficacissime sul piano politico – avevano come effetto collaterale il fatto di essere recessive, riducendo la domanda solvibile in molti paesi europei. Visto che il mercato europeo è molto integrato e che anche la Germania vende la maggior parte dei suoi prodotti in Europa, questa riduzione della domanda ha cominciato ad avere effetti negativi per tutti, effetti che si evidenziano nella sostanziale deflazione in cui versa il continente europeo. In altri termini per ottenere l’obiettivo politico di demolire il welfare e di innestare il “pilota automatico” si è prodotto un risultato problematico e pericoloso in termini economici.
A questo punto le classi dominanti hanno colto l’occasione delle elezioni europee – in cui i successi delle sinistre e delle destre hanno segnalato i rischi sociali connessi alle politiche messe in atto – per adattare l’indirizzo politico alla nuova situazione. Senza mettere in discussione gli obiettivi fissati nei trattati, cambiano registro comunicativo mettendo l’accento sulla flessibilità, cioè sul dare un po’ più di fiato all’economia, finalizzando il tutto alle riforme strutturali e ad un aumento della produttività.
In altre parole, una volta acquisito l’obiettivo politico, le classi dominanti si pongono l’obiettivo di gestire il raggiungimento pieno dello stesso producendo un mix di politiche che contengono:
- Maggior facilità di accesso al credito da parte delle aziende.
- Un rilancio delle grandi opere che sono ritenute strategiche: dai trasporti (Tav e non solo) alla differenziazione energetica – in Italia significherà proposte di rigassificatori lungo tutte le coste – alla infrastrutturazione telematica per non fare che alcuni esempi.
- Un rilancio delle privatizzazioni che in particolare in Italia si caratterizzerà come una vera e propria svendita di imprese statali e delle ex municipalizzate.
- Una riforma strutturale del mercato del lavoro, puntando ad una completa de regolazione dello stesso, cioè alla precarietà integrale definita per legge. Ovviamente la deregulation del mercato del lavoro porta con sé la marginalizzazione del ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva in un contesto di riduzione degli stipendi minimi per i paesi a più bassa produttività, come ha indicato Draghi qualche giorno fa.
Tutto l’impianto non è finalizzato ad un aumento del mercato interno, ma ad una crescita tirata dalle esportazioni, cioè basata sull’aumento della produttività e sulla riduzione del costo del lavoro.
Questo a me pare la vera posta in gioco nell’accordo tra popolari e socialisti: cambiare la comunicazione abbandonando il linguaggio dell’austerità e allargando un po’ i cordoni della borsa, proseguire nelle “riforme strutturali” finalizzate alla crescita tirata dall’aumento delle esportazioni, il tutto senza mettere in discussione il dominio dell’economia finanziaria e la distribuzione del reddito del tutto sbilanciata a favore di rendita e profitto. Quella odierna è quindi l’altra faccia della medaglia delle politiche di Monti ma risponde alla stessa logica ed è altrettanto inefficace per uscire dalla crisi. Per questo occorre combatterla senza farsi prendere ulteriormente in giro.
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