Corruzione.
Devi essere pronto a qualunque misfatto per far girare la macchina. E’
l’etica neoliberista, lo spirito dell’attuale capitalismo. Modesti
politici locali e nazionali di colpo diventano padroni di un territorio
da cedere al privato. Corruzione e distruzione vanno insieme
Vasto dibattito sulla corruzione dilagante. Si cerca di
distillare dalla melma quotidiana i caratteri di fondo della
speciale pestilenza che imperversa sui cieli d’Italia. In una delle
sue pastorali domenicali, Eugenio Scalfari, intimo ormai del nostro
pontefice, riferiva il giudizio di papa Francesco sulle cause
spirituali: «cupidigia di potere, desiderio di possesso». Il papa
più radicale dell’evo moderno coglie nel segno. Ma certo
l’accaparramento di beni e potere, febbre dell’individuo
contemporaneo, è una costruzione storica, non il risultato della
perduta innocenza dell’Eden.
E’ il frutto dell’immaginario collettivo soggiogato dai valori
dominanti, drogato dalle trombe quotidiane di un linguaggio
pubblico fatto di esortazioni, di incitazioni a crescere, a
correre, a produrre di più, a lavorare più a lungo, a consumare
oltre, a essere flessibili, efficienti, più belli, più giovani, ad
“entrare nel futuro” tramite l’acquisto di qualche nuova auto o
televisore ad ampio schermo. E’ dunque l’etica neoliberistica –
per fare il verso a Weber – che anima l’attuale spirito del
capitalismo, a forgiare gli individui, pronti a qualunque
misfatto per ubbidire agli imperativi dell’epoca. E i media, che ora
vendono al pubblico le notizie-merce sulla corruzione, sono gli
stessi strumenti che distillano correntemente gli impulsi
ideologici di cui essa si alimenta. Ma la corruzione mostra anche
dell’altro: lo stato nazionale, non solo va perdendo la sua sovranità
politica, vede anche disfarsi i suoi collanti civili, per il venire
meno di un’idea di società come progetto collettivo.
Tuttavia, il fenomeno di cui si parla in questi giorni – che
certo in Italia assume caratteri speciali – non può essere limitato
agli episodi di accaparramento di denaro, aste e bilanci truccati,
come fanno universalmente cronisti e commentatori. Gli scandali
dell’ultimo mese, per essere afferrati nella loro gigantesca
portata, vanno riportati alla misura delle “grandi opere” e
collocati nel contesto italiano.
Nelle intenzioni oneste (e nella pubblicità politica) le grandi
opere avrebbero il fine di mettere insieme investimenti pubblici e
capitali privati per realizzare manufatti di generale utilità,
creando al tempo stesso un certo numero di posti di lavoro
temporaneo, allargando il mercato dei materiali per alcune fasce
di imprese. Osservate nella realtà esse appaiono costruzioni ben più
complesse: costituiscono un modo di operare del capitalismo del
nostro tempo. Le grandi imprese non investono nella produzione di un
nuovo bene, ma nella creazione, in genere, di un servizio. E
utilizzando una materia prima non riproducibile: il territorio.
Le grandi opere si realizzano consumando e manipolando in modo
più o meno irreversibile il nostro habitat. Ed esse sono
possibili, com’è noto, grazie al protagonismo del potere
pubblico. E qui si annida una prima e spinosa questione. Chi è il
potere pubblico? In genere un sindaco, gli amministratori locali,
parlamentari, dirigenti di partito, vale a dire rappresentanti
del ceto politico.
Questa nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui
ispirarsi, al momento di entrare in contatto con le grandi imprese,
subisce una metamorfosi incontenibile. I modesti politici locali
e nazionali, immersi nella normale routine, di colpo si ritrovano
detentori di un potere enorme, quello di concedere una porzione del
territorio nazionale all’uso del capitale privato. La politica
entra in contatto con le grandi imprese e tale passaggio le
squaderna davanti possibilità impensabili: danaro, potere,
contatti importanti con le élites della finanza, visibilità
mediatica, buona stampa, ecc. Buona stampa: quel che non emerge mai
nelle cronache e nei commenti di questi giorni è il potere di
formazione di opinione pubblica che hanno le grandi imprese,
attraverso i media locali e nazionali. Quanta nascosta corruzione
lega il potere economico-finanziario al mondo del giornalismo?
E’ evidente che da questo contatto tra grande impresa e politica
sortisce un risultato ormai costante: scolorisce sempre più il
proposito di realizzare il bene pubblico e nasce una convergenza
di interessi tra due distinti poteri, in cui soccombe l’interesse
collettivo.
Sorge dunque una prima rilevante questione: com’è possibile che
dei singoli cittadini, in quanto semplicemente eletti (sindaco,
parlamentare, ecc) si intestino la potestà di decidere sul destino
di aree a volte vaste e delicate del nostro paese? A chi appartiene
la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e
ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non
altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il
frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con
ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val
di Susa — già collegata alla Francia con un ferrovia
internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori —
che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km? A chi
appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a
Berlusconi, al ministro Alfano, che l’ha messo sotto assedio con una
operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni
che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza
nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le
generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che
dovrebbe far tacere i diritti locali? E il sottosuolo di Firenze,
dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una
stazione sotterranea destinata alla Tav? Appartiene all’ex
sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi,
che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4
volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir
nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio
dell’umanità. Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni
rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi
lavori?
Ma c’è, nel caso delle grandi opere italiane, un aspetto che getta
su di esse un’ombra di discredito universale e irrimediabile,
sotto cui bisognerà seppellirle. E si deve partire dalla domanda: ma
in Italia abbiamo davvero bisogno di grandi opere? Abbiamo bisogno
di trasformare la Stazione Centrale di Milano in un labirinto di
boutiques che rallentano l’accesso al metro, di costruire una
sontuosa opera da archistar nella stazione di Reggio Emilia,
cattedrale nella campagna per pochi treni e per pochi passeggeri?
Ma noi abbiamo quasi tre milioni di pendolari, lavoratori che
tengono in piedi il Paese, serviti da treni in condizioni
degradate. E i treni merci? Il trasporto su merci arriva oggi a
coprire un misero 6% del totale dei flussi, mentre cresce di anno in
anno il trasporto su gomma e le autostrade sono al collasso. E’ così
che si sostiene il sistema-paese?
Tali considerazioni valgono come preliminari per una
situazione di paradosso ormai esplosiva della vita italiana: noi
abbiamo davanti una gigantesca e ignorata questione territoriale,
fonte di costi continui e crescenti che dissanguano le finanze
pubbliche. Il nostro territorio, che per secoli è stato
sistematicamente curato e posto in equilibrio dalle popolazioni
contadine e dagli ingegneri idraulici, oggi non ha più
manutentori, è assediato dal cemento, viene anzi progettualmente
devastato dal potere pubblico con le grandi opere. Eppure, ce lo hanno
ricordato di recente gli studiosi che hanno collaborato a un
volume dell’ Istituto Nazionale di Geofisica (ne ho scritto sul il
manifesto del 19 giugno), per i disastri idrogeologici degli
ultimi 50 anni noi sopportiamo un costo annuo di 4,5 miliardi di euro.
E una somma quasi equivalente spendiamo nel riparare i danni
prodotti dai terremoti che con implacabile periodicità ogni 4–5
anni colpiscono qualche nostra città o centro abitato.
Dunque quale etica civile può esserci nel progetto di grandi opere
che, a prescindere dalla corruzione, distraggono danaro pubblico
in opere di dubbia necessità a fronte dei bisogni drammatici del
nostro territorio? Mentre le scuole dei nostri ragazzi sono
insicure? Mentre le vere “Grandi opere”, quelle che ereditiamo dal
nostro passato, da Pompei alla necropoli fenicia di Tuvixeddu in
Sardegna, rischiano la degradazione per assenza di cure? Ecco un
vasto campo egemonico che la sinistra radicale e popolare può
occupare: propugnando un vasto progetto di piccole opere, poco
costose e ad alta intensità di lavoro, diffuse, mirate a creare un
sistema efficiente di trasporti su ferro, a valorizzare le aree
interne con agricoltura e forestazione di qualità, a curare i fiumi
e utilizzare le acque interne. Rendiamo permanente
nell’immaginario nazionale l’identificazione fra grandi opere e la
casta corrotta e imponiamo la nostra superiore progettualità.
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